Potrebbe essere sorpresa la parola chiave del colloquio tra Tucker Carlson, mattatore trumpiano del giornalismo USA, e Vladimir Putin, autocrate solo apparentemente inossidabile della Federazione Russa in guerra da ormai quasi due anni. Sorpresa perché l’intervista-fiume – ben centotrentasette minuti di girato andati in onda via Internet alla mezzanotte ora italiana di giovedì scorso – era per lungo tempo rimasta una tenue voce di corridoio, non da ultimo per via del precedente intervento di un’FBI a dir poco infastidita dall’ennesima esuberanza del fu anchorman di punta di Fox News. E perché, a scapito dei frettolosi pronostici susseguitisi subito dopo l’annuncio, un paio di giorni fa, che l’incontro ci sarebbe stato davvero, quella col numero uno del Cremlino si è rivelata una conversazione tutto sommato banale, perfino noiosa.
Nessun commento sulle prossime elezioni statunitensi, né sul declino (reale o presunto) dell’Occidente, grande cavallo di battaglia di Carlson: pressoché l’intero dialogo verte prevedibilmente sul conflitto con la vicina Ucraina. La quale, sostiene Putin in un pedante excursus storico di quasi mezz’ora, non sarebbe una nazione a sé, ma piuttosto un mero artificio politico, creato a proprio uso e consumo dall’Unione Polacco-Lituana e poi avallato e favorito, «non si capisce bene perché», dall’URSS di Lenin e Stalin. L’invasione? Da ascrivere alla NATO in generale e agli USA in particolare, colpevoli l’una di essersi rimangiata la promessa — informale — di restare entro i propri confini pre-‘89, gli altri di aver sobillato insieme ai loro «vassalli» europei le opposizioni interne di Kiev nel tentativo sistematico, infine riuscito, di separarla dalla sorella maggiore. Ne sarebbe nato un Quarto Reich in erba, che la Federazione si è vista suo malgrado costretta a denazificare; il processo, ammette laconico lo Zar, resta incompiuto.
Sospeso in questa sede ogni possibile giudizio sul merito delle affermazioni di Putin, non si può comunque fare a meno di constatare che alla prova dei fatti lo scoop del decennio è nulla più di un condensato della retorica arrivata da Mosca durante questo biennio di incessante carneficina. Dello shock paventato in apertura non c’è traccia; anzi che un semplice montaggio delle dichiarazioni ufficiali rese dal Presidente e dagli alti papaveri dell’oligarchia russa riguardo la spetsoperatsija avrebbe con tutta probabilità sortito lo stesso effetto a rischio zero. Poco male per Tuck, che a neppure un anno dall’ingloriosa cacciata dalla rete dei Murdoch — dovuta, sembra, ad una causa per diffamazione istigata dalle uscite sopra le righe del conduttore e costata all’azienda la bellezza di ottocento milioni di dollari — si conferma per acclamazione il personaggio più in vista del panorama mediatico globale, complici anche il gigantesco seguito racimolato su X e il favore, affatto nascosto, del suo neo-proprietario Elon Musk.
Quanto all’intervistato, il ritratto che ne emerge non è lusinghiero. A più riprese Putin appare spazientito, confuso, erratico. In una parola, stanco. L’immagine di impassibile calcolatore, coltivata con un’attenzione al limite del maniacale (e rafforzata, bisogna sottolinearlo, da una certa fascinazione perversa che lo ha sempre accompagnato da queste parti), cede il passo in alcuni momenti all’impressione che il supremo burattinaio della politica russa stia iniziando ad accusare, anche fisicamente, lo stress costante al quale è sottoposto da quel fatidico 24 febbraio. L’occasione unica offertagli dalla rocambolesca trasferta moscovita di Carlson è andata perlopiù sprecata: invece di rivolgersi al malleabile pubblico dello showman, per esempio insistendo sul sempre maggior divario tra l’esborso finanziario sostenuto dall’Ovest in appoggio all’Ucraina e gli effettivi risultati raggiunti sul campo, l’ex colonnello del KGB si è sovente lasciato trasportare dalla frustrazione, intento ad interloquire con avversari la cui accettazione sembra ancora cercare.
È quantomai evidente il risentimento di Putin nei confronti degli zapadnye partyori, i partner occidentali al cui tavolo la Russia post-sovietica aveva sperato di poter un giorno sedere da pari. Tutto invano, sospira richiamando la prospettata adesione al blocco atlantico ed il progetto di un sistema di difesa missilistica congiunto per il Vecchio Continente: l’interesse manifestato sia da Clinton che da Bush figlio per queste iniziative ebbe vita brevissima, stroncato a suo dire dalla ferma opposizione dei medesimi apparati d’intelligence a stelle e strisce autori, qualche anno dopo, del «colpo di Stato» di Euromajdan. «Sembra che lei stia descrivendo un sistema che non è gestito dalle persone elette a tale scopo», chiosa svelto Tucker; «Esatto», replica l’autocrate settantunenne. Nella conversazione fa così capolino il Deep State, altro tema assai caro a Carlson: da un lato quello americano, belva feroce andata fuori controllo, dall’altro quello russo, animale anch’esso pericolosissimo e che però Putin, spia tra le spie, sarebbe riuscito a domare.
