Per chi fu anagraficamente impossibilitato a commentare le vicende di Julian Assange e di Wikileaks quando vennero alla ribalta nel 2010, la ri-esplosione di quest’ultimo colpo di coda di rancori decennali dev’essere parsa sorprendente. Così come vedere tutto ad un tratto liberarsi questa carica polarizzante, rimasta pressoché intatta per quasi quindici anni, evoluta sulle curve contrapposte in teorie al limite del complottismo. Uno stupore forse figlio di uno sguardo non “educato” al livello a cui il dibattito sul fondatore di Wikileaks decise di posizionarsi.
Una prima analisi, preliminare e intuitiva, è la seguente: gli Stati Uniti, in quanto democrazia liberale, si prestavano più di altri regimi alla fuga di notizie, perché la sua popolazione – figlia della cultura liberale – più di altre è suscettibile alla repulsione di metodi che pure sono storicamente connaturati all’attività governativa. Ciò che si analizzerà successivamente è il fatto che tale tensione non solo è intrinseca alle società liberali in quanto tali, ma anche che essa si risolve in una contraddizione strutturalmente insuperabile.
Adottando un quadro interpretativo più raffinato si può però dire qualcosa di più. Friedrich Hegel ebbe ad interpretare la Rivoluzione francese e gli avvenimenti che ad essa seguirono come ad un percorso dello Spirito alla ricerca della mediazione, della sintesi, tra due estremi: il particolare e l’universale – l’individuo e la società. Inizialmente, la Rivoluzione fu un trionfo dell’affermazione dei diritti individuali che oggi classifichiamo come libertà fondamentali e diritti formali di matrice liberale; l’affermazione politica della Rivoluzione, come è ovvio che fosse, si realizzò nella costituzione di una nuova forma di Stato: la Francia repubblicana.
L’obiettivo della conservazione di tali conquiste divenne il dovere di conservazione del nuovo Stato. L’attore a favore del quale la rivoluzione era stata proclamata, ovvero l’individuo, ne divenne allora il nemico naturale: la sua volontà spirituale, per natura imperscrutabile al governante, venne a rappresentare il pericolo originario ed esiziale per la coesione dello sforzo sociale a protezione della nuova Francia. La relazione non mediata tra universale e particolare, che si traduceva nell’irraggiungibile pretesa dell’omogeneità assoluta degli Spiriti, trovò dunque nel sospetto generalizzato e nella colpevolezza fino a prova contraria il suo metodo politico. Detta in altri termini: l’illimitatezza dei mezzi condusse alla negazione perfetta del fine.
La storia della civiltà liberale è proseguita da allora invariabilmente attorno alla dialettica fondamentale tra questi due estremi: lo Stato rappresentante e garante della società da una parte, la libertà e il potere che l’individuo rivendica nei loro confronti dall’altra. Julian Assange ha rappresentato, se vogliamo, un esempio puro del secondo estremo: l’individuo ha diritto di sapere, di sapere tutto, e di sapere sempre, anche quando ciò mette in pericolo lo Stato (gli individui connessi ad esso) e la società di cui, per proprietà transitiva, esso è garante.
La funzione politica dello Stato è l’organizzazione che garantisce l’individuo dal suo simile (ovvero fissa i limiti della sua azione) e rende così possibile la vita sociale. Ne introducono anche la caratterizzazione fondamentale, in particolare la sua “latente tendenza autoritaria di tutti i regimi politici”, per dirla col filosofo torinese Pier Paolo Portinaro, che deriva dall’ineluttabile eccedenza di kratos rispetto ad arché (la dimensione regolativa e limitativa del potere). Ora, la peculiarità fondamentale della filosofia politica occidentale, per come è stata recepita, è che la metafora per cui lo stato sarebbe un’architettura giuridica creata per tutelarne i consociati viene interpretata in senso conclusivo; nessun dunque, nessun ma, nessuna implicazione: lo Stato esiste per tutelare la libertà dell’individuo, end of transmission. L’individuo è legittimato a rivendicare, in ogni momento e ad ogni livello, ogni libertà; l’individuo sa cos’è meglio per la società, non chi quella società rappresenta, ovvero lo Stato.
