OGGETTO: Il tratto messianico dei conflitti odierni
DATA: 07 Ottobre 2025
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Visioni
Nel Medio Oriente si combatte un conflitto privo di razionalità politica e guidata da visioni religiose e punitive. Trump, Netanyahu e Khamenei ne incarnano i protagonisti, ciascuno spinto da una missione ideologica o divina. I loro centri di potere, pur consapevoli dei rischi di un conflitto totale, sembrano destinati allo scontro, sospinti da fanatismi, calcoli di potere e profezie apocalittiche che minacciano l’equilibrio mondiale.
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Mentre in Europa la guerra ideologica – condotta dall’Occidente collettivo contro la Russia – si scontra con la guerra esistenziale – che Mosca combatte per mantenere il controllo su suoi territori ancestrali e per mantenere lo status di superpotenza -, in Medio Oriente prosegue da due anni un’inedita forma di conflitto che si può definire a tutti gli effetti “messianica”. Questo modo di concepire la guerra, sebbene mantenga alcuni classici elementi strategici e geopolitici, in realtà si configura anomalo per l’essere condotto con violenza massimalista, la voluta assenza di linee rosse invalicabili e al contempo o, forse, proprio per i precedenti elementi, per un apparente assenza di razionalità bellica in quanto ispirato da un insano desiderio di “punizione collettiva” unita a una sotterranea visione escatologica.

La “guerra messianica”, quindi, per sua natura manca di obiettivi specifici e di fronti ben definiti e si combatte tanto contro un nemico esterno minaccioso quanto ineffabile, che contro quello interno e perfino dentro le proprie coscienze che devono essere “riprogrammate” per superare ogni scrupolo morale che questa tipologia di guerra richiede; tanto dal provocare periodicamente l’allontanamento e il rimpasto dei vertici militari che la conducono.

Lo scenario dove – come durante le prime crociate – va in scena questa spietata tipologia di conflitto è l’Asia Occidentale come del resto profetizzò nel 2019 Vladimir Zhirinovskij, prevedendo che “una grande guerra scoppierà in Medio Oriente oscurando quella ucraina e ridisegnando l’ordine mondiale”. Quello però che il politico russo non poteva sapere era quanto i profili stessi dei “comandanti in pectore” influenzino la “giostra crudele” e i destini delle nazioni direttamente coinvolte. Sia Trump che Netanyahu, in effetti, paiono sempre più manifestare atteggiamenti e propensioni messianiche. Entrambi sembrano essere convinti d’aver ricevuto una “missione divina” con l’incarico di salvare i propri Paesi da una catastrofe imminente e di porre le basi per un avvenire radioso così, mentre l’uno è ossessionato dal Nobel per la pace presentandosi come un uomo irenico e il secondo come capo di Stato che esercita il sacrosanto diritto all’autodifesa, entrambi minacciano e bombardano Paesi terzi in barba a qualunque diritto internazionale; provocando sgomento, incredulità e rabbia nel resto del mondo.

Trump, dopo essere scampato per un pelo alla morte durante la campagna elettorale, pare essere entrato in modalità “missione per conto di Dio”. Il suo slogan è “rendere di nuovo l’America grande”, sebbene non sia affatto chiaro se per “America” intenda l’“impero americano” che vacilla per sovra-estensione ed è stato modellato a immagine e somiglianza dei “globalisti” che tanto detesta; oppure a una sua versione più ridotta, un ritorno insomma alla dottrina Monroe, quasi impossibile da realizzare senza ridurre drasticamente lo stile di vita degli statunitensi. Netanyahu, invece, prosegue la sua trentennale politica per distruggere fino alle fondamenta l’idea stessa d’una nazione palestinese e per sottomettere ogni Stato mediorientale, rendendo Israele l’unica indiscussa superpotenza della regione. Entrambi, però, per vedere realizzati i loro sogni devono scontrarsi con un gran numero di nemici che paiono, innanzi al loro impegno, moltiplicarsi e coalizzarsi fra loro per frustrarne gli sforzi.

