OGGETTO: Fino a che punto conta il diritto internazionale
DATA: 29 Ottobre 2025
SEZIONE: Media
FORMATO: Visioni
Dalla prima referral per il Darfur alla crisi libica del 2011, il dispositivo del Consiglio di Sicurezza verso la Corte Penale Internazionale rivela la trasformazione del diritto in spettacolo: uno strumento politico che estetizza la colpa, legittima la forza e produce immagini più che giustizia. La giurisdizione universale diventa teatro mediatico, simulacro d’un ordine morale incapace di agire, residuo della sovranità liberale post-Guerra Fredda.
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Lo Statuto di Roma, entrato in vigore nel 2002, introduce la Security Council Referral: il Consiglio di Sicurezza ONU può “riferire” una situazione alla Corte Penale Internazionale, attivandone la giurisdizione anche su stati che non hanno mai ratificato lo Statuto né accettato la competenza della Corte, permettendo a un organo politico di azionare un tribunale formalmente indipendente.

Il dispositivo viene attivato per la prima volta nel 2005 per il Darfur. La Corte emette mandati contro il presidente sudanese al-Bashir, che tuttavia continuerà a governare (fino al 2019) senza essere mai arrestato. Senza enforcement, il dispositivo funziona esclusivamente come teatro legale. Il mandato tende a risolversi nella produzione di una documentazione che estetizza la colpevolezza, rendendola immagine giuridica nel paesaggio mediatico globale, secondo il principio per cui, come aveva intuito James Graham Ballard, l’atrocità contemporanea produce eminentemente catalogazione.

La seconda e ultima attivazione avviene nel 2011. Il 26 febbraio il Consiglio riferisce la Libia alla CPI all’unanimità. Russia e Cina votano a favore confidando nella circoscrizione della misura (r. 1970). Poche settimane dopo la risoluzione 1973 autorizza “tutti i mezzi necessari” per proteggere i civili, dando più o meno direttamente il via, il 19 marzo, all’azione militare NATO: quasi diecimila missioni in sette mesi disvelarono, una volta di più, il meccanismo di autoimmunità già descritto da Derrida in Stati canaglia (2003). Il 27 giugno la CPI emette mandati contro Gheddafi mentre la guerra è in corso. In questo modo i bombardamenti sono legittimati come operazione di polizia internazionale. La sua uccisione avverrà poi il 20 ottobre: le immagini del suo corpo agonizzante circoleranno immediatamente online.

L’eliminazione, come a seguire un’intestina logica ballardiana, più che evento giuridico è spettacolo osceno consumato globalmente, giustificato attraverso l’uso pretestuoso del linguaggio del diritto umanitario. Il dispositivo SCR funziona come una perfetta macchina di spettacolarizzazione. La referral trasforma Gheddafi da capo di stato a figura criminale globalizzata. La morte stessa chiude il cerchio: ogni passaggio viene documentato, fotografato, archiviato. Metamorfosi insieme giuridica ed estetica: da sovrano a imputato a immagine della morte violenta consumabile a beneficio di una platea mondiale.

Carl Schmitt aveva mostrato anzitempo come il concetto di “crimine contro l’umanità” distrugga la concezione di guerra limitata secondo criteri condivisi, trasformando l’avversario in nemico totale, assoluto. Chi nomina il crimine si pone infatti nella postazione favorevole dell’arbitrato universale, come sovrano che gioca a velare questa preminenza: agisce in nome dell’umanità e si fa portatore di un universalismo punitivo che, in un vortice caotico di innovazione tecnologica e mobilitazione totale, produce anche una decisiva ridondanza di carattere mediatico. Gheddafi viene eliminato come personaggio di una narrativa globale che richiede la sua morte violenta come conclusione spettacolare. Del resto, il tribunale universale ha bisogno del pubblico globale che consuma le immagini del crimine e della punizione: Debord, già nel 1967, aveva scritto che lo spettacolo è un rapporto sociale mediato dalle immagini che sostituisce la realtà.

La crisi libica, in effetti, segna la fine della fruibilità del dispositivo. Russia e Cina realizzano come il linguaggio umanitario sia stato usato per attuare un regime change. Il rappresentante russo dichiara nell’ottobre 2011, dopo l’astensione al voto per la r. 1973, che Mosca non permetterà più che risoluzioni umanitarie diventino mandati per rovesciare governi. Da quel momento sarà il dispositivo di veto a bloccare ogni nuovo tentativo. Così, nei quattordici anni successivi, non ci sarà nessuna nuova referral. Il SCR esiste formalmente tuttora, ma è lettera morta, in uno stallo che significa paralisi permanente. Il dispositivo rimane relegato al momento liberal post-Guerra Fredda, anche se, naturalmente, ciò non significa la fine della CPI, che continua invece a operare attraverso altri meccanismi: stati che ratificano lo Statuto, accettazioni ad hoc della giurisdizione, indagini del Procuratore. È anzi la sopravvivenza della CPI oltre il blocco del SCR a confermare invece come il diritto sia diventato velo necessario sull’esercizio della forza.

L’intero costrutto del diritto internazionale post-Libia simula se stesso: emette mandati che non verranno eseguiti (Putin, Netanyahu), convoca commissioni che non porteranno a processi, rileva crimini che non verranno puniti. Questa simulazione è necessaria perché l’assenza di diritto può, al massimo, essere intesa ma mai dichiarata. L’Occidente non può ammettere l’evidenza della pratica di pura logica di potenza – quello che il generale Friedrich von Bernhardi nel 1911 chiamava “il diritto della forza necessaria” – mantenendo invece la forma del diritto universale finanche svuotata, coniugando appunto quel nichilismo della forza con il moralismo universalista, presupposto ed eredità del momento unipolare. Questa forma continua a funzionare come cornice estetica: legittima la produzione incessante di immagini del crimine che circolano globalmente senza mai tradursi in processi reali, ma, eventualmente, in dispositivi minimi ulteriori per la legittimazione del conflitto permanente.

Questo diritto “svuotato” mantiene una efficacia residuale, i cui effetti sono asimmetrici e selettivi: funzionano pienamente solo quando si allineano con equilibri geopolitici preesistenti, mai contro di essi.

Roma, Giugno 2025. XXVIII Martedì di Dissipatio

Questa asimmetria è la funzione primaria allo stato attuale. Il diritto internazionale contemporaneo, o il suo residuo al netto degli stalli impliciti alla concertazione tra parti inconciliabili, opera esattamente come strumento geopolitico particolare mascherato da universale. La sua efficacia parziale è componente attiva della spettacolarizzazione: deve funzionare abbastanza da mantenere credibile la performance, ma selettivamente da non ostacolare gli interessi delle potenze che lo sostengono. Un diritto completamente inefficace sarebbe ignorato; un diritto veramente universale sarebbe abbandonato poiché insostenibile dalle parti. Lo spazio intermedio – dove il diritto colpisce i deboli e performa contro i forti – è precisamente l’intercapedine in cui si colonizzano le coscienze: abbastanza reale da alimentare il consumo mediatico, abbastanza simulato da non minacciare l’ordine né l’equilibrio di potenza sottostante.

Nelle accuse incrociate tra parti in conflitto si produce una guerra simbolica parallela: si cerca di monopolizzare la categoria di vittima per vincere la battaglia delle immagini in un contesto di guerra definitivamente ibridata. Il crimine non esiste più come fatto processabile ma come contenuto infinitamente replicabile, indicizzato dall’economia dell’attenzione globale e del flusso di informazioni.

Il report stesso non è preparazione del processo, è l’unico evento. Le varie commissioni (ONU e UE su tutte) trasformano la sofferenza in PDF scaricabili, database online, infografiche. La violenza viene catalogata con freddezza medicale secondo i principi dell’archiviazione. La vittima diventa case study, il carnefice entry in database. Il pubblico sa che questi archivi esistono ma ne consuma solo frammenti. L’orrore documentato diventa contenuto modulare. La loro esistenza testimonia che il diritto è il palcoscenico per lo scontro tra narrative e visioni del mondo.

La struttura di questa estetizzazione ha quattro livelli. Primo: produzione incessante di immagini del crimine non come prove ma come contenuto da consumare immediatamente. Secondo: enunciazione del crimine attraverso categorie giuridiche come amplificatori estetici che trasformano violenza in atrocità assoluta. Terzo: simulazione del processo attraverso mandati inapplicabili, commissioni infinite, tribunali-fantasma che mantengono la forma della giustizia senza sostanza. Quarto: il pubblico globale non come giudice ma come consumatore dell’atrocità.

Il diritto internazionale è diventato esso stesso il dispositivo che organizza il consumo delle atrocità. Fornisce le categorie che massimizzano l’intensità estetica. Produce gli archivi che rendono l’orrore catalogabile. Crea le performance che mantengono il flusso.

Ma questo spettacolo, agghiacciante, è il terreno della guerra per la legittimità dell’ordine mondiale, per la battaglia per l’opinione pubblica globale, tra la pretesa di superiorità morale e la denuncia del doppio standard. Ogni mandato, ogni dichiarazione di genocidio, ogni report alimenta narrazioni incompatibili. Per il pubblico occidentale confermano l’operosità della “comunità internazionale”. Per il pubblico non-occidentale confermano l’ipocrisia: perché Putin ricercato e non Bush per l’Iraq? Perché la CPI ha processato prevalentemente leader africani, mentre responsabili occidentali di crimini documentati restano intoccabili? Il diritto è diventato un dispositivo autoimmune, come aveva inteso Derrida: produce gli anticorpi che ne distruggono la ratio, rivela la propria parzialità dichiarando la propria universalità, si delegittima usandosi.

Certo, la giustizia internazionale ha prodotto alcuni processi reali: Taylor in Sierra Leone, condanne all’ICTY e ICTR. Ma questi successi appartengono a tribunali ad hoc del momento unipolare o a situazioni in cui il diritto si allineava perfettamente con gli interessi geopolitici dominanti. Non contraddicono la tesi della spettacolarizzazione: la confermano, mostrando che il diritto funziona quando serve lo status quo, si blocca quando lo minaccia.

L’Occidente stesso non riesce più a credere nella propria narrazione universalista, coglie la propria ipocrisia, ma non può abbandonare la finzione senza ammettere il ritorno alla logica di potenza. Questo doppio vincolo produce la paralisi: il diritto viene invocato ossessivamente ma svuotato di credibilità, mantenuto come simulacro mentre tutti ne osservano l’inefficacia.

L’atrocity exhibition ha pubblici divisi che consumano le stesse immagini traendone conclusioni opposte, costruendo gallerie parallele incompatibili. Il dispositivo aveva tentato tra il 2005 e il 2011 di reificare l’universale. Quando fallisce, si riadatta alla nuova forma di esposizione globale dove le vittime vengono catalogate, i carnefici iconizzati, la violenza documentata ossessivamente, mentre il pubblico consuma tutto come contenuto infinitamente riproducibile. La crisi di legittimità è condizione permanente: una forma che ha smesso di simulare efficacia giuridica per abbracciare la funzione di organizzatore della feticizzazione dell’osceno, alimentando una guerra di narrazioni che, sull’universale dissolto, tradisce l’inesistenza di un fondamento condiviso. Questo è il declino come impossibilità strutturale di produrre consenso universale sulle categorie fondamentali del crimine e della giustizia, dove l’Occidente mantiene la forma del diritto proprio perché ha perso la capacità di farlo funzionare, trasformando la propria creazione giuridica più ambiziosa in teatro permanente della propria impotenza — dal dispositivo allo spettacolo, dalla giustizia all’estetizzazione dell’orrore.

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