Ma lo Stato Profondo non è fatto di soli 007; molte sono le correnti che agitano il corpo titanico della Russia e se ne contendono il controllo. Anzitutto quella liberale, cui appartiene tra gli altri Elena Nabiullina, governatrice tanto abile quanto reticente della Banca Centrale, che continua a coltivare la segreta speranza di un disgelo coi ricchi vicini del Collective West; quella ultranazionalista, capeggiata da un Dimitri Medvedev in grande spolvero, sempre generoso di sparate tranchant e minacce per niente velate; le sempiterne pulsioni autonomiste dei popoli non-russi, ben incarnate da Ramzan Kadyrov e dalla sua doppiezza rispetto ad un potere che ha imparato a compiacere con le parole per poterlo all’occorrenza sfidare con le azioni. Sullo sfondo le purghe a danno di decine di magnati, spogliati di botto delle loro ricchezze o direttamente della vita, e le tensioni interne all’elefantiaca macchina militare del Cremlino, sfociate nella fallita sollevazione dei mercenari del Gruppo Wagner di Yevgheny Prigozhin.
In mezzo c’è lui, Putin, autocondannatosi a sorreggere alla maniera di Atlante il peso di un sistema al quale ha venduto l’anima pur di non venirne schiacciato. Un patto faustiano concluso in ossequio ad una precisa visione del mondo, della Storia e del posto che la Madre Russia deve occupare in entrambi, che l’intervista ha se non altro il merito di mettere a nudo per intero. Mosca ha il diritto di tornare al rango di potenza mondiale; i vincitori della Guerra Fredda le impediscono però di goderne, timorosi che il Paese riacquisti la forza perduta al crollo del regime sovietico e possa dunque mettere in discussione l’ordine che essi si sono costruiti a proprio esclusivo beneficio. Ne discende un approccio squisitamente paretiano delle gerarchie internazionali, non troppo diversa da quella appartenuta al fascismo, al nazional-socialismo e in una certa misura allo stesso bolscevismo: di fronte al rifiuto stizzito delle élites, a quanti avrebbero voluto unirvisi in modo organico non rimane che accelerare il loro ciclo di circolazione e rimpiazzarle.
Non c’è dubbio che l’Occidente USA-centrico sia — e, dato forse più importante, si consideri — l’élite del ventunesimo secolo. Ed è abbastanza sicuro, nonostante i suoi recenti tumulti ideologici, che voglia restarlo; anche a questo serve d’altronde la nozione di fine della Storia che da oltre tre decenni informa la nostra weltanschaaung, imperniata com’è sull’idea di un presente senza data di scadenza. Vorremmo insomma tenere ferme per sempre le lancette dell’orologio, Putin invece vorrebbe spostarle. In avanti, assicura, verso un assetto planetario realmente equo e paritetico. Indietro, viene da pensare al termine delle due ore di vis-à-vis con Tucker Carlson. Che pur non volendo ha dato ai suoi spettatori la chiave di lettura più efficace dello scontro in divenire tra le due metà della terra: ora contro allora, l’attualità costante contro il passato che non passa, per uscirne da padroni assoluti ed indiscussi del tempo.
Va da sé che una simile dicotomia non lasci molto spazio al futuro. Interrogato in proposito, Putin taglia (relativamente) corto: è bene che a Washington si mettano in testa che la Russia non si può battere e cerchino un’intesa negoziata, se necessario anche tramite Zelensky. Dal canto suo, il presidente ucraino non ne vuole sapere di trattare. L’allontanamento del capo dello Stato Maggiore Congiunto Valerii Zaluzhny, sostituito dal suo sottoposto Igor Syrsky (la cui difesa ad oltranza di Bakhmut gli è valsa presso le truppe gialloblù l’infelice appellativo di macellaio) e la creazione di un ministero per i sistemi d’arma autonomi, incaricato di ribaltare lo schiacciante vantaggio del nemico in materia di droni, sembrano in effetti suggerire il passaggio ad una strategia più aggressiva di quella seguita finora. I successi sul Mar Nero, dove la flotta russa è pressoché relegata al porto di Sebastopoli, non bastano a tutelare Kiev dall’incertezza della prossima, intensissima stagione elettorale; meglio fare il possibile in attesa di un po’ di stabilità.
In conclusione, la controversa operazione di Carlson sembra sia riuscita nella non facile impresa di presentare in un formato digeribile un buon sunto del Putin politico, ideologo, addirittura uomo. E di aver riassunto, ricalcandola, la nostra opinione di questa guerra: cioè che, aldilà della fanfara, non ne valeva la pena.