La penisola arabica si proietta dalle propaggini desertiche del Sinai fino al Golfo di Aden; bagnata dal mar Rosso e dalle acque del Golfo Persico, allunga a est lo sperone di Hormuz fondamentale per i traffici fra MO e paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano, e tramite lo Stretto di Malacca e l’arcipelago indonesiano fino alle coste dell’Asia Orientale, e ad ovest il choke point di Bab El Mandeb. Considerato il Canale di Suez a nord e la proiezione a sud est verso l’Indo Pacifico, è difficile immaginare estensione più strategica, specialmente in funzione del fatto che le valutazioni mosse dai vari paesi prescindono dal più razionale aspetto economico per abbracciare quello più fumosamente politico-ideologico.
Immaginate ora la penisola come un palazzo imperiale, poggiato a nord all’aspro antemurale continentale e fondato a sud sulle pietre angolari yemenita e omanita che, dagli abissi, sostengono una costruzione scossa da violenti sommovimenti tettonici di ordine geopolitico. Alla base della fondazione omanita si coagulano mediazione, pragmatismo e neutralità, alleli fondamentali per un vaso di coccio posto tra le ferrose giare irano-saudite, e purtuttavia prezioso volano commerciale tra MO, Africa e Asia centrale. Ci muoviamo su palcoscenici mitologici in cui Sinbad, al tempo del Califfato Abbaside, ha viaggiato tra Africa Orientale e Asia meridionale dando vita a un epos narrante di mercanti che salpavano dai porti omaniti tra Salalah, nella regione del Dhofar al confine con lo Yemen, e la penisola dell’exclave di Musandam, cui si aggiunge Mahda, da cui si controlla la costa meridionale dello stretto di Hormuz, plasmando cosi un’inclinazione al commercio ed alla xenofilia.
Posizione strategica dei porti, relativa stabilità interna e capacità negoziali rendono l’Oman un soggetto geopolitico interessante, caratterizzato da un pluralismo etnico, linguistico e religioso che ha preservato la stabilità sociale. Questa cultura, consustanziale al più tollerante Islam ibadita, fa dell’attuale Oman, pur demograficamente fragile, un attore rilevante su uno scacchiere ribollente. La politica è sulfurea, cinetica, e non risparmia malcontenti, sia pur sporadici, generati dalle disuguaglianze prodotte dalla faglia esistente tra élite mercantile costiera e strati sociali sovvenzionati dallo Stato con ingenti assunzioni, cooptazioni, ma controllati da un’efficace repressione; le Primavere del 2011 sono state di fatto lenite con allocazioni straordinarie di bilancio foriere di deficit, ma hanno comunque generato tre direttrici che hanno condotto alla riorganizzazione del governo ed a nuovi investimenti.
Nihil novi sub omanita sole; il problema è la sostenibilità inverosimilmente limitata dei patti sociali, costosi in termini di concessioni politiche, e condizionati dall’entità di riserve di idrocarburi destinati ad esaurirsi nell’arco di due decenni; la parola d’ordine è diversificare, impresa ardua, a meno che non si consideri la raffinata propensione alla diplomazia da rentier state che consente al Sultano l’intrattenimento di rapporti con tutte le parti interessate alle dinamiche relazionali, traducendo politiche infrastrutturalmente coerenti nella Vision 2040, il programma di diversificazione economica entro cui comprendere sia il progetto della città di Khazaen, su cui far convergere i traffici che interessano il Paese, specie quelli ad alto valore aggiunto dal punto di vista economico e tecnologico, sia quello di Sultan Haitham City, poco distante da Muscat, complesso residenziale per omaniti a basso reddito. Molto dipenderà dalla riuscita di Tawazum, piano di offsets per incentivare progetti che liberino l’economia dal morso delle fluttuazioni del prezzo del greggio. È proprio la diplomazia l’asset più prezioso, definito nel ’98 da Marc J. O’Really omanibalancing, ovvero la facoltà omanita di bilanciamento tra minacce interne ed esterne, dove si inserisce la creazione di un proprio National Defense College affrancato da partner occidentali ma che, tenuto conto di numeri e possibilità, non può non considerare prevalente l’azione diplomatica.
Economicamente l’Oman è terreno vergine, o quasi, per gli investimenti a fiscalità agevolata, specie per quelli del Dragone vista l’altalenante politica americana; la tardiva apertura all’esterno lo rende un mercato inesplorato e reso invitante dall’attenzione per le infrastrutture come i porti di Salalah e di Duqm, interno ad una ZES ed affacciato su mar Arabico e Oceano Indiano; uno scalo così interessante da indurre Regno Unito, USA e India ad investire per l’accrescimento delle sue capacità logistiche e di ormeggio. Muscat non ha puntato a complesse egemonie, ma alla paziente costruzione di ponti tra Stati affini eppure tormentati dall’ossessivo mantenimento del possesso delle loro peculiarità. L’oleografia presenta iconograficamente l’Oman come il sultanato gentile, non rammentando le sfide interne ed estere di un paese dall’età media nel mirino della disoccupazione. È nel XIX secolo che il Sultanato raggiunge la sua ἀκμή talassocratica estendendosi da Gwadar, nell’odierno Pakistan, a Cabo Delgado, tra Mozambico e Tanzania a Zanzibar fino al 1964, insidiando i primati egemonico coloniali portoghese e britannico nel Mar Arabico cui associare, per analogia inversa, l’attuale pervasività cinese della BRI.
È il progresso a bloccare il vecchio impero omanita: il Novecento, con la crisi dei mercati di armi e schiavi, decreta il declino economico dell’Oman che entra così a far parte dell’Impero britannico come protettorato fino al 1971. È stata la benevola dittatura del Sultano Qaboos, detronizzatore del padre nel 1970, a traghettare in cinquant’anni un Paese altrimenti fermo ad un Medioevo distopico. Qaboos, monarca assoluto, non passerà agli annali come illuminato, ma gli dovrà essere tuttavia riconosciuta una visione scevra da sterili dogmatismi religiosi ed orientata ad un pragmatismo che ha consentito un’indolore successione al trono al decentratore Haitham Bin Tariq al Said, suo cugino, alla ricerca del suo allegorico id-al-nahda, con un avvicinamento poco graduale alla tradizione egemonica familiare e verticale propria dei paesi del Golfo e con maggiori accelerazioni riformatrici con un passaggio dalla personalizzazione alla devoluzione del potere, alla competenza ed alla produttività nell’incrocio tra politica ed economia. Tuttavia, una rondine ancorché sultanale non fa primavera, e l’Oman rimane uno Stato confessionale privo del coraggio di ammetterlo; al suo interno coesistono tre gruppi etnici, i beluci non arabi, gli omaniti arabi ed africani; le nomine per gli incarichi di alto e medio livello vengono decise su questa base, senza considerare né merito né competenza e si accompagnano ad un declino dell’istruzione.
Il problema di Haitham è dunque quello di riuscire a rendere plastica una versione migliorata del realismo politico di Qaboos, quello emerso sia dai segnali di tenue ripresa di un’economia fisiologicamente vulnerabile, sia dalla liaison con Pechino con cui è stato finalizzato un Memorandum d’intesa militare; insomma, il controllo degli stretti se non vale una messa val bene qualche prestito, a prescindere da dove giunga il denaro, anche perché va ormai dato per scontato l’assunto che gli USA, comprendendo l’entità delle conseguenze del disimpegno dall’area MENA, contemplino l’Oman al riparo di un loro ombrello protettivo, non disgiunto dalle politiche militari d’area di India e UK, che mira a proiettare hard power.
Attenzione dunque ad analizzare la politica estera omanita con lenti occidentali; i tradizionali rapporti con gli USA non impediscono al Sultano di intrattenere relazioni bilaterali con Cina, Russia e Iran, un ensemble di incroci che portano a ritenere come ancora valida la direttrice politica improntata a neutralità e mediazione, fondamentale per consentire il rientro nella Lega Araba della Siria e nella ripresa dei rapporti tra Iran ed Egitto. Mentre rimangono tesi i rapporti con Israele, vincolati alla querelle palestinese, da sottolineare le poco spirituali liaison con il Vaticano. Da questo punto di vista, il non allineamento diviene ardito equilibrismo che deve tuttavia considerare il fluire sotterraneo di nuovi possibili disagi sociali che il Sultano non può non percepire. Assume dunque particolare valenza aver sostenuto da un lato l’indispensabilità di uno Stato palestinese, rimanendo, dall’altro, in un contesto che comunque prevede una soluzione a due soggetti politici e con il riconoscimento regionale di Israele; in fondo nulla di inedito per la politica estera di Muscat, incentrata sulla de-escalation. Stretto tra sunniti e sciiti, Qaboos è riuscito a consolidare l’immagine di un Paese affidabile attraverso un menage alternativo che ha trasformato le insidie in occasioni di elevazione politica multipolare; l’attività pro JCPOA, pro Yemen e nei colloqui tra Arabia Saudita e Iran, fa risaltare il ruolo intermediatorio di Muscat che ha cominciato ad assumere toni meno silenti e più assertivi anche nelle vicende Houthi nel mar Rosso, cosa che sta lentamente traghettando l’Oman verso un ruolo più pragmatico e interlocutorio.
Mediare sapendosi porre con equilibrio è un’abilità rara; si tratta di un’arte che si bilancia con il conflitto in cui ora Haitham deve sapersi proporre come political broker detentore di uno status che, basato su autorevolezza, credibilità e neutralità, porti a godere della fiducia delle parti. Negoziare non è cedere al rinunciatario compromesso, ma è una scienza non alla portata di chiunque; il fato dell’Oman, una sorta di Svizzera arabica, è molto più rilevante di quanto si possa immaginare, e richiede l’ascendente di un Sultano che compendi il realismo kissingeriano con la politica di un rinnovato Talleyrand, camaleontico, mentalmente aperto, capace di trasformare non allineamenti in plasmabili polarizzazioni puntate alla stabilità.