Immaginare una conversazione tra un economista e un poeta nell’epoca attuale, caratterizzata dalle specializzazioni settoriale, dall’efficenza e dalla performance, suonerebbe come un ossimoro. Lo stereotipo odierno che contraddistingue l’economista è, infatti, quello di un soggetto numeri ed efficenza, privo di qualsivoglia emozione, tranne che per la crescita del PIL, e seguace di un’unica teoria: quella del libero mercato. In buona sostanza, un tecnico più che un uomo di pensiero. Il poeta di contro, in un mondo dominato dagli influencer, è considerato una figura del passato, archiviata con la fine del secolo breve in una sorta di limbo, un soggetto fuori dal tempo, un inefficiente, perdigiorno, giocoliere di parole.
Eppure, gli esempi del passato sono di tutt’altro tenore. Gli economisti, infatti, erano anche poeti, filosofi, artisti e pensatori, mentre i poeti, nei loro scritti tenevano bene in conto l’economia. La biblioteca di Adam Smith traboccava di autori italiani la maggior parte dei quali, per l’appunto, poeti. Marx si cimentò con la poesia in età giovanile. Ezra Pound, affrontò con impavido coraggio l’incandescente questione dell’economia monetaria mettendo sotto i riflettori la grande e irrisolta questione dell’usura. Keynes, amante della vita e dell’arte in tutte le sue forme, ha fuso questo ardore nella capacità di capire e spiegare cos’è l’economia. L’eclettismo era, dunque, alla base; il pensiero fluiva in modo organico e seguiva poi l’azione. Poeti e letterati operavano nel trovare le parole adeguate per un’azione che rispecchiasse “la più alta dignità della vita umana con un’economia dell’umanità in crescente sintonia con le sue origini celesti”.
Questi due mondi, oggi apparentemente distinti e distanti, tornano ad incontrarsi in un piccolo pamphlet di agile ma intensa e affascinante lettura, edito da All Around edizioni e dal titolo diretto e significativo: “Conversazione tra un economista e un poeta”. Gli autori Pierangelo Dacrema, economista atipico e dissidente già incontrato su queste colonne, insieme al compianto poeta Francesco Dionesalvi, scomparso di recente, hanno intessuto un dialogo che si snoda tra le pagine del volume, partendo dall’assunto che l’arte è la parte eccellente dell’economia ed entrambe sono accomunate dal medesimo paradigma: pensiero, volontà, azione. Avendo chiare le tradizioni di queste due discipline, l’economista e il poeta si soffermano spesso sulle incongruenze della contemporaneità, ponendo prepotentemente l’accento sulla mediocrità dei risultati raggiunti dall’attuale modello economico, in cui sono sempre più in aumento gli squilibri e, conseguentemente, “le vittime dell’economia e della cultura dello scarto”. Eppure, già Dante ci aveva messo in guardia da tali prospettive collocando nello stesso girone infernale sia gli avari che i prodighi. La necessità dell’economia, per il Sommo poeta, risultava moralmente essenziale tanto quanto la poesia per bilanciare l’agire umano con il pensiero. Un’equiparazione apparentemente paradossale ma che, per come interpretato da Dionesalvi, evidenzia l’importanza di non bramare la ricchezza, ma neanche di criminalizzarla condannando ogni forma di dismisura e squilibrio di certo in netto contrasto con l’idea aristotelica di “giusto mezzo”.

L’intento degli autori, per come emerge già dalle prime pagine dell’opera, è farsi costruttori di un nuovo ponte tra le due discipline dai cui interscambi possa prendere vita un nuovo modello, a misura d’uomo e che ne riconosca la centralità. L’uomo, difatti, afferma il poeta, è nato “per vivere e gustare la Bellezza, per cogliere ed esprimere armonia. Senza di ciò, la vita è davvero poca cosa” e la decisione di scegliere la poesia quale strumento di edificazione di questo modello scaturisce dal fatto che essa è l’arte che “sa fornire le parole alle emozioni, ai desideri, agli slanci e ai bisogni più intimi e alla fine più significativi della natura umana”. L’arte che insegna a sognare, che dà libertà. Ed è proprio la libertà che viene ad essere sempre più ostacolata dal modello economico attuale che per l’economista “si fonda sulla formidabile efficacia di un marketing ossessivo che ci impone cosa, come e quando consumare; e, di conseguenza, anche chi e in che misura arricchire o impoverire”.
Viviamo, difatti, in un’epoca che, definita da Dacrema “… dello schermo” sia esso del tablet, del display di un computer, o quello di un telefono cellulare, sta generando, oltre a massicci condizionamenti mentali, anche isolamento e solitudine, imponendo una rivoluzione, quella appunto digitale, che rischia se non adeguatamente gestita, di narcotizzare le coscienze, inibire i sogni e immobilizzare i corpi, mantenendo le menti in perenne collegamento. Una stasi in cui a prevalere saranno gli amministratori delle grandi multinazionali dell’high-tech che governeranno sull’esistente traendo profitto dalle aspirazioni e frustrazioni umane.
Se vi è un briciolo di speranza che la Poesia possa fungere da granello di sabbia capace di inceppare questo perverso meccanismo, allora… ora e sempre viva la poesia!