La tradizione politica classica – quella dello Stato assoluto – è definitivamente e frontalmente affrontata e sconfitta; quella dello Stato dispotico, che serve anch’esso il popolo, ma lo avvisa, per così dire, che tale fine richiede ipso facto la prevalenza dell’universale. In tale contesto lo Stato rimane dunque un’architettura coerente nei mezzi coi suoi fini: il suo compito naturale di garantire l’universale attraverso la limitazione della spinta centrifuga del particolare ha piena possibilità e pieno diritto di dispiegarsi. Un idealtipo che ritroviamo ancora oggi, senza troppi cedimenti di compromesso, nella teoria alla base dello Stato cinese: garante onnipotente contro la frammentazione ideologico-politica della rivoluzione culturale e del periodo dei signori della guerra, e garante contro la fame del Grande balzo in avanti e dell’arretratezza medievale del periodo tardo-imperiale.
In Occidente si è invece imposta, e si è legittimata, una visione radicalmente conflittuale della politica, non solo tra le forze sociali, ma anche e soprattutto del rapporto tra governanti e governati. Lo Stato fu concepito per tutelare l’individuo dal suo prossimo; lo Stato liberale è stato concepito per tutelare l’individuo dallo stato stesso. È agevole ritrovare nei momenti più idealistici dello sviluppo del pensiero politico liberale, ad esempio la fondazione degli Stati Uniti, linee di pensiero, di nuovo, senza troppi cedimenti di compromesso, radicalmente antistataliste: nei pamphlet di Thomas Paine contro l’autoritarismo della tradizione politica europea; nella massima diventata celeberrima attribuita a Benjamin Franklin per cui chi rinuncia alla libertà per la sicurezza non merita né l’una né l’altra; o ancora nel diritto/dovere di rovesciare un governo giudicato dispotico consacrato nella Dichiarazione d’Indipendenza.
Qui emerge il qui pro quo originario della società occidentale: l’ideale liberale, così come è compreso dai suoi cittadini, è individualista e strutturalmente contrapposta alla funzione politica originaria del governo – inevitabilmente comunitarista. È una contraddizione stupefacente, dal momento che un ideale politico, per definizione, può realizzarsi solo nell’azione interindividuale che si fa politica, e dunque sociale, e che viene quindi incorporata nell’azione dello Stato. Ma al tempo stesso, lo Stato che si trova, suo malgrado, a dover interpretare e fare proprio il principio individualista liberale, per sua stessa natura, e per la natura specifica di questo ideale, è destinato a tradirlo inevitabilmente e ripetutamente. Detto in altri termini, dallo stato di natura l’individuo rivendica libertà, e nel farlo si costituisce in società, la quale, per tale scopo, torna a limitare lo spazio d’azione dei suoi membri.
Sovente oggi si criticano i revisionismi antiliberali contemporanei accusandoli di poter trovare la propria radice intellettuale unicamente nel contesto intellettuale liberale. Ovvero che la tensione verso la difesa dei diritti umani, ma anche del diritto di informazione, la difesa della proprietà, dell’habeas corpus, e insomma la difesa dell’individuo contro il potere statale tout court, non possa che essere figlia della visione liberale dell’individuo come contropotere legittimo rispetto allo Stato. Il revisionismo di Assange si può inscrivere entro questi termini di pensiero, ad uno dei poli estremi di questa dialettica.
Da un punto di vista morale, questi revisionismi – perlomeno finché non si colludono, per puro spirito di contrapposizione, coi poteri più dispotici del nostro presente – non si interpretano in antitesi ai valori originari della civiltà occidentale, anzi, se ne considerano i custodi più veraci, e si inseriscono coerentemente all’interno di questa dialettica particolare-universale, seppur con un posizionamento più estremo.
Una dialettica – quella tra la rivendicazione individualista e la necessità comunitarista – in cui lo Stato liberale, concepito come difensore dei diritti individuali, è destinato a diventare il garante, ma al tempo stesso anche il traditore, di tale promessa politica.
Una dialettica che è destinata, nelle società occidentali, a riproporsi senza soluzione di continuità, in un’oscillazione che vede sempre presenti agli estremi il cortocircuito politico per eccellenza: l’individuo che distrugge la possibilità stessa della libertà perché oppresso da ogni forma gestione della stessa da un lato; la società che distrugge ogni libertà individuale nel tentativo di tutelarne una visione specifica. Quanto Assange si è posizionato vicino al primo estremo, e quanto le grandi potenze contemporanee si avvicinano invece all’estremo secondo nella loro politica estera, rimane l’interrogativo che il cittadino si porrà nel giudicare la figura del fondatore di Wikileaks.