OGGETTO: Il mondo visto da una limousine
DATA: 13 Luglio 2025
SEZIONE: Postumano
David Cronenberg, maestro assoluto del body horror, ha saputo anticipare, riadattando un romanzo del postmoderno Don De Lillo, il nostro futuro crepuscolare mostrandoci in diretta il naufragio della civiltà occidentale, lo spleen della classe elitaria alle prese con il senso di impotenza in un sistema straziato dalle proprie contraddizioni.
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Un artista è veramente grande se riesce a barare alle regole del suo tempo. Un regista dimostra il suo valore sfolgorando rispetto agli epigoni dei grandi nomi della settima arte quando si fa profeta diventando un medium di forze inconsce che si agitano confuse nell’immaginario della sua epoca. In poche fortunate eccezioni la cinepresa traduce per immagini con una carica maggiore quanto è stato teorizzato, scritto, analizzato realizzando un’opera ermeneutica infinitamente più sottile e ricca della migliore delle sterili pubblicazioni dell’industria culturale. Per pochi attimi insuperabili, accade così che lo sguardo del cineasta si apra verso orizzonti inattesi catturandoli con la macchina da presa e fissandoli sulla pellicola pere renderli fruibili allo spettatore ignaro che ne viene sconvolto. Dal malato e conturbante “Stereo” del lontano 1969 in avanti, nessun lungometraggio cronenberghiano può essere tacciati di mancanza di coraggio e timore di spingersi al limite del consentito per scavare nel rimosso della società portandone a galla le mutazioni profonde specchio delle metamorfosi fisiche dei suoi personaggi.

Se gli intrecci tra i corpi e le macchine tipici dei suoi lavori possono trovare una conferma nel cyberfemminismo teorizzato da Donna Haraway a metà anni Ottanta, favorevole ad una simbiosi anti-dualista tra i due poli esplorata dal regista in opere cult quali il disturbante “Videodrome” (1983) o il ballardiano “Crash” (1996), è forse “Cosmopolis” (2012) il suo prodotto cinematografico più vicino a noi, in anticipo sulla pista suicidaria imboccata dalla nostra civiltà. Il film è tratto dal romanzo omonimo uscito nove anni prima dalla penna di De Lillo, brillante autore di opere innovative come “Underworld” che hanno saputo descrivere il frammentarsi dell’identità contemporanea e il profluvio delle angolature irriducibili che essa offre, la sua realtà schiumogena direbbe il filosofo Peter Sloterdijk nella trilogia dedicata alle sfere. Difatti, nel romanzo la prospettiva fluttua tra quella dell’algido multimiliardario Eric Packer in preda a crisi esistenziali e il disturbato vittima-carnefice Benno Levin, sua nemesi e doppio speculare che si autodescrive nel corso della narrazione in alcune confessioni.

Centrale, tanto nel romanzo che nel lungometraggio cronenberghiano, il topic classicamente postmoderno della discrasia, della rottura degli equilibri, della disarmonia che rende impraticabile qualsiasi ricomposizione pacifica. Cronenberg è molto bravo a trasporre questa enfasi sulla conflittualità irrecuperabile e senza sbocchi mostrando la dicotomia stridente tra ambienti asettici e puliti e singoli fotogrammi che inquadrano strade congestionate da manifestanti intenti alla guerriglia senza quartiere contro un sistema tentacolare che sequestra possibili alternative. Facendo balzare all’occhio con maggiore veemenza divorzio, la scissione tra un mondo esterno caotico e in preda alla crisi irreversibile tra manifestazioni di lusso fine a se stesso (i funerali della rap star) e crisi sociopolitica rampante e gli interni dell’automezzo ipertecnologizzato di Packer che gli si stringe intorno come un’armatura protettiva. Il mondo è ormai “dentro il capitale” per dirla sempre con Sloterdijk, ed exit strategy alla regolamentazione strettissima promossa dai meccanismi di accumulazione economica volta all’incremento dei margini di profitto e all’efficienza passano per ribellismi rassegnati alla sconfitta, il realismo capitalista tiene banco.

Nel corso del lungometraggio, infatti, si ha la sensazione fatalistica di assistere ad una tragedia greca, dove le azioni dei personaggi sono come preordinate e conducono allo scacco ineluttabile: verso la fine del film parrebbe profilarsi un’occasione di catarsi per il protagonista di ghiaccio interpretato da Pattinson che sembra riumanizzarsi, ma è solo una parentesi nel suo percorso autodistruttivo, senza redenzione. La storia si snoda seguendo il tragitto della limousine del giovane miliardario diretto dal barbiere di fiducia e alle prese con un crollo azionario che lo destabilizza psicologicamente, gravitando attorno ai propri tentativi fallimentari di arginare l’emorragia di azioni che minaccia di affossarne l’impero economico. Il viaggio incontra diversi intoppi, il giovane ha modo di sollazzarsi con varie figure femminili del proprio entourage e gli viene eseguita una visita medica di routine direttamente sulla limousine dove veniamo a sapere un particolare sulla condizione di salute di Eric che diventerà centrale nel prosieguo del film. Saputo di aver addosso il mirino puntato da un ignoto, il protagonista cerca la propria fine volontariamente, dapprima mostrando paranoia verso i rischi della situazione, successivamente visitando il potenziale omicida nonché ex dipendente della sua impresa multinazionale che ne deciderà la sorte. L’atmosfera del lungometraggio cronenberghiano è plumbea, le scene procedono monotone, i dialoghi con gli altri personaggi sono artefatti e cerebrali, tant’è che si ha la sensazione di avere a che fare con dei manichini o degli androidi (le scene di sesso assomigliano alla sequenza del Casanova felliniano dove Sutherland ha un coito con una bambola) fatto salvo il momento in cui Pattinson fa dell’autolesionismo per recuperare tardivamente le briciole della propria umanità compromessa.

