OGGETTO: L'universo in settanta pagine
DATA: 25 Luglio 2025
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
AREA: Altrove
Nel 1929, H.P Lovecraft regala la propria visione del mondo ad uno scrittore suo ammiratore. "Potrebbe anche non esserci più un mondo" (Adelphi, 2025) è la prima traduzione della lettera in cui il Solitario di Providence offre la sua personale critica radicale a romanticismo, progresso e democrazia, e la proposta di un ordine per pochi, contro il caos indifferente della modernità.
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Howard Phillips Lovecraft è probabilmente l’autore di uno dei più corposi epistolari nella storia della letteratura umana. Tale circostanza, certamente non sconosciuta ai lettori più accaniti del grande scrittore statunitense, permette di inquadrare il Solitario di Providence entro una cornice più complessa. All’autore schivo, tormentato dagli incubi e da un passato familiare burrascoso, creatore di storie allucinanti e orribili, si affianca dunque la figura di un intellettuale completo. Con una vita sociale (ossia epistolare) vasta, tale da connetterlo al cuore del dibattito culturale, filosofico e artistico degli Stati Uniti e dell’Occidente intero, nei decenni immediatamente precedenti allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Nel dover esprimere in una sola lettera l’universo quotidiano dello scrittore americano, Ottavio Fatica ha sottolineato come si sia optato per la più lunga e densa. Pubblicata per Adelphi con il titolo di “Potrebbe anche non esserci più un mondo” (2025), trattasi di un manoscritto di spaventosa densità. Un condensato rarissimo, utile a comprendere la sterminata formazione da autodidatta di Lovecraft, nonché il lucidissimo (ancorché, oggi, inattualissimo) sguardo sul suo mondo e sul suo tempo. Velato di un disprezzo autentico, ma anche di una ragguardevole dose di sarcasmo. Il destinatario dell’epistola, datata 9 novembre 1929 era Woodburn Prescott Harris, aspirante scrittore. Divenuto un vero e proprio scopritore di talenti, nonché un grandioso sostenitore di aspiranti scrittori, specialmente di genere fantastico o horror, Lovecraft intrattenne con tutti i suoi amici e adepti delle copiose corrispondenze.

Trovare un filo logico all’interno della lettera ad Harris, di 70 pagine e per la quale Lovecraft impiegò circa una settimana di lavoro, è esercizio complesso. Più che un’epistola appare un caotico calderone, un manuale per sopravvivere negli odiati tempi moderni, e l’esposizione forse più chiara delle influenze letterarie e filosofiche accorse alla sterminata cultura del Solitario di Providence.

Decisiva è certamente l’impronta lasciata dal più contestato pensatore della sua epoca, Oswald Spengler, di cui Lovecraft fu un profondo conoscitore. Se “Le montagne della follia” rappresentano la spaventosa trasposizione letteraria del ciclo biologico delle civiltà (di qualunque civiltà), nella lettera Lovecraft evidenzia come la specie umana sia destinata a preservare, al netto di ogni fase di declino, un livello minimo di conoscenza. Non è mai data una “ricaduta completa” poichè permangono elementi delle civilizzazioni precedenti. Lo stesso avverrà con la civiltà moderna che è, in Lovecraft, essenzialmente civiltà delle macchine:

«Tutte le nostre profezie basate sulla ricercatezza scientifica e sull’era delle macchine saranno ridotte a nullità e inconsistenza, perché i pastori e i cacciatori di quel tempo a venire non avranno mai sentito parlare di scienza o di macchinari se non nella forma di mito religioso intrecciato a certi ruderi invasi dall’erba e ricoperti di edera»

Disilluso, lo sguardo di Lovecraft si posa su ogni aspetto dell’umano. L’“amore romantico” non fa eccezione. Considerato, al pari di altri miti del suo tempo e di ogni tempo, una mera illusione. Dall’amore romantico, come da concetti come “dio”, “giustizia” o “democrazia” discendono dei fremiti utili ad alimentare anche un certo rigoglio artistico destinato a smarrirsi nei secoli avvenire. L’aspettativa rende sopportabile l’attesa e anche la speranza. L’amore “perfetto” diviene per Lovecraft utile a fornire una semplice motivazione all’esistenza, rivestendo l’erotismo e la spinta della natura a propagarsi e continuare ad esistere di una patina più gradevole (si evince chiaramente l’influsso di Schopenhauer).