La “lista nera” di Trump è lunga: alla perfida “triade “asiatica che congiura contro di lui – Putin, Xi Jinping e Modi – si aggiungono i cocciuti “scrocconi” europei che si oppongono alle trattative sull’Ucraina; i Paesi Brics che osano dedollarizzarsi; l’Iran e i suoi proxy; i Cartelli della droga (reali e fantomatici). Ma anche i nemici interni non sono meno pericolosi: dalla disonesta cricca democratica alle università infestate dalle “cultural wars”; il “Deep State” con tutte le sue ramificazioni dentro le agenzie governative; la “rete” di Soros, i giudici e la stampa corrotta e, infine, i milioni d’immigrati illegali da deportare con la forza dalla “milizia” Ice. Il funerale-show di Charlie Kirk ha d’altronde momentaneamente oscurato la frattura interna alla galassia Maga dove, una parte di sostenitori è sempre più insofferente nei confronti d’Israele e del continuo supporto che Washington fornisce alla sua guerra senza fine mentre, proprio da quel palco, il presidente ha affermato senza remore di “odiare i suoi oppositori” e di volerli silenziare, ripudiando così uno dei suoi cavalli di battaglia in campagna elettorale; quel diritto al “free speech” che gli era stato negato ai tempi del ban da Twitter.

Netanyahu d’altra parte ha apparentemente un numero inferiore di nemici interni: i giudici che vogliono processarlo per corruzione, una sparuta opposizione interna che vorrebbe il rilascio degli ostaggi e la fine della guerra, un gruppo di ex-ministri e militari che deplorano la sua (assenza di) strategia; ma allo stesso tempo un maggior numero di nemici esterni e infidi alleati: dal principale avversario iraniano agli Houthi che bloccano il commercio di Eilat, Hamas ed Hezbollah ancora attivi, un traballante regime jihadista-siriano e un Egitto che non acconsente al suo piano di deportazione aprendo il Sinai, la Corte Penale Internazionale e un gruppo numeroso di Paesi che ne supportano l’indagine per crimini di guerra e, soprattutto, un opinione pubblica internazionale sempre più insofferente alle atrocità commesse a Gaza. Ai suoi occhi tutti milioni di antisemiti supporter di Hamas. Inoltre, alcuni Paesi europei tradizionalmente alleati, riconoscendo ora la Palestina, manifestano la propria insoddisfazione nei suoi confronti non certo per spirito umanitario ma perché, a causa del suo scellerato superamento di qualunque linea rossa – l’ultima  è stata proprio il bombardamento di Doha – rende loro sempre più difficile nascondersi dietro la foglia di fico del “mondo libero basato sulle regole minacciato dalle autocrazie”.

Il terzo attore della “guerra messianica” è ovviamente l’ayatollah Khamenei, il vertice della Repubblica teocratica che, a parte la retorica sulla distruzione del sionismo e della “morte all’America”, si comporta in maniera estremamente razionale evitando per quanto possibile un confronto diretto e compiendo rappresaglie per lo più proporzionate (se non addirittura di “facciata”) contro le basi americane e contro le installazioni militari nel territorio israeliano; senza però abdicare al ruolo di potenza regionale. Sono lontani infatti i tempi in cui la Repubblica iraniana minacciava d’esportare la rivoluzione in tutta l’umma e, sebbene la posizione religiosa sulla dotazione d’un armamento nucleare sia sempre stata quella d’un netto rifiuto – sfociato poi nell’accettare le ispezione della IAEA e la sottoscrizione del cosiddetto JCPOA, poi stralciato da Trump -, la sempre maggiore assertività del blocco occidentale, sfociata nel proditorio attacco  del 13 giugno, potrebbe indurre la dirigenza iraniana e compiere gli ultimi passi verso la costruzione di un ordigno che assicuri una certa deterrenza nei confronti d’Israele e Stati Uniti, secondo la “lezione” nordcoreana; eppure è proprio nel concetto della “guerra messianica” che questo aspetto, lungi dal poter essere un logica rassicurazione di stabilità assicurando la reciproca distruzione, condurrebbe inevitabilmente a una grande guerra dove l’utilizzo di tali armi non è da escludere. La propensione al martirio e alla sofferenza tipica della fede sciita del resto non concede dubbi sul fatto che di fronte a una aggressione a tutto campo – magari anche con l’utilizzo di forze navali e terrestri – l’Iran condurrebbe una “guerra santa” da combattersi fino all’ultima cartuccia disponibile.

