Intervista

«Il predominio assoluto dell’oggi e il predominio assoluto dell’io ci impediscono di riconoscere maestri, di essere eredi e di avere eredi»: Intervista a Marcello Veneziani

«Siamo da tempo in fuga dalla memoria storica, consideriamo il nostro tempo come assoluto e dunque come tale non collegato al passato e all’avvenire, ma interamente risolto nel presente.»
«Il predominio assoluto dell’oggi e il predominio assoluto dell’io ci impediscono di riconoscere maestri, di essere eredi e di avere eredi»: Intervista a Marcello Veneziani
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Parafrasando Ugo Ojetti possiamo dire che la nostra è un’epoca di contemporanei. Senza passato, senza futuro, senza antenati, senza eredi. Un tempo imprigionato in un eterno presente che vive vittima dell’istante, dell’euforia del momento, dell’anomia di una vita priva di cardini, legami, vincoli. E per queste ragioni la nostra è un’epoca quindi priva di maestri, di grandi insegnamenti. Anche perché orfana di una destinazione, di un compito, di un avvenire che prova vagamente a surrogare in visioni transumane, eco-utopiste, woke, che però non fanno altro che alimentare questa paralisi e questo oblio. Va quindi lodata di fronte alla cappa dell’eterno presente – fatta di slogan e non di lezioni, di testimonial ma non di testimoni, di censori ma non di maestri – l’ultima opera di Marcello Veneziani: “Senza eredi. Ritratti di maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella” (Marsilio). Un libro-miniera che regala al lettore una galleria magistrale di ritratti, di personaggi e personalità, dei grandi maestri del passato (e alcuni cattivi maestri del passato prossimo) oggi ridotti ad essere imperdonabili censurati da una nuova cultura iconoclasta. Una galleria di ritratti che mischia sociologi, scrittori, filosofi, maestri (italiani e non) resi con uno stile ritrattistico degno dei grandi pantheon letterari della nostra tradizione saggistica.

Dai “Mostri sacri” di Bettiza ai “Protagonisti” di Montanelli, passando per gli “Uomini che fecero l’Italia” di Spadoliniana memoria, fino ai ritratti di Ugo Ojetti. Regalandoci un pantheon proibito che va da Vico a Pasolini, da Croce a Pound, da Giuseppe De Rita a Massimo Cacciari, passando per scienziati filosofi come Federico Faggin o firme monumentali come Marcel Proust. Ne emerge un “libro arca” appunto che riannoda i nomi e gli esempi di un passato grande, e a volte ingombrante, che va salvato dal diluvio inquisitorio odierno per essere letto, capito e tramandato perché irrimediabilmente connesso e inscindibile dal nostro mondo, e dalla cui analisi può emergere, finalmente, la via per superare la paralisi del presente.

-Veneziani, perché “Senza eredi”? E cosa accomuna i protagonisti dei “Ritratti di maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella” che troviamo nel suo ultimo libro?

Sono autori differenti, per epoca, spessore, campi di interessi, tra pensatori, letterati, scrittori, poeti, scienziati, giornalisti. Il filo che li accomuna, ma che riguarda anche i classici, è che non sono più considerati come maestri, riferimenti, padri; sono cancellati, dimenticati, rimossi. Prevale l’idea che noi siamo figli del nostro tempo e non dobbiamo alcuna gratitudine né tantomeno alcun debito di opere e pensieri ai nostri predecessori. Siamo autosufficienti, siamo parvenu, self made men. È la nostra società senza eredi.

-Quali sono stati secondo lei i motivi e le origini di questa deriva che ha portato verso una “odiernità” (come la definì in una sua intervista) fatta di eterni contemporanei che si sentono gli ultimi e gli unici?

Un assoluto individualismo che ci fa interrompere ogni idea di continuità, ogni connessione; un individualismo faidate, autarchico, che ha bisogno solo di tecnologia e di comunicazione. In secondo luogo, siamo da tempo in fuga dalla memoria storica, consideriamo il nostro tempo come assoluto e dunque come tale non collegato al passato e all’avvenire, ma interamente risolto nel presente. Il predominio assoluto dell’oggi e il predominio assoluto dell’io ci impediscono di riconoscere maestri, di essere eredi e di avere eredi.