L’epoca moderna ha in parte attenuato la spinta erotica, specialmente all’interno delle classi superiori, a causa del declino delle illusioni religiose ma anche dell’“effetto della democrazia” in grado di sostituire l’estetismo con una vita improntata al benessere fisico e al piacere sessuale fine a se stesso. La noia dilagante, nonché il declino del senso stesso del matrimonio, così come strutturato dalle società precedenti, asseconda il tramonto erotico dell’umanità (specialmente occidentale).

Per quanto scevro da ogni illusione, Lovecraft si dichiara più volte affezionato a un modello di società più tradizionale, tale da rendere più gestibile il caos senza senso dell’universo.

E al di là di qualsiasi insensatezza, essere uomini veri, significa per il Solitario di Providence coltivare il più possibile la propria percezione e conoscenza del mondo. Senza soffermarsi alle apparenze. Con spirito meticoloso e scientifico. Figlio di un illuminismo settecentesco, di un razionalismo ateo e materialista, Lovecraft rifiuta qualsiasi semplificante banalizzazione del reale:

«Coltivare la percezione è un po’ come coltivare la sensibilità artistica e la reattività: bisogna saper scegliere tra seguitare a vegetare utilizzando solamente una piccola frazione del cervello e delle capacità di godimento e prendere coscienza di poter impiegare appieno quelle facoltà e quei sensi di cui la natura di ha dotato»

Una vita piena o è vita piena della mente o non è. Esercizio che resta complesso, laddove la società moderna inclina in maniera sempre più decisa verso una dittatura delle masse e una democratizzazione salutata con grande timore dallo scrittore di Providence. La democrazia è illusione, al pari delle altre descritte. Allo stesso modo, il destino degli Stati Uniti d’America appare per Lovecraft praticamente segnato, profeticamente prevedendo un dominio di esseri dominati da vasti interessi economici e da una pura omologazione.

Sebbene profondamente realista, nella lettera di Lovecraft spicca un certo inconsueto idealismo, ipotizzando di costruire per le menti migliori e più elevate dell’America e dell’Occidente un contesto entro cui permettere il loro pacifico sviluppo, senza coinvolgimento nelle questioni materiali più “barbare”. Con l’obiettivo di favorire la qualità sulla quantità, costruendo una società di artigiani, contadini e intellettuali, a scapito di borghesi e industriali, ed elogiando la “parsimonia” e la “competenza”:

«Varrebbe qualunque somma di denaro, ogni sforzo e tutta la pazienza, far riconciliare la popolazione degli Stati Uniti con un ideale del genere, giacché restituirebbe al paese il dono più prezioso di tutti, il possesso di ricompense sufficienti per affrontare la prova dell’esistenza e giustificare il dolore, la monotonia e la fatica di quella prova.»

Lontanissimo dalla direzione e dalla traiettoria impressa attraverso i decenni successivi dalla popolazione americana alla sua inarrestabile proiezione imperiale. Devoto a un ideale di comunanza e fratellanza “anglosassone”, includente anche i tedeschi, con agganci al mondo greco e romano prima delle proprie rispettive decadenze, Lovecraft è un pensatore inattuale per la sua stessa epoca. Ultima espressione culturale di rilievo di un’America ancora alla ricerca di un nuovo senso imperiale, antropologicamente tendente a valorizzare il proprio Midwest anziché l’ancestrale bagaglio anglosassone della East Coast, tanto caro al Solitario di Providence. Prevedendo il culmine dell’era delle macchine ancora nascente e il suo progressivo declino come momento di passaggio inevitabile e trascurabile nell’incedere degli eoni, Lovecraft sembra voler proporre un piccolo angolo di ordine all’interno dell’indifferente universo e della banalizzazione del proprio tempo. Un angolo pensato per gentiluomini e uomini di cultura. Per aristocratici dello spirito, contro la barbarie del tramonto dell’Occidente. Indifferenti a ciò che una società profondamente materiale ritiene essenziale e inevitabile:

«Il meglio che possiamo fare, sul piano emotivo, è essere indifferenti. Certo, molti di noi preferiscono l’oblio alla nostra vita attuale, ma relativamente pochi europei preferiscono l’oblio a una qualche possibile vita.»

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