Altro che microchip. A rendere ineluttabile la prossima grande contesa non è la sola corsa all’algoritmo, ma la competizione per il dominio delle onde – sulla superficie del mare e nei suoi abissi, attraverso fondali, terra, cielo, spazio orbitale e cyberspazio. Se la Cina punta a insidiare il primato marittimo statunitense, gli Stati Uniti non possono permettersi di arretrare: la loro linea di difesa strategica parte dal Giappone e si estende, come una verticale di contenimento, fino all’Australia, passando per Taiwan e le Filippine. Un’architettura pensata per arginare l’espansione navale cinese e mantenere il controllo delle rotte vitali dell’Indo-Pacifico.
In questo contesto, l’Italia sembra sempre più consapevole della centralità strategica di questi mari. Con una delle marine più capaci d’Europa, la Marina Militare ha già esteso il proprio raggio d’azione oltre i confini tradizionali del Mediterraneo, con una postura sempre più proiettata verso l’Indo-Pacifico — senza però disimpegnarsi dal Mediterraneo, che resta il suo spazio vitale. La missione del 2024 della portaerei italiana ITS Cavour nell’Indo-Pacifico lo ha dimostrato chiaramente. Durante quella missione, il gruppo aereo imbarcato – inclusi gli F-35B – ha partecipato a esercitazioni e operazioni congiunte con la Marina degli Stati Uniti e altri alleati nel Mar delle Filippine, con una tappa significativa a Singapore e, secondo diverse fonti, attività nei pressi del Mar Cinese Meridionale. L’obiettivo strategico era chiaramente collegare i fronti euro-atlantico e indo-pacifico, rispondendo soprattutto all’assertività cinese nella regione. Questa missione segna un’evoluzione profonda della postura italiana, come attore navale globale, capace di operare in sinergia con gli Stati Uniti nei principali teatri marittimi del XXI secolo.
Detto ciò, il Mediterraneo resta il punto critico italiano. A complemento del dispiegamento indo-pacifico, c’è stata l’esercitazione Mare Aperto 2025 – la più recente e tecnologicamente avanzata operazione navale condotta dalla Marina Italiana, svoltasi tra marzo e aprile nel Mediterraneo centrale. Tutto ciò in un contesto in cui Russia, Turchia e Cina stanno intensificando la propria presenza nell’intero spazio mediterraneo. Sfidanti comuni sia per Italia che per gli Stati Uniti. Negli ultimi anni, per esempio, La Cina ha cercato di estendere la propria influenza anche agli spazi italiani, puntando strategicamente su Trieste. Non si tratta di una scelta casuale. Trieste è uno snodo nevralgico della geopolitica europea e globale, e la sua posizione all’estremo nord-est dell’Italia, affacciata sull’Adriatico, le conferisce un ruolo di cerniera tra Europa centrale, Balcani e Mediterraneo.
La Cina, che ambiva a inglobare l’Italia nella propria sfera di influenza, lo rese evidente con il memorandum firmato a Roma nel marzo 2019: documento simbolico che proiettava Trieste a terminale europeo della “via della seta”. Washington, consapevole della valenza strategica della penisola e timorosa che cadesse nell’orbita cinese, reagì rilanciando l’ “invito” a Roma a partecipare al progetto IMEC (India–Middle East–Europe Corridor), la rete marittima, logistica e digitale che collega l’Oceano Indiano all’Atlantico passando per il Mediterraneo – la risposta americana alla Belt and Road cinese, e insieme il tentativo di ricondurre l’Italia dentro il perimetro geoeconomico dell’Occidente. Questo aiuta a mettere a fuoco il problema e ad aprire lo spazio per soluzioni concrete. Il vero nodo è che in Italia – in particolare la classe politica che accarezzava la mano della Cina – ha agito in uno spettro che oscilla fra ingenuità e inconsapevolezza di sé, della geografia, del valore strategico del suo mare, del peso che esso ha negli equilibri globali. Ed è proprio questa cecità a rendere il Paese vulnerabile. Chi non conosce sé stesso finisce inevitabilmente per servire gli interessi altrui.