-Come si inserisce quest’opera nel suo complesso filosofico, saggistico e culturale? E come è cambiato il Marcello Veneziani di “Senza eredi” rispetto a quello di un altro straordinario libro di ritratti come “Imperdonabili”?

Senza eredi è nel solco di Imperdonabili, ne è in qualche modo la prosecuzione. Nel contesto generale dell’opera, si tratta di due libri che cercano di offrire al lettore una guida, un atlante critico e ragionato per orientarsi nelle letture, tra gli autori, offrendo loro chiavi di lettura, interpretazioni e succinti ritratti in cui la vita e l’opera riemergono in una visione sintetica e intrecciata, ma non attraverso uno schedario asettico: sono pure sempre punti di vista su quegli autori e sulla loro incidenza. Lo scopo è esortare a leggerli, a conoscerli, a inoltrarsi nelle loro pagine. Per quel che mi riguarda sono gli autori a cui devo il mio cammino d’autore.

-La nostra epoca ha fatto suo l’adagio di Luigi XV per cui dopo di noi il il diluvio. Ma secondo lei quale potrà essere il futuro che succederà a questa fase degli ultimi contemporanei?

Non c’è futuro con una premessa del genere, ci sono solo rovine e fine dell’umanità. Se dopo di noi ci sarà il diluvio non c’è idea di eredità, di natalità, di trasmissione che possa in qualche modo permettere che vi sia un avvenire. Ma a questo destino non riusciamo a credere, e oltre a ribellarci, confidiamo nell’insorgenza della realtà che smentirà questo delirio autodistruttivo, questa compiaciuta dichiarazione di autodissoluzione e di fine dell’umanità con la nostra scomparsa.

-Quali sono le ragioni che ci hanno portato in questa condizione di affollato e sradicato isolamento e da dove ripartire per superarlo? Dal sacro, dal mistero, dalla parola?

È un processo lungo, plurisecolare, con varie tappe e varie stazioni, che si è particolarmente acuito e accelerato negli ultimi decenni, diciamo dal ’68 in poi. Superarlo vuol dire innanzitutto riprendere a pieno l’esercizio critico dell’intelligenza, l’umiltà di abbeverarsi alle fonti degli autori e delle tradizioni e in generale alle radici; poi ridestare col senso critico, il valore procreativo e fondato del pensiero e della poesia, aprendosi certo al mistero, al sacro, all’irruzione di fattori non considerati nel corso della storia, superiori alla tecnica e all’economia, attinenti alla cultura e alla civiltà, al senso religioso e al senso della bellezza.

Roma, Febbraio 2025. XXIV Martedì di Dissipatio

-Tra i ritratti più significativi spicca certamente quello di Giambattista Vico, autore a cui ha dedicato il suo splendido romanzo “Vico dei miracoli. Vita oscura e tormentata del più grande pensatore italiano” (Rizzoli). Perché secondo lei è il crocevia della cultura italiana e delle culture civili dell’Italia moderna?

Perché Vico ha pensato un’altra modernità, un’altra scienza, un’altra visione della storia e della vita. E ha compreso che non si può fondare una società separando il mito dalla religione, la religione dal pensiero, la filosofia dalla scienza, il pensiero dalla storia, la storia dall’arte e il linguaggio dalla poesia, ma una civiltà è l’intreccio di quei mondi, la connessione tra i saperi, la capacità di sintetizzare il senso storico, concreto e terreno della vita col senso religioso, spirituale e trascendente che ne illumina il corso, il ricorso e il percorso.

-Leggendo i ritratti di Manzoni e Baudelaire viene in mente la differenza centrale in un suo precedente testo edito Vallecchi tra i “Fiori del bene” e i “Fiori del male”. Perché secondo lei la via manzoniana è quella più adeguata per portare avanti una visione tradizionale e conservatrice nonostante gli sprazzi reazionari dei Diari intimi?

Baudelaire è uno straordinario testimone della condizione moderna, costeggia l’inferno per raggiungere il paradiso, e ci mostra in negativo la nostra vita insensata e i suoi deliri. Manzoni invece è tutto proteso a cogliere i fiori del bene, a mostrare la necessità di agire con senso morale, estetico, religioso, nel segno della provvidenza e della fiducia storica e metastorica. I fiori del male sono la poesia del moderno che ha perso la via s’inabissano nel nulla e nel caos; i fiori del bene sono la letteratura che ritorna alle sorgenti dell’essere e ritrova la vita e il suo ordine intelligente.

