L’Impero americano si contorce, e il suo corpo sdraiato sul globo, terre emerse ed oceani, sospinge le tensioni su avversari e concorrenti, alleati e nemici. Lo scontro tra apparati federali e Casa Bianca prosegue ininterrottamente da quando Trump annunciò la sua candidatura alla presidenza. Troppo grande e radicale la svolta promessa dal magnate newyorkese ai suoi elettori e all’America tutta, stanca delle fatiche imperiali; una virata strategica che non può avvenire con un semplice cambio nello studio ovale. L’eccezionalismo americano può palesarsi attraverso quello spirito messianico e universalista, tanto caro ai neocon, quanto attraverso l’isolazionismo, costante della storia americana, poiché ciò che si ritiene eccezionale, per antonomasia, non è divisibile con gli altri. Trump, per quanto sia stato dipinto come tale, non era né l’uno né l’altro o forse è entrambe le cose.
La sua innovazione è stata comunque metodologica, attirandosi le antipatie dei neocon, ancora forti negli apparati federali. Trump ha dipinto un’America vittima di istituzioni internazionali, di nemici interni e coalizioni di avversari globali. Blasfemia per chi si è nutrito per decenni della propria stessa propaganda, convinto che l’America stesse lì a irradiare libertà al mondo intero. Quegli stessi elementi che si crogiolavano nella propria superiorità morale. Qui la prima frattura: Trump ha negato la superiorità morale degli americani, non considerando il sedersi al tavolo negoziale con gli avversari una manifestazione di debolezza. Gli “antitotalitari” neocon corrosi dalla loro irremovibilità escludono a priori qualsivoglia forma di diplomazia, muscolare e non, nei confronti dei rappresentanti del Male. La visione manichea e moralistica del mondo e della politica aveva accecato le èlites washingtoniane al momento d’imbarcarsi in irrisolte guerre al terrorismo e contro svariati “Stati canaglia”.
Trump e i neocon, tuttavia, dispongono di un notevole punto di contatto: l’avversione per le istituzioni internazionali (oltreoceano apprezzate solo da sparuti gruppi di accademici internazionalisti liberali) e il sostegno incondizionato a Israele. La natura imperiale degli americani non consente di cedere sovranità a questi vacui consessi. L’America crea ed esporta diritto, non vi si sottomette. Trump è stato applaudito in alcune sue iniziative, anche da esponenti Neocon, rappresentati fino a poco tempo fa nella figura di John Bolton, consigliere per la Sicurezza nazionale, castigatore delle Nazioni Unite. Bolton disse in una sua intervista del 2000 al New York Times che se fosse stato per lui il Consiglio di Sicurezza dell’Onu avrebbe avuto un solo membro, ovvero gli Stati Uniti, dal momento che quello era il riflesso dei rapporti di forza su scala globale. E allora via dagli accordi di Parigi sul clima, dall’Unesco, dall’INF sulle armi nucleari a gittata intermedia e dal Consiglio delle Nazioni Unite sui diritti umani e trasferimento dell’ambasciata Usa in Israele a Gerusalemme.
Trump ha comunque rotto con gli apparati e quello che, ormai senza più indugi, anche la stampa corrente chiama “Stato profondo”. Quest’ultimo preserva la continuità imperiale, le coperture militari fornite ai clienti nel mondo e il ruolo degli Usa come compratori di ultima istanza, creatori di dipendenza nei Paesi esportatori oltre atlantico. Il messaggio era lampante: non ci si dimette dal nostro ruolo imperiale per decreto presidenziale. Trump e il suo entourage volevano forse ritrarre l’America ad un più confortante soggetto nazionalistico, isola del mondo, forte e inattaccabile. Ma gli apparati di Difesa e Sicurezza nazionale, seduti nelle poltrone dei palazzi che contano, da Langley a Fort Meade, al Pentagono hanno posto il veto. Ma quel veto si trasforma in lotta di potere, furioso e drammatico scontro che non esclude niente e nessuno, dal Congresso in patria ai governi all’estero.
L’avvicinamento strategico alla Russia proposto dall’amministrazione Trump, in funzione anticinese, non è accettabile; il rischio è la perdita del controllo sull’Europa, la saldatura definitiva di Berlino e Mosca, primo caposaldo strategico da scongiurare per gli americani. La guerra era già iniziata e gli apparati burocratici, impossibilitati a rifiutare ogni provvedimento spostavano la disputa su un campo di battaglia forse inedito: la politica interna e le agenzie d