L’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico nacque, in apparenza, con un fine ben preciso e delimitato: la difesa di un territorio conquistato dalle minacce militari dell’impero avversario. Nella Guerra fredda gli imperativi strategici sovrastavano gli aspetti ideologici, ridotti a fattori meramente strumentali e al tempo stesso fondamentali; paradossalmente, gli ideali che ne sostennero la creazione rimasero per lo più privi di effetti pratici propri. Eppure, la NATO nasceva pure come unione in una comunità politica, fondata su principi e valori condivisi: una comunità sovranazionale (transatlantica) della difesa, ben prima dell’UE e della PESC/PDSC, ben più efficace e ben più unita in quanto retta in realtà da principio egemonico esterno.
Lo spartiacque storico è ovviamente la Seconda Guerra Mondiale: i complicati e mutevoli maneggi degli statisti europei sono messi all’indice come principali responsabili della doppia catastrofe che relega l’Europa ad oggetto dei desideri delle superpotenze. Il Patto Molotov-Ribbentrop è il simbolo di questa stagione della diplomazia come strumento della guerra: trattato di natura eminentemente tattica, teoricamente ha durata di dieci anni: una menzogna plateale a cui nessuno dei due contraenti crede minimamente: per Stalin il bluff durerà tre-quattro anni, Hitler rilancia e lo romperà dopo meno di due. La NATO si oppone frontalmente a questa ontologia: nasce come legame indissolubile di società con valori comuni, ha durata cinquantennale ma è inteso come patto escatologico che riunirà imperituramente gli Stati occidentali nell’eterna lotta tra democrazia liberale e comunismo. A leggere il testo, il principio guida non è la mera condivisione di interessi, né, crucialmente, l’esistenza nemico comune. Questo è tutto ciò che avremmo trovato in qualsiasi trattato precedente – “assicurare ai loro Stati la continuazione del benefici che loro garantisce” era l’utilitaristico legame ideale fra Austria, Germania e Italia nella Triplice Alleanza.
Dopo la guerra, imperativa è la necessità di inibire e comprimere anche solo la volontà di perseguire interessi autocentrati; lo sbilanciamento della potenza tra le due parti dell’Atlantico, infatti, non avrebbe comunque permesso altro che la facoltà di lamentare forze comunque ineluttabili. Perciò, l’accento morale si fa fortissimo. Si rinviene fin dal preambolo, ma viene reiterato e specificato in tutto il trattato: le parti si dichiarano “determinate a salvaguardare la libertà, l’eredità comune e la civiltà dei loro popoli, fondate sui principi della democrazia, della libertà individuale e dello Stato di diritto“.
Poi, nell’eccezionalità guerra fredda, può succedere anche che Gorbačëv decida che i suoi convincimenti possono valere più della sopravvivenza stessa del suo impero e del sistema internazionale. Una struttura da entrambe le parti minuziosamente architettata per poter esistere imperituramente viene giù in pochi anni. A questo punto, la NATO avrebbe potuto cessare di esistere in quanto svuotata di ogni scopo. In realtà, termina soltanto la sua fase apparente, e si rivela nella sua vera natura. L’alleanza contro un nemico è solo un aspetto particolare e contingente di quella che in realtà è una comunità di valori di cui la NATO è strumento di concertazione politica. Concertazione, non negoziazione, perché frutto di un coro armonico di voci che, ognuna col proprio timbro (e tutte quante disciplinate da un direttore), agiscono verso uno stesso obiettivo comune, non scontro di opposti egoismi nazionali.
Si disvela un nuovo volto, ma non muta la visione. Non tanto per questioni concrete, in quanto tali nell’odierno pensiero ideologico secondarie, ma per l’approccio sistemico. Una buzzword ormai onnipresente nei discorsi di sicurezza: duttile e malleabile in quanto intrinsecamente indefinita. Figlia primogenita della guerra fredda, ci ricorda che non più di interessi nazionali è fatta la politica, quanto di missioni totalizzanti volte a far prevalere la propria libertà sulle forze del male; espressione tanto puerile da dover essere bandita da qualsiasi analisi politica, se non fosse stata utilizzata da ben due fra i presidenti della nazione più potente del globo.
L’approccio sistemico tende asintoticamente all’infinito. Il timore non sta più nella potenza in sé, ma nella diversità di proposta politica e valoriale di chi la detiene. La sola esistenza di alterità politico-culturali ci mette oramai a disagio, pur se distanti migliaia di chilometri, incapaci di offendere, o disinteressate a farlo se non provocate. È la logica dello scontro di civiltà, oggi manuale dell’(anti)politica estera distribuito su scala mondiale ai leader del pianeta. Quanto poi queste narrazioni siano solo strumenti propagandistici per tenere coperti diversi e più concreti moventi è quesito lasciato alla facoltà del lettore. Ciò che conta rilevare è l’importanza di quanto, magari nato al basso rango di strumento, può comunque poi elevarsi a struttura. Si veda il Mikhail più sopra.
La NATO, in quanto strumento di implementazione di questa visione, ne diventa il tassello operativo centrale. Negli ultimi vent’anni, nonostante le lacune di un allargamento territoriale sempre più oneroso e militarmente scoperto, amplia il suo raggio d’azione a livello globale. Firma partnership con Paesi in tutto il pianeta, col loro portato di esercitazioni congiunte, addestramento e armonizzazione degli standard strategici e di equipaggiamento. Ma abbraccia anche ogni dominio della sicurezza, oggi che tutto entra nel dominio della sicurezza, dai movimenti di persone, agli approvvigionamenti agricoli ed energetici, fino al benessere, ça va sans dire, dal 1949 elencato fra gli obiettivi dell’Alleanza.
E dunque, se la NATO si occupa di coordinare le ricerche per contenere i flussi di migranti secondo l’accordo UE-Turchia, o porta soldati polacchi nel Pacifico a proteggere i choke-point delle rotte commerciali globali, è in ossequio a ciò che già settant’anni fa si dichiarava come missione di una comunità politica. Oggi la NATO, in barba alla sua chiacchieratissima crisi fiscale, si appresta a diventare il centro di coordinamento occidentale per lo screening sugli investimenti infrastrutturali cinesi verso l’Europa, si avvia a scrutinare il suo export tecnologico in vista di eventuali dipendenze in anelli fondamentali delle catene del valore globali, soppesa i principi liberali di apertura e libero commercio con le necessità strategiche. Oggi l’articolo 2 viene citato esplicitamente: l’organizzazione deve promuovere il benessere e la stabilità dei suoi membri.
La NATO non è solo un’alleanza militare, ma non lo è mai stata, e oggi diventa alleanza tecnologica, cura lo sviluppo e la prosperità economica dei suoi membri, si scopre agenzia di controllo delle loro frontiere.