È ormai passato oltre un anno da quando Mario Draghi ha presentato il suo celebre omonimo rapporto sulla competitività, commissionatogli dal governo dell’Unione Europea. Da allora ha continuato ad apparire nel dibattito pubblico nazionale e, con un po’ meno fortuna, continentale, interpretando una maschera che in Italia conosciamo bene: quella del picconatore. Sebbene mai sgarbato e sempre impersonale negli attacchi, è evidente che il fu banchiere centrale abbia adottato una posizione critica non solo sulle scelte politiche delle Commissioni Von der Leyen, bensì sui presupposti economico-ideologici connaturati alla nascita dell’UE, arrivando in alcuni momenti ad ammettere letture che, pronunciate da nomi meno affidabili, avrebbero meritato la bollinatura nera del sistema politico-mediatico. Non è infatti solo una proposta di revisione del Green Deal, che impone altrimenti una innegabile de-industrializzazione del continente, o una critica alla scarsità degli investimenti pubblici, o ancora un allarme sull’assenza delle nostre imprese nei settori delle innovazioni del secolo. Tutte questioni lampanti, che nessuno ha più il coraggio di negare o minimizzare neanche a Bruxelles.
Per apprezzare davvero il grado di revisionismo al quale si è spinto Mario Draghi è icastica l’audizione dell’euroburocrate di fronte ad alcune commissioni parlamentari in seduta comune. Il Presidente Draghi (come gli si rivolgono nel video numerosi eletti) rilasciava questa sonora picconata:
“Siamo sicuri che vogliamo mantenere questo surplus commerciale con il resto del mondo? O piuttosto non è meglio sviluppare la domanda interna, non trascurare le nostre infrastrutture, spendere per la ricerca, per l’innovazione, per il clima. Notate che non è sempre stato così. Lo squilibrio commerciale si aggrava a partire dalla crisi finanziaria. Noi rispondiamo alla crisi finanziaria del 2010 restringendo le regole sul credito bancario più degli Stati Uniti. Subito dopo abbiamo la crisi del debito europeo e il credito diventa addirittura a tassi di crescita negativi. La seconda: noi abbiamo contratto i bilanci pubblici, abbiamo sacrificato la spesa pubblica, abbiamo compresso i nostri salari, anche perché in quegli anni noi pensavamo che eravamo in competizione con gli altri paesi europei quindi tenevamo i salari più bassi come uno strumento di concorrenza. Nel frattempo, abbiamo continuato a diventare sempre più poveri rispetto agli Stati Uniti che non avevano questo surplus (commerciale) quindi forse non era la strada giusta.“
È qui più che evidente l’attacco al mercantilismo tedesco basato sull’export e sulla depressione della domanda interna, ossia dei salari per inibire le importazioni e guadagnare competitività internazionale. Volendo essere più duro, nella stessa occasione si lasciava sfuggire anche questa dichiarazione, senza esplicitare a quale paese fosse riferita.
“Quando dico concorrenza sleale non parlo di una concorrenza che si basa sui dazi, sulle tariffe, sui sussidi, ma anche su una artificiosa compressione della domanda interna con dei salari deliberatamente bassi.”
Tale modello non è stato ideato a Pechino, che in ogni caso oggi guarda oltre, ma prima ancora teorizzato a Berlino, anzi a Bonn. Esso è diventato Leitmotiv della CDU da quando si sono resi disponibili gli strumenti della globalizzazione e dell’UE. Infine, sull’onda dell’apparente successo tedesco, è stato scimmiottato da altri stati europei, come il nostro. Questo sistema, figlio malnato dell’impostazione ordoliberale e della volontà di potenza teutonica sublimata nel valore dell’impresa, si può oggi concludere essere stato fallimentare non solo per il grande malato d’Europa, che ha evidentemente perso la sua competitività sotto le pressioni di una storia che non è finita; bensì per l’intero continente, che ha vissuto nell’illusione di un vassallaggio conveniente e invece si è trovato squassato da un lato dagli squilibri generati dalle esportazioni tedesche e dall’altro dalle ristrettezze dell’austerità voluta dai rigoristi.

In più, da questo discorso, si possono dedurre ancora più radicali critiche considerazioni sul nostro paese, che tra quelli di una qualche rilevanza politica, vive il rapporto con l’istituzione europea nella maniera più patologica. Siamo stati uno stato fondatore, ma anche a rischio esclusione dall’Euro; storicamente siamo stati molti fiduciosi nell’integrazione europea, ma anche la culla del governo più populista ed euroscettico nel 2018; beneficiari di importanti sconti sugli interessi del debito con la moneta unica, ma pesantemente impattati e umiliati dalle politiche di austerità eterodirette. Dalle parole di Draghi si evince chiaramente che la crisi del debito che ha costretto i PIGS (dove la “I” sta per “Italy” ) a passare tra le forche caudine dei tagli alla spesa pubblica è stata causata dalle politiche del suo predecessore alla BCE e non tanto dalla scarsa “credibilità” del nostro paese, come vorrebbe la storia ufficiale. La medesima vulgata ci ha poi insegnato che l’arrivo del nostro connazionale alla BCE e di Monti a Palazzo Chigi hanno salvato la baracca prima che fosse troppo tardi. Analizzando a posteriori la situazione, è paradossale che oggi egli si possa presentare come un osservatore esterno rispetto alle politiche di austerità alle quali ha partecipato in prima persona, sebbene nel ruolo di colomba, ad esempio con la famosa lettera di raccomandazioni (o di condanna) al governo Berlusconi, firmata con il collega Trichet e poi attuata da Monti. È altrettanto evidente la responsabilità politica di chi ha accettato le regole di un gioco che per i presupposti ideologici e i suoi equilibri di potere era destinato a condurci al disastro. Se per assurdo, nel 2008-2011 si fossero applicati i canoni usati di fronte alla ben più grave crisi pandemica del 2020, probabilmente sarebbe stata una passeggiata rispetto alla distruzione della nostra economia dalla quale ci siamo ripresi a livello di PIL solo nel 2023. Invece all’epoca era considerato centrale puntare al rigore dei conti pubblici. Chi dissentiva, era immediatamente marginalizzato.
Di fronte a tante contraddizioni torna seducente la tesi bagnaiana sulla volontà deliberata da parte di un blocco politico e sociale italiano di aumentare la disoccupazione con le politiche di austerità, formalmente imposte dall’Unione Europea, per allinearsi definitivamente al modello mercantilista simil-tedesco, come già detto basato, sulla soppressione della domanda interna e deflazione salariale per spingere le esportazioni. La dinamica economica degli anni successivi marca, infatti, un superlativo successo dell’export delle imprese di alcuni settori in un paese globalmente a pezzi. Draghi stesso, cambiando per un momento il soggetto nel suo discorso, dice che “abbiamo compresso i salari perché pensavamo di competere con gli altri paesi europei”. Tale progetto, come detto, oggi è imploso con la crisi tedesca, i dazi americani e le mancanze manifeste dell’economia europea. Perciò oggi sarebbe lecito supporre che quello stesso blocco sociale possa aver dato mandato all’agente più affidabile e influente sul campo, di ribaltare finalmente la narrazione con la quale si è giunti ad esso, per aprire una nuova stagione industriale.
D’altronde in un paese come l’Italia (ma non solo) abituato alla deresponsabilizzazione della classe politica, al conformismo accademico e mediatico, nonché alla pronta romanticizzazione del vincolo esterno, anche queste importanti ammissioni di colpa e giravolte politiche vengono accolte con acritica tranquillità e un servile sorriso. Lo stile col quale vengono presentate dal nuovo paladino della riforma europea, Draghi, sembra voler stendere un velo di storicizzazione su politiche economiche che hanno mutato radicalmente non solo la nostra economia, ma anche il profilo esistenziale del paese e il suo sistema politico, eliminando così la necessità di consegnare al dibattito politico e democratico le riflessioni sul comportamento dei protagonisti stessi di quella stagione.