Politologo, professore emerito al Cesare Alfieri, per molti fondatore della Nuova Destra italiana, tra i maggiori studiosi dei populismi e delle sismografie della politica italiana, Marco Tarchi torna con “Le tre età della fiamma. La destra in Italia da Giorgio Almirante a Giorgia Meloni” (edito per Solferino) a indagare la storia del “popolo della destra” dal Movimento Sociale a Fratelli d’Italia. Il libro (dove l’autore viene intervistato da un grande giornalista come Antonio Carioti), insieme analisi e bilancio, ripercorre l’evoluzione della destra postfascista dalle origini idealistiche alla normalizzazione istituzionale, con una voce critica e disincantata che non cede né all’apologia né al pregiudizio, ma illumina con lucidità le sue ambivalenze e i suoi destini.
-Quali sono le tre età della fiamma e quali ne sono stati i protagonisti e le bussole?
Quelle che corrispondono all’arco di esistenza dei partiti che hanno scelto o conservato quel simbolo: il Movimento sociale italiano (neofascismo), Alleanza nazionale (postfascismo), Fratelli d’Italia (afascismo). Ciascuno con i suoi esponenti di punta: Michelini, Almirante, Fini, Meloni.
-Che funzione svolse il MSI nella Prima Repubblica e quale eredità ha lasciato al Paese?
Essenzialmente quella descritta a suo tempo da Almirante: traghettare i fascisti in democrazia e offrire loro una rappresentanza, nella speranza andata di fatto delusa di demolire l’immagine crociana del fascismo come parentesi e di fargli riconoscere un ruolo legittimo nella storia italiana.
-Quale tipo di rapporto esisteva tra gli “intellettuali di destra” e destra politica durante la prima Repubblica e come è cambiato successivamente? Ed oggi come procede?
Non sono mai stati rapporti facili, perché i dirigenti di Msi ed An e, mi pare, anche di FdI hanno sempre guardato con sufficienza e diffidenza a chi pretendeva di insegnar loro come si fa politica o, comunque, si azzardava a criticare alcune delle loro mosse. A chi si dimostrava più disposto a cantare nel coro è stato lasciato qualche limitato spazio giornalistico; gli altri hanno subìto emarginazioni e accuse di fare il gioco del nemico. E, in ogni caso, i loro sforzi per far sentire voci alternative nel panorama culturale italiano dominato dal progressismo non hanno goduto di nessun sostegno economico od organizzativo. Nemmeno quando questa destra è passata a ricoprire ruoli di governo e sottogoverno.
-Che tipo di eredità e insegnamenti ha lasciato, invece, la Nuova Destra italiana alla futura classe dirigente-intellettuale di An e FDI? E nei suoi valori?
Scarsisissima, per non dire inesistente, malgrado qualche isolato interesse di singoli esponenti, specialmente all’epoca del Msi, per le idee che la Nuova Destra esponeva. Il vertice missino temeva di subirne la concorrenza sul piano mediatico e proibiva la circolazione delle sue pubblicazioni nelle sedi del partito; quello di Alleanza Nazionale ha subito imboccato una strada che andava in direzione opposta rispetto a ciò che fin dagli anni Settanta la ND predicava. Invece di superare lo spartiacque sinistra/destra e di abbracciare tematiche trasversali (ecologia, difesa delle culture popolari, rifiuto della logica capitalista dell’accumulazione illimitata, critica dell’egemonia statunitense e dell’occidentalismo), lo ha santificato e se ne è servito.
-Perché in Italia non è mai nato un Partito Conservatore e quali furono i tentativi che potevano favorire tale esito? E secondo lei oggi cosa manca ad FDI per trasformarsi in un Conservative Party come quello britannico?
Per quanto paradossale possa apparire, l’ostacolo cruciale è stato l’affermazione del fascismo, che ha fuso istanze conservatrici e (confuse) aspirazioni rivoluzionarie all’insegna di una condanna senza appello del vecchio mondo. Questa contaminazione ha fatto apparire i conservatori mere ruote di scorta del fascismo e li ha condannati all’esecrazione pubblica, costringendoli a rintanarsi sotto l’ala della Democrazia Cristiana. Quando Tangentopoli li ha liberati da quella condizione di cattività, si sono accontentati della mistura liberal-qualunquista di Berlusconi, che li ha fagocitati. Una solida cultura conservatrice nell’Italia degli ultimi cento anni non si è formata, e malgrado gli sforzi di Meloni di aggrapparsi a questa etichetta per liberarsi dei sospetti di continuità con le origini ideologiche missine, non vedo oggi alcun segno di una sua fioritura.

-Quale era l’immaginario politico e culturale della gioventù del MSI e di An e come essi condizionarono la politica italiana? E secondo lei ora il melonismo, aldilà di un certo pragmatismo personalista, può costruire una propria mitologia politica e culturale?
Occorre essere sinceri: i giovani missini e i loro continuatori hanno sempre coltivato, nel loro immaginario, un culto del fascismo, sia pure nelle espressioni più diverse delle sue molteplici anime: poco mussolinismo e molta passione per fenomeni affini idealizzati e ritenuti più puri: la Guardia di Ferro rumena, la Falange spagnola, il rexismo belga, il peronismo argentino delle origini. Per non parlare degli aperti richiami al nazionalsocialismo presenti in un autore di culto come Adriano Romualdi. I tentativi di transitare dal passato al presente operati dalla Nuova Destra, soprattutto attraverso il richiamo alle idee e analisi di Alain de Benoist, hanno attratto solo una componente minoritaria di quegli ambienti. Non a caso, è stata la Nuova Destra ad appassionarsi all’opera di Tolkien e a divulgarla: ma questo accadeva mezzo secolo fa. Il fatto che dalla cerchia meloniana vengano solo richiami a quell’epopea, dimostra che non c’è stata, da allora in poi, alcuna significativa elaborazione autonoma. Mi sembra difficile che, in questa situazione, si possa pensare alla nascita di una mitologia politica e culturale originale.
-Di fronte al pragmatismo meloniano oggi le anime laburiste, sociali o marcatamente alternative che spazio possono trovare nella destra nazionale di Fdi? C’è il rischio della fuga di queste anime?
Verso sinistra probabilmente no, perché anche da quella parte, dalla caduta del Muro di Berlino in poi, sono state ben poche le suggestioni culturali in grado di attivare quella dinamica di nuove sintesi in cui la Nuova Destra aveva sperato. Anzi, si è innescato un processo di integrazione di vecchi residui marxisti e frammenti di liberalismo che ha dato vita a quell’ideologia progressista che oggi si esprime nell’ondata woke, quanto di più lontano ci può essere dalle istanze sociali che, pur in mezzo a molte contraddizioni, trovavano qualche spazio nel Msi o in An. Le anime di cui Lei parla rischiano di fare la stessa fine di sempre: abbandonare la politica e, soprattutto, la lotta delle idee per effetto di un’insopportabile delusione.
-Molti hanno definito Futuro e Libertà una sorta di azionismo di destra. Ma la destra futurista finiana fu più una cometa di quella attuale o una semplice meteora che la precedette?
Non vedo nessun rapporto fra la fuga in avanti simil-progressista di Fini e le attuali posizioni di Fratelli d’Italia. Tutt’al più si potrebbe azzardare, come da più parti è stato fatto, un paragone con Democrazia nazionale, ma le condizioni sistemiche di cinquantanni fa erano talmente diverse da quelle odierne da rendere la comparazione poco convincente.
-Di fronte alle cosiddette “derive anti-sistema” di Le Pen e Weidel, Meloni oggi sembra seguire un sentiero riformatore più pragmatico. Secondo lei inizierà una melonizzazione (con i compromessi di governo ad essi conseguenti) anche alle estreme destre tedesche, britanniche e francesi o avverrà viceversa una sua radicalizzazione?
Starei attento alle parole: il populismo, e chi lo incarna, non è antisistemico, è anti-establishment. E non lo confonderei con l’estrema destra, che è un fenomeno gruppuscolare. Ad ogni modo, sì, il modello Meloni potrebbe trovare estimatori e imitatori, ma con molti e sostanziali adeguamenti, perché ogni paese ha proprie caratteristiche che necessariamente condizionano tattiche e strategie.
-Come si inserisce oggi il ruolo di Meloni nella storia e nel cammino della destra? E vede dei precedenti, delle visioni e delle radici nel melonismo o si tratta di puro pragmatismo?
Non esageriamo. Precedenti e radici di quello che, per il momento, è un semplice esperimento di governo? Mi paiono termini, e concetti, che esorbitano dai dati contingenti. L’a-fascismo di Meloni è un efficace strumento tattico, ma è ancora piuttosto carente di contenuti identificativi: dentro c’è molto nazionalismo, una buona dose di conservatorismo sui temi etici, un solido retroterra law and order: non grandi novità, direi. Ma il ruolo di Meloni è quello di essere riuscita a portare alla guida del governo italiano la destra di ascendenza missina. Non è certo poca cosa.
-Perché togliere la fiamma dal simbolo potrebbe essere un errore?
Prima di tutto perché significherebbe piegarsi a un’imposizione degli avversari, che peraltro la derubricherebbero a mossa ipocrita e meramente tattica. E poi perché non farebbe guadagnare un voto ma potrebbe farne perdere una pur ridotta parte
-Nel bagaglio formativo di molti militanti di destra (spesso delle giovanili di FDI) si trovano da Evola a Bobby Sands, da Degrelle a Pound. Oggi quali sono (o potrebbero essere) secondo lei i saggi e le opere che costituiscono il bagaglio della nuova destra meloniana?
Siamo certi che questo bagaglio esista? Bastano le citazioni di Roger Scruton o di Giovanni Paolo II, per non tornare allo scontato Tolkien, per riempirlo? Ne dubito. Meloni fa politica, non ideologia. E, come ha già variamente dimostrato, vuole avere le mani libere per cambiare rotta ogni volta che lo giudica opportuno: oggi sull’Unione Europea, sulla Russia di Putin, sul ruolo degli Stati Uniti nell’ordine mondiale. Domani chissà.