Da un punto di vista strettamente militare a nessuno dei tre attori un conflitto conviene: non a Israele che già ha avuto prova durante la “guerra dei dodici giorni” di mancare della profondità strategica necessaria e d’essere vulnerabile ai missili balistici iraniani; né agli Stati Uniti che, ancora una volta, distrarrebbero preziose risorse dal fronte del Pacifico e tantomeno all’Iran, data l’impossibilità di sconfiggere i suoi avversari. Tel Aviv d’altronde non è riuscita ancora a chiudere nemmeno uno dei  sette fronti – Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Iran e Yemen – dove il suo esercito è impegnato dal 7 ottobre 2023; Washington, a sua volta, risulta ancora coinvolta in Ucraina e un grande conflitto nel Golfo Persico porterebbe a un immediato rialzo del prezzo del petrolio nonché a una più che probabile chiusura dello stretto di Hormuz che, unita a al blocco già parzialmente in atto a Bab el-Mandeb, vanificherebbe di colpo ogni velleità nel dissuadere all’acquisto delle risorse energetiche russe. Eppure, nonostante ogni logica di buon senso, un nuovo attacco all’Iran pare inevitabile se non già addirittura in avanzata fase di preparazione.

A spingere Netanyahu all’azione infatti non è solo il pluridecennale odio nei confronti nei confronti del grande Paese sciita, né la considerazione che il tempo possa giocare a sfavore d’Israele, dal momento che la costruzione di missili intercettori è più lenta rispetto a quella dell’ampliamento dell’arsenale missilistico iraniano ma, soprattutto che l’integrazione dei Brics e della SCO programmata da Pechino e una Russia libera del fardello ucraino, garantirebbero mano libera ai due Paesi nell’aiutare Teheran a prepararsi un nuovo round. Il dispiegamento di batterie antiaeree russe e l’arrivo di caccia cinesi vanificherebbero qualunque ipotesi di vittoria in futuro. L’irrazionale motivo sotterraneo che però induce l’esecutivo israeliano a volere colpire a ogni costo il prima possibile deriva in realtà dalla stessa composizione fondamentalista del governo di Gerusalemme, dove questa guerra è ormai ammantata da riferimenti biblici: la distruzione di Amalek con tutti i suoi figli; i carri di Gedeone e, infine, lo scontro finale in cui Israele solo contro tutti trionferà ricostruendo il terzo tempio realizzando così l’arrivo del Messia.

Negli Stati Uniti d’altronde, specialmente in quella parte di movimento Maga strettamente connesso con le Chiese evangeliche, al di là della retorica sull’aiutare il principale “alleato”, s’innescano parimenti le stesse suggestioni escatologiche che, attraverso il sionismo cristiano, vede il ritorno in Terra Santa di tutti gli ebrei propedeutico al secondo ritorno di Gesù Cristo e al compimento della profezia sull’apocalisse.

Solo prendendo così terribilmente sul serio queste suggestioni basate su predizioni millenarie si riesce a comprendere l’essenza stessa dell’attuale “guerra messianica” e, in effetti, se guardiamo a ciò che sta accadendo tra il Nilo e l’Eufrate e tra il Mediterraneo e il Mar Rosso, sono esattamente gli stessi confini geografici del cosiddetto “Grande Israele” a star facendo collimare tutti i pezzi della “guerra mondiale a pezzi”, spingendo il mondo intero ad aderire forzatamente a due blocchi contrapposti in aperta guerra fra loro perché, come scrisse dal carcere Gramsci, quando “il vecchio muore e il nuovo non può nascere in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.               

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