Si potrebbe citare qui lo sfilacciarsi delle relazioni interpersonali e del legame comunitario diagnosticato al sistema capitalista da studiosi quali Richard Sennett, Nancy Fraser o Oliver James, come pure le celeberrime ricognizioni sulla reificazione lukacsiane e le critiche al paradigma utilitaristico del M.A.U.S.S. francese. Il lungometraggio, in altri termini, mostra uno scenario della “guerra di tutti” per dirla alla Raffaele Alberto Ventura, un regime sociale in putrefazione accelerata attanagliato da contraddizioni insanabili e dal mancato riconoscimento simbolico di fuoricasta disperati che gridano il loro dolore impotente ai margini di metropoli sfarzose. Eric come Benno è una pedina della “megamacchina” (cit. S. Latouche) sociale a spirale assurda che tortura senza sosta le sue vittime sospingendole verso la mera prestazione allucinata (emblematizzata dal ricchissimo protagonista ossessionato dalla perfezione della regolarità geometrica) o la marginalizzazione sociale e il risentimento frustrato (nel caso di Benno, gemello rivale di Packer ma anche sua possibile evoluzione per le perdite economiche sempre più ingenti).

Riprendendo le analisi del filosofo Roberto Esposito, è come se il sistema sociale di Eric morisse di eccesso di auto-immunizzazione diventando tanatopolitico, preda del desiderio spasmodico di trovare una giustificazione razionale alla sua condizione precaria di incertezza riaffermando il controllo sulla realtà tanto inseguito finisce per rendersi vulnerabile cedendo le armi al suo futuro aggressore. Il suo micromondo di rapporti di forza e potere economico si spezza per effetto dell’alterazione impercettibile dell’andamento di una valuta: in questa parabola discendente il senso profondo consiste nel fatto che tanto più il personaggio incrementa il controllo feroce sullo spazio intorno a sé andando alla ricerca di regolarità nel sistema azionario in grado di schermarlo dalle perdite che sta subendo tanto più il mondo di Eric incomincia a traballare e il capitalismo finanziarizzato si rivela per la burla nonsense che è, una protezione dal caos inesorabile del mondo al di fuori dallo specchietto della sua costosa limousine. Andando a visitare il suo futuro carnefice (anche se il regista sospende il giudizio lasciando il suo fato incerto nell’ultima inquadratura), Eric vive una breve epifania, ferendosi pare riacquistare per brevi attimi consapevolezza di se stesso, successivamente in dialogo col suo ex sottoposto comprende l’assurdo di aver cercato linearità e regole laddove la vita medusea basta a se stessa e si dimostra refrattaria ad un senso impostole da un sistema calcolante teso all’efficientamento produttivo di marca capitalistica. Il protagonista si rende conto che la sua incapacità di prendere in considerazione le anomalie (simbolo di tutto questo il momento in cui scopre di avere la prostata asimmetrica dal medico) lo ha condotto sulla falsa strada di una razionalizzazione totale decretandone la caduta in borsa. Il tracollo dell’anti-eroe del lungometraggio cronenberghiano finisce pertanto per raccontare la storia della nostra società: l’ossessione del controllo a tutti i costi del giovane riccastro ci permette di afferrare l’irrazionalità stritolante del nostro sistema economico, la sua fissazione per le simmetrie ci rammenta delle follie della religione sacrificale capitalistica di cui parlava già Walter Benjamin, l’anomia societaria dei suoi interlocutori la respiriamo in presa diretta deprivati come siamo del contatto con forme di vivere collettivo a vantaggio della completa flessibilizzazione lavorativa e della precarizzazione professionale generale.

In definitiva, Cronenberg mostra le zone d’ombra dell’accelerazione produttiva del Capitale spinta oltre la barriera del suono fino a deumanizzare la forza lavoro (Benno) sussumendola vampirescamente a vantaggio di classi simil aristocratiche ultracompetitive assetate di potere e bramose di imporre il proprio impero separati dal resto del mondo (lo Sprawl dello scrittore William Gibson), facendo una stratigrafia del modello societario tecnofeudale che ci stanno preparando sotto i nostri occhi. Tutto questo fornisce alla pellicola una capacità di penetrazione della realtà di non secondaria rilevanza malgrado i risultati al botteghino modesti: da rivedere soprattutto per rivedercisi, ora testimoni impotenti della crisi democratica e dell’ascesa di modelli di capitalismo sempre più famelici e postumani.

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