-Tra i ritratti più prossimi temporalmente spiccano quelli su Fausto Gianfranceschi e Augusto del Noce che anticiparono molte delle patologie della postmodernità. Dal politicamente corretto al costruttivismo politico quanto sono tristemente attuali le lezioni di questi maestri?

Gianfranceschi fu un giornalista e uno scrittore che precorse la critica al politically correct e all’ideologia woke, nel nome della tradizione, della realtà e della civiltà cristiana. Del Noce è stato invece il pensatore transpolitico italiano più acuto nella seconda metà del novecento, che ha indagato con implacabile lucidità nell’epoca dell’ateismo e della secolarizzazione, del radicalismo libertario e del nichilismo gaio, cercando di annodare la tradizione religiosa alla tradizione italiana, la fede cristiana alla ragione nazionale e popolare. Di Gianfranceschi fui amico, di Del Noce fui allievo.

-Perché il tramonto dell’Italia è il tramonto di Manzoni, come scrive nel ritratto del Grande Lombardo?

Perché l’Italia uscita dal Risorgimento affidò a lui e alla sua opera il compito di educare gli italiani e di formare quel credo morale e religioso, all’insegna della libertà, della fede e dell’amor patrio. La dimenticanza del Risorgimento e più vastamente la perdita della dimensione nazionale e religiosa, ha colpito anche Manzoni che dopo un secolo di rilevanza è scivolato nell’oblio.

-Dal PCI al PC (Politically correct), da Moravia e Pasolini all’attualità come è degenerata l’intellighenzia italiana tra Indignati, Imboscati e Impegnati?

Gli intellettuali italiani nel novecento hanno espresso anche punti alti di lucidità, profezia e coerenza, a volte esempi di coraggio; ma alla fine ha prevalso il conformismo, con una serie di alibi e di pose intellettuali che non hanno certo deposto a favore della loro credibilità. Ai Gobetti, ai Gramsci, ai Gentile, ai Pasolini, ai Prezzolini, ai Del Noce e molti altri, che pagarono di persona la loro scelta, si sono opposti sciami di intellettuali voltabandiera, organici al potere e al partito, disposti a sottomettere la passione di verità che dovrebbe caratterizzarli al vantaggio di partito e a quello personale.

-Quali sono i progetti a cui sta lavorando?

Tanti progetti, e non tutti già palesati. Farò una tournèe nei teatri italiani con uno spettacolo di pensiero, musica e lettura dedicato a Vico, a tre secoli dalla Scienza Nuova; uscirà in maggio un libro fotografico con un mio testo dedicato a “C’era una volta il sud”, un viaggio nostalgico per immagini, ricordi e pensieri al meridione di un tempo; e poi sto lavorando a un’opera assai impegnativa e ardita che metterà a fuoco due figure chiave e un crocevia decisivo nel pensiero e nella storia, che abbiamo alle spalle ma un balcone che si affaccia nel futuro postumano…

-Quest’anno cade il centenario della nascita di Giovanni Spadolini (che con la sua opera connesse la tradizione risorgimentale e la stagione delle grandi riviste da La Voce a Il Mondo). Può essere considerato anche lui un grande maestro e per certi versi un imperdonabile anche per la realizzazione di grandi gallerie ritrattistiche di protagonisti dell’ottocento e del novecento?

Spadolini fu un grande uomo di cultura, uno storico di valore, un oratore facondo, un bibliofilo appassionato, un cultore del risorgimento e un politico controverso, di cui personalmente non ho condiviso le sue posizioni. Non è tra i miei autori, non lo considero un imperdonabile o un grande maestro; ma ad avercene oggi di intellettuali, storici e politici come lui.

-Cosa ne pensa della Nousym portata avanti da Federico Faggin e come la dimensione del sacro si può affermare in sinergia, pur evitando derive gnostiche, con quella della ragione e della fede?

È la riscoperta della dimensione spirituale della vita e dell’universo, che integra la scienza, il pensiero e la fede, richiamandoci alla nostra umanità e finitudine. Una spiritualità che si incarna nell’umanità, si cala nella storia e si protende nel mistero dell’Essere, e perciò si distingue da ogni deriva gnostica e da ogni negazione dell’essere e del reale.

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