Anche se dal 2019 a oggi il quadro politico italiano ha cambiato volto, la fragilità resta la stessa. La rinnovata sensibilità che oggi sembra animare gli apparati italiani rappresenta senza dubbio un passo avanti, ma non ancora una svolta strutturale. In Italia, la dimensione marittima non è parte della formazione della classe dirigente perché manca, prima di tutto, una base culturale. Il sistema scolastico, prigioniero di un impianto nozionistico e autoreferenziale, non educa al pensiero critico né trasmette la percezione della posizione geostrategica del Paese. Finché la scuola non insegnerà a leggere la realtà nazionale in chiave geopolitica – integrando questa precisa prospettiva nello studio della storia, dell’economia, della geografia, alla filosofia e alla letteratura – l’Italia continuerà a produrre élite prive di orientamento strategico. Così si ripete in una sorta di eterno ritorno il grande dramma italiano, ogni cambio di governo rischia di azzerare il fragile progresso maturato negli ultimi anni, riaprendo il varco a quelle disattenzioni che possono generare errori gravi. La postura finale di una nazione necessita impostazione dal basso, non esistono scorciatoie.

Nel frattempo, la cooperazione tra Italia e Stati Uniti in ambito difesa potrebbe – e dovrebbe – essere gestita con maggiore astuzia da parte della politica italiana. Schierarsi apertamente al fianco di Washington ha senso solo se accompagnato dalla capacità di orientare il dialogo, avanzare richieste, e far valere i propri interessi. Limitarsi a eseguire direttive altrui senza contropartite concrete significa rinunciare in partenza al proprio margine d’azione. La cooperazione navale ne è un esempio concreto. Nel maggio 2024, Fincantieri Marinette Marine, controllata del gruppo triestino, ha ottenuto un contratto da oltre un miliardo di dollari per la costruzione delle fregate FFG-66 e FFG-67 della classe Constellation. Un rapporto del Congresso USA del marzo 2025 conferma che l’intera serie, a partire dalla FFG-62, è realizzata nei cantieri di Marinette, Wisconsin. Mentre gli Stati Uniti lavorano per ricostruire una catena di approvvigionamento strategica interna, l’Italia offre capacità, esperienza e solidità manifatturiera, fungendo da cerniera tra la domanda americana e il know-how italiano ad alta tecnologia.
Da un lato, Washington punta a ricostruire la propria base industriale e cantieristica della difesa – cardine materiale della sua egemonia; dall’altro, Roma ha bisogno di capitali e di una domanda estera stabile per mantenere vivo il proprio tessuto tecnologico, alimentare l’innovazione e valorizzare una manifattura avanzata che resta tra le più raffinate d’Europa. La vera domanda, per l’Italia, è come trasformare una relazione spesso asimmetrica in un vantaggio strategico. In questo senso, l’alleanza con gli Stati Uniti può essere letta anche attraverso la lente della dialettica hegeliana del servo e del padrone: sebbene uno sia più forte, la dipendenza reciproca apre spazi d’influenza per chi sa rendersi indispensabile. La nostra crescente presenza nell’Indo‑Pacifico risponde alla logica di farci percepire come partner utili, affidabili, capaci di contribuire alla stabilità globale.
Ma offrire contributi senza rivendicare nulla in cambio rischia di svuotare di senso la nostra partecipazione. In un’epoca in cui il peso dell’egemonia globale grava sempre più sulle spalle americane, e Washington cerca di distribuire (a ragione) l’onere tra gli alleati, l’Italia deve cogliere l’occasione per ritagliarsi uno spazio autonomo, anche in teatri lontani dal proprio orizzonte naturale. Restare rilevanti significa anche saper essere utili – ma anche saperlo negoziare. Nel contribuire allo sforzo comune, l’Italia dovrà evitare di indebolire la propria presenza nel Mediterraneo, cuore naturale della sua proiezione strategica e area di responsabilità primaria.
Da ciò deriva l’imperativo di rafforzare le capacità marittime nazionali – non solo mantenendo pienamente operativa la portaerei Cavour, ma anche completando l’integrazione della Trieste, la recente unità anfibia multiruolo progettata per operare come “portaerei ausiliaria”. Tuttavia, l’Italia sta ora valutando un salto tecnologico ben più ambizioso: lo sviluppo di una portaerei a propulsione nucleare, la prima nella storia del Paese. Un progetto che collocherebbe la Marina Militare italiana in una cerchia estremamente ristretta, finora composto solo da Stati Uniti e Francia.
Il Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa 2025–2027, pubblicato nell’ottobre 2025, prevede esplicitamente l’avvio di studi e sviluppi tecnologici per future unità navali – inclusa una portaerei di nuova generazione, “con ogni probabilità” a propulsione nucleare. L’ammiraglio Enrico Credendino, Capo di Stato Maggiore della Marina, ha confermato in un’intervista del giugno 2025 che sono già in corso studi preliminari.
Storicamente, l’Italia ha già realizzato tre unità navali in grado di operare velivoli ad ala fissa, fra le quali la Garibaldi (ritirata dal servizio nel 2024), la Cavour e la nave d’assalto anfibio Trieste. Le ultime due possono imbarcare caccia F‑35B e rappresentano i pilastri della proiezione marittima italiana. Tuttavia, la loro autonomia operativa resta limitata – da due settimane a un mese senza rifornimenti. Una portaerei a propulsione nucleare, al contrario, garantirebbe un’autonomia praticamente illimitata, maggiore velocità e una capacità energetica superiore – basti pensare che le navi della classe Nimitz statunitense sono più veloci della Trieste, pur pesando oltre 60.000 tonnellate in più. Queste caratteristiche risultano essenziali per operazioni prolungate in teatri lontani, come il Mar Rosso e l’Indo‑Pacifico, dove gli interessi italiani sono in crescita.
Parallelamente, il programma Minerva di Fincantieri sta esplorando l’integrazione di piccoli reattori nucleari modulari (SMR) su sottomarini e altre piattaforme navali. Con un budget iniziale di 2,1 milioni di euro, Minerva mira a valutare la fattibilità tecnico-industriale della propulsione nucleare per le future unità della Marina Militare italiana, segnando un salto tecnologico significativo nella capacità nazionale di proiezione navale. L’investimento, eventualmente inserito nel quadro del riarmo europeo già in discussione, rappresenta una scelta più coerente con la vocazione marittima dell’Italia rispetto al solo potenziamento infrastrutturale, certamente utile ma di priorità inferiore rispetto al rafforzamento della proiezione navale.
Trascurare il Mare Nostrum equivarrebbe a smarrire il senso stesso della collocazione geopolitica dell’Italia. Ovunque si verificasse un suo arretramento, il vuoto verrebbe prontamente colmato da attori esterni. Russia, Cina e Turchia – potenze tra loro rivali, ma accomunate dalla consapevolezza del valore strategico del Mediterraneo e dall’ambizione di estendervi la propria influenza. Mentre questi attori comprendono perfettamente la posta in gioco, è proprio l’Italia – fatta eccezione per i gangli degli apparati militari – a rischiare di sottovalutarla. Mancanza di visione politica che potrebbe costare molto cara al Bel Paese, se non verranno colmate in tempo le lacune strategiche e culturali che ancora ne limitano l’azione.
Preservare la sicurezza marittima, garantire la libertà dei flussi e custodire la centralità strategica del Mediterraneo è un imperativo categorico, ci direbbe Kant. Da questo mare dipendono la proiezione marittima dell’Italia, la sua sicurezza nazionale e la capacità di agire con autonomia – per continuare a incidere sul proprio destino, invece di subirlo.