Solo attraverso la lente storiografica è possibile provare a dipanare quella intricatissima matassa concettuale racchiusa in una delle parole più inflazionate del nostro tempo: fascismo. Ed è uno storico, una volta tanto, a farsi carico del compito di curvarsi sulla scrivania per vergare trecento pagine e più di fatti, episodi, immagini e così a spiegare «cosa fu davvero il regime, cosa rappresentò il duce, e perché esercitarono tanta influenza sugli italiani». Giordano Bruno Guerri ha appena dato alle stampe Benito (Rizzoli, pp. 325), un mastodontico tomo in cui racconta la vita del figlio del fabbro. Cosa non certo facile, si capisce. In ogni caso, almeno negli esiti ha mantenuto la promessa dichiarata prima dell’uscita: «farà arrabbiare sia il lettore di destra che quello di sinistra». È proprio questo il pregio dell’opera, la prova che si tratta di uno studio serio. Benché gli scaffali delle librerie strabordino di romanzi, saggi, persino fumetti sulla figura di Benito Mussolini, una biografia completa impiantata su solide basi storiografiche, a dire il vero, non si vedeva da tempo. Certo, le decine di migliaia di pagine di Renzo De Felice sono il massimo dell’approfondimento, ma un libro che fosse alla portata di tutti, e che pur senza pretese olistiche restituisse un ritratto fedele del personaggio in questione ci voleva tutto, nell’epoca in cui il suo nome risuona più dei successori viventi nei giornali e nelle televisioni.
E così, il Presidente del Vittoriale, già autore di saggi e preziose biografie di altri personaggi dello stesso periodo, torna oggi con un’opera che si imporrà nel dibattito sul tema come una delle fondamentali da citare e riprendere ogni qual volta si renderà necessario fare riferimento alla vita di Benito Mussolini. Si ha quasi timore a dirlo, visti i tempi che corrono, ma la prima cosa che colpisce, leggendo, è la differenza profonda, ontologica, tra lui e gli altri dittatori del suo tempo, cui spesso è accomunato. Pur negli abissi di orrore che provocò, e che lo rendono imperdonabile, in lui non prevale il tratto invasato, fanatico, mostruoso dei vari Stalin, Pol-Pot, Hitler, Mao. Sembra emergere nelle sue lettere, nel suo confidarsi, nelle scelte che fece, e persino in quelle che non seppe fare, un tratto diverso, in cui la sensibilità umana non è mai completamente estirpata, come negli altri.
Fatta questa rischiosa premessa, il lettore è costretto a constatare, finalmente, che il fascismo non fu un monolite. Guerri azzarda la teoria per cui, non di fascismo si parla quando si fa riferimento a quel regime, ma di mussolinismo, poiché a farsi prassi fu sempre la personalità di Mussolini, inscindibile dal suo regime e dal suo movimento. Non ebbero riscontri concreti le teorie sul fascismo ideologico, elaborate da intellettuali prestigiosi come Gentile o Bottai, ma fu sempre lui a farsi artefice delle sorti dello Stato in quegli anni. Lui, però, significa tutto e il contrario di tutto. E qui il volume ha il pregio di non nascondere nulla, mostrando il Mussolini socialista emigrato in Svizzera, che dormiva sotto i ponti e veniva arrestato per vagabondaggio, e poi il Duce con il Fez in testa che tiene in scacco il Re e si fa dittatore, dal suo stanzone a Palazzo Venezia; l’anticlericale mangiapreti e il firmatario del Concordato con la Santa Sede; l’anti-imperialista che finisce in cella con il suo amico di giovinezza Pietro Nenni e il creatore dell’Impero. L’autore non lesina critiche e non nasconde i meriti. È pietoso, per un italiano di oggi, dover ricordare in quale cantuccio fossero relegate le donne in quell’epoca – anche per le pressioni della Chiesa, più reazionaria del regime – e poi la barbarie del razzismo che, pur a lungo estraneo al fascismo, sul finire degli anni Trenta infettò il nostro paese, per colpa di Benito. Queste amare verità non impediscono però di ricordare, ad esempio, che in quel tempo «la violenza non era una prerogativa esclusiva dei fascisti» ma la pratica quotidiana di tutti quelli che volevano trascinare le masse nella vita politica; masse che lo stato liberale aveva indegnamente voluto tenere fuori dalla stessa.
Il cinico romagnolo divenuto Presidente e poi dittatore, privò gli italiani della libertà di stampa e soppresse i partiti politici diversi dal suo; ciò non impedisce di riconoscere che in quel periodo nacquero i diritti sociali in Italia, la tutela dei lavoratori e dei disoccupati, il sistema pensionistico e la sanità pubblica. Fa specie dover ammettere che lo stesso responsabile della distruzione del paese con le bombe Alleate e le stragi tedesche, sia stato lo stesso che – invertendo la tendenza dei sessant’anni precedenti – aveva messo a nuovo la nazione con «una mole straordinaria di lavori pubblici», riempiendo in dieci anni l’Italia di uffici postali e di scuole, di ferrovie e di ospedali, di case popolari degne di questo nome e di stadi, di teatri, di cinema, di nuove città. Può non piacere a chi vuol vedere tutto bianco o nero, ma la storia ci impone di ricordare che durante il ventennio vennero mandati a morire i ragazzi in Africa, in Russia, in Grecia, ma che pure si cominciò a salvare centinaia di migliaia di vite strappandole alla malaria, alla pellagra e alla tubercolosi costruendo sanatori e promuovendo campagne di prevenzione mai viste prima, nelle terre più dimenticate della penisola.
Lo stesso capo che avrebbe diviso il paese occupandone metà insieme ai nazisti, era lo stesso che aveva fatto in modo – anche qui per la prima volta nella storia italiana – che i poveri di ogni angolo d’Italia potessero conoscere le grandi città lontane grazie ai “treni popolari” nelle domeniche festanti e negli altri giorni feriali. Le opere nazionali, il Dopolavoro, le corporazioni, lo sport collettivo, fecero partecipare per la prima volta il popolo italiano nella vita civile, ma la guerra cancellò tutto, privando la gente degli affetti più cari a causa del suo delirio di onnipotenza. Suscitò l’ammirazione dei grandi del suo tempo, da Churchill a Gandhi, da Pirandello a Marconi, eppure alla fine si fece trattare da zimbello da un «pazzo pericoloso» (parole sue) come Hitler; fu per un lungo periodo un condottiero amato da una maggioranza schiacciante di italiani, come nessun altro prima, e poi fu appeso per i piedi a un distributore di benzina, nel mezzo di un linciaggio da parte di una folla che era stata la sua più grande amante.
Queste continue discrasie costituiscono il migliore antidoto tanto contro la mitizzazione, quanto contro la demonizzazione, di quel periodo e di quel personaggio. Questo lungo elenco di contraddizioni è la prova lampante che non può esserci altro metro all’infuori della complessità per provare a comprendere quella porzione di storia.
Per il resto, è un libro non recensibile. Impossibile sintetizzare un volume che è la sintesi più scarna ed essenziale di una biografia sconfinata. Eppure è d’obbligo segnalarlo, per quel suo mettere in difficoltà i nostalgici, che saranno scontenti di molte pagine, ma anche i fanatici dell’antifascismo postumo, che vedranno smentiti quasi tutti i loro dogmi, a partire da quell’immagine macchiettistica che hanno costruito del vigliacco che se ne scappa con l’amante vestito da tedesco. L’apice di quella tragedia – quei giorni di sangue fraterno gettato via, la convulsione di quelle ore – smentisce ogni semplificazione infamante. Leggere Benito è importante proprio perché aumenta gli interrogativi e sgretola le certezze, comunque la si pensi. Solo così è possibile fare pace con quella storia: né mitizzandola, né demonizzandola.