OGGETTO: Le droghe e il destino dell'umanità
DATA: 27 Ottobre 2025
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
A distanza di quasi trent'anni, "Writing on Drugs" di Sadie Plant (ribubblicato nel 2024 da Nero Edizioni come "Scritti sulla/sotto droga") rimane la via migliore per capire come le sostanze stupefacenti abbiano influenzato - e in alcuni casi deciso - la storia dell'uomo.
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In Xanadu did Kubla Khan / A stately pleasure-dome decree: / Where Alph, the sacred river, ran / Through caverns measureless to man / Down to a sunless sea.; sono i primi versi di un poema, evocativo e incompleto, scritto da Samuel Taylor Coleridge nel 1797. Il componimento sarebbe stato ispirato da una visione indotta al poeta da una dose di oppio; un sogno che si dissolse quando Coleridge, interrotto dalla visita di un poco poetico «uomo d’affari venuto da Porlock», fu tolto alle sue dolci fantasticherie. Il caso di Coleridge e dell’oppio non è l’unico: Thomas de Quincey, Charles Baudelaire, Antonin Artaud, Philip K. Dick, Jack Kerouac, Henri Michaux, Alexander Trocchi, William S. Burroughs, sono solo alcuni tra quelli che hanno intrecciato la loro vicenda letteraria alle droghe. Ma c’è molto di più: l’influenza di queste sostanze non ha agito soltanto su letterati o artisti, ma anche sul comportamento dei potenti della storia. Il peso che questa inquietante alleanza tra l’uomo e la droga ha avuto nel corso dei secoli non è sfuggito a Sadie Plant che, nel 1999, ha pubblicato un testo destinato a imporsi come un riferimento assoluto nella letteratura sulle sostanze stupefacenti. Writing on Drugs ripercorre le tappe fondamentali di questo perverso viaggio, coniugando, con eccezionale acume, letteratura, politica, storia, metafisica e superstizione.

Nel libro vengono affrontati i principali nodi della questione, senza limitazioni cronologiche e geografiche. Dai misteri eleusini, legati all’assunzione di potenti sostanze psicoattive, all’ormai assodato condizionamento sociale attuato dalla CIA tramite la diffusione della cultura psichedelica. Particolarmente significative le pagine sul rapporto tra Freud e la cocaina. Freud era un tossicodipendente che esaltava l’uso della cocaina negandone, anche attraverso le sue pubblicazioni scientifiche (si veda il saggio Über Coca), gli effetti indesiderati. Il padre della psicanalisi credeva a tal punto in questa sostanza da somministrarla alla sua fidanzata – per rimediare alla sua eccessiva timidezza – e da consigliarla al caro amico Ernst von Fleischl-Marxow (il quale, seguendo le sue indicazioni mediche sul procedere con «terapie in forma di iniezioni sottocutanee di 0,03-0,05 g. pro dose, senza timore di aumentare eventualmente il dosaggio», morì di overdose). Con l’intelligente agilità del saggista di razza, la Plant sottolinea il peso che la tossicodipendenza di Freud ha svolto nell’elaborazione della psicanalisi: la psicoterapia apparve al suo creatore come il metodo migliore per riparare agli insostenibili sensi di colpa e ai tetri vuoti, tipici del drogato in astinenza, che egli stesso confessava nelle sue sconclusionate lettere alla compagna Martha Bernays (quando, per sua stessa ammissione, era reso «loquace» dalla cocaina assunta prima di scrivere).

Sadie Plant è una studiosa di eccezionale autonomia intellettuale, ed è nota, tra le altre cose, per aver cofondato con Nick Land la Cybernetic Culture Research Unit presso l’Università di Warwick; Writing on Drugs è un libro importante, scritto benissimo e pieno di arguzia. Forse, però, possiamo rilevare due difetti, uno direttamente ascrivibile alla ricerca svolta dalla Plant e, l’altro, di cui possiamo ritenere responsabile il clima culturale in cui si è formata. Il primo difetto: si poteva insistere di più sulla diffusione della droga tra i nazisti, non soltanto tra i soldati ma, soprattutto, tra gli alti dirigenti. Sono celebri le abitudini di Hermann Göring, un irriducibile morfinomane, così come il mix di vitamine, ormoni, metanfetamine, ossicodone e morfina assunto con regolarità da Hitler. Approfondire questo aspetto porterebbe a comprendere qualcosa in più anche sull’origine di certi comportamenti, di certe politiche, di certi stati di spirito. Il secondo difetto: il libro tradisce un fascino eccessivo tributato a queste sostanze. In tal senso, lo studio della Plant può essere avvicinato a Trainspotting di Danny Boyle: un film perfetto, tanto realistico nella crudezza con cui racconta la dipendenza, quanto inverosimile nel fascino che attribuisce ai protagonisti. I drogati sono privi di qualsiasi fascino e, se ne hanno alcuno, lo hanno a prescindere dalla droga. Sarebbe un grave errore credere che Baudelaire sia diventato Baudelaire grazie all’hashish e non nonostante l’hashish). Del resto, Ernst Jünger, che certo non mancava di anticonformismo o di coraggio, dopo svariate avventure con le sostanze – i cui resoconti sono raccolti in Avvicinamenti – giunse alla conclusione per cui gli esperimenti con la droga «portano su strade davvero pericolose», aprendo stanze oscure che sarebbe bene restassero chiuse. Per inciso, fu proprio Jünger a provare la Dietilammide dell’Acido Lisergico (LSD), insieme all’amico Albert Hofmann, il chimico che l’aveva sintetizzata per la prima volta.

Un’ultima inquietante constatazione: leggendo il libro della Plant ci impressiona come svariate droghe – tra cui oppio, metanfetamine e cocaina – siano state, almeno in una fase iniziale, sostenute dalle industrie farmaceutiche, che ne determinarono il successo nascondendone gli effetti collaterali.

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