Nel 1986 le trecce della scandinava Greta Thunberg non erano ancora comparse all’orizzonte ma diversi giovani capelloni, armati di cartelli ecologisti, cercavano ugualmente una propria identità politica in seguito agli anni del “riflusso” e del disimpegno post-sessantottino. In quello stesso anno la ruggine dei rottami sovietici e le radiazioni nucleari contaminarono il cielo ucraino di Chernobyl, paese martoriato e recentemente decantato nella omonima e seguitissima serie tv targata Sky. Sempre nel 1986, proprio sull’onda emotiva del disastro nucleare, a Finale Ligure nacquero le liste Verdi con l’obiettivo politico di farsi carico e di interpretare il malessere di una intera e sensibile generazione preoccupata per le sorti e i cambiamenti climatici del pianeta Terra. Così, le liste Verdi rappresentarono il primo tentativo di ottenere una rappresentanza istituzionale, senza voler essere “partito”.
Dalla piazza al Parlamento. Eppure, le battaglie ambientaliste furono premiate dall’elettorato in occasione delle elezioni politiche del 1987 solo con un esiguo 2,5%. Nessuna marea verde. Come avrebbe affermato il leader socialista Pietro Nenni: «Piazze piene, urne vuote». In realtà lo scarso risultato elettorale dei Verdi italiani fu fin dagli albori segnato dalla scelta di sposare gli strumenti e le battaglie politiche del Partito Radicale di Marco Pannella, dal quale ereditarono il logo e i diritti di immagine del “Sole che ride”, nonché il mezzo referendario. Sempre nell’autunno del 1987, grazie a un referendum sostenuto dai Verdi, gli italiani dissero no al nucleare, portando l’Italia a chiudere le centrali e a strizzare l’occhio verso le energie rinnovabili. Nonostante ciò, lo strumento referendario si dimostrerà inefficace nell’estate del 1990, in occasione della campagna contro la caccia e l’utilizzo dei pesticidi in agricoltura. I quesiti referendari non raggiunsero il quorum.
Dinanzi all’avvento di Tangentopoli e al crollo partitico della Prima Repubblica, nel corso degli anni ’90 i Verdi italiani sperimentarono l’affermazione delle singole leadership e dei personalismi post-ideologici. Nel 1992 alla guida del coordinamento nazionale costitutivo salì il giovane Francesco Rutelli. Militante radicale e proto-ambientalista, Rutelli animò diversi sit in ecologisti contro la centrale nucleare di Latina attraverso il volantinaggio e la disobbedienza civile già nel corso degli anni Settanta. Il futuro sindaco di Roma e leader della Margherita fu uno dei primi esponenti ambientalisti a cavalcare l’onda verde per conquistare la ribalta dei palazzi romani e sedere in Parlamento. Ben presto, quindi, la Federazione dei Verdi si tramutò in un taxi dal quale scendere o salire per raggiungere i piani alti della politica.
In seguito, i Verdi italiani subirono il fascino di Carlo Ripa di Meana con le sue immancabili cravatte di maglia a righe orizzontali. Uomo colto, appassionato ed elegante, Ripa di Meana fu nominato portavoce dei Verdi nel 1993. Abbandonato il Partito Comunista in seguito ai fatti di Ungheria del 1956, Carlo Ripa di Meana si avvicinò al socialismo riformista di Bettino Craxi e Antonio Giolitti ottenendo il prestigioso incarico di direttore e organizzatore della Biennale del dissenso a Venezia nel 1979. Si allontanò da Craxi negli anni di Mani Pulite e nel 1993 si dimise da ministro dell’Ambiente del primo governo Amato, protestando contro il decreto di depenalizzazione del reato di finanziamento illecito ai partiti.
Divenuto commissario europeo alla cultura e all’ambiente, sposò il credo politico verde e le idee libertarie della moglie, Marina Punturieri Ripa di Meana. Un matrimonio composto da due virtuosi della provocazione dediti alle cause ambientaliste. Il nudo erotismo di Marina Ripa di Meana ben si conciliava con le battaglie contro l’utilizzo di pellicce di visone. Eppure, l’ironia leggera e il peso del cognome di Carlo Ripa di Meana trasformò la causa ecologista in un fenomeno da approfondire e liquidare nei salotti radical-chic dei talk show della televisione italiana, indebolendo ancor di più la fragile ossatura del partito dei Verdi italiani. La voce ambientalista di Carlo Ripa di Meana si riversò nella presidenza dell’associazione Italia Nostra, attraverso la quale difese il patrimonio artistico italiano.
Nel 1996 Luigi Manconi divenne il nuovo portavoce dei Verdi italiani. Negli anni dei governi Prodi e D’Alema, il pensiero di Manconi sembrò cogliere l’incapacità ambientalista italiana di unire idealismo e pragmatismo:
La mancata riforma protestante non ha introdotto nel carattere nazionale il connotato della responsabilità verso sé, verso gli altri e verso il futuro. Questo deficit si ritrova nell’aneddoto del Kleenex che, lasciato cadere per terra, suscita al più una tacita riprovazione in una città italiana e invece scandalo, multa e magari arresto in una località del centro e del Nord Europa.
In Italia le tematiche ambientaliste sono rimaste quindi da sempre legate agli anni Novanta e al bipolarismo. Il collegamento tra ambiente, sviluppo e innovazione non ha catturato l’attenzione dell’elettorato popolare e ha collocato i Verdi italiani ai margini dello scacchiere politico e parlamentare. Nel 2008 le inchieste giudiziarie ai danni del portavoce dei Verdi ed ex ministro dell’Ambiente nel secondo governo Prodi, Alfonso Pecoraro Scanio, hanno portato i Verdi italiani fuori dal Parlamento e sempre più schiacciati a sinistra, ben lontani dall’autonomia politica liberale della galassia verde tedesca ed europea. Infine, in occasione delle elezioni europee del 2009, parte della militanza verde confluì nel cartello di Sinistra, Ecologia e Libertà, guidato dal governatore pugliese Nichi Vendola. Proprio in Puglia negli ultimi anni i Verdi italiani hanno puntato il proprio capitale politico sulla questione Ilva e sul rischio inquinamento ambientale di Taranto. Nel 2012 il segretario federale dei Verdi italiani, Angelo Bonelli, ha condotto una solitaria, coraggiosa quanto inefficace campagna elettorale in qualità di candidato sindaco del capoluogo jonico. La sconfitta alle comunali ha rilegato Bonelli tra i banchi dell’opposizione.
In tempi recenti, l’irrilevanza politica dei Verdi italiani è anche una diretta conseguenza dell’affermazione dirompente del Movimento 5 Stelle nelle elezioni politiche del 2018. La sensibilità ambientalista dei grillini ortodossi ha sedotto gran parte dell’elettorato meridionale e tarantino ma le promesse avventate e disattese di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista potrebbero rivelarsi delle armi a doppio taglio. La mancata chiusura dell’Ilva, invocata dal M5S in campagna elettorale, potrebbe quindi generare una ferita insanabile nell’elettorato grillino e aprire nuovi scenari politici ecologisti.
Lorenzo Fioramonti, ex ministro dell’Istruzione per i 5Stelle, ha da pochi giorni abbandonato il Movimento criticando la mancanza di spazio per il dissenso all’interno della piattaforma grillina. Laureato in filosofia, storico dell’economia del benessere e docente presso l’Università di Pretoria in Sudafrica, Fioramonti si è distinto alla guida del Miur grazie ad alcune stravaganti ed eccentriche proposte riguardanti una tassa sulle merendine e un ipotetico provvedimento contro la presenza del crocifisso in aula. In ogni caso, l’ex ministro dell’Istruzione ha avuto il merito di portare la scuola e la ricerca al centro del dibattito politico italiano. Adesso, da battitore libero in Parlamento, Fioramonti – strenuo difensore delle battaglie ambientaliste di Greta Thunberg – si appresta a presentare un nuovo gruppo parlamentare a sostegno del governo Conte e denominato Eco:
Non c’è una forza dentro il Parlamento che rappresenti i valori ambientalisti ecologisti moderni. Qualche giorno fa le avrei detto: torno a insegnare. Ma se attorno a Eco si creeranno le condizioni per tirare fuori l’Italia dalle sabbie mobili della politica credo che sia un dovere restare.
Fioramonti scriverà l’ennesimo capitolo verde della politica italiana oppure si rivelerà un novello Savonarola, destinato a celebrare il pauperismo e la decrescita felice per poi finire divorato dalle fiamme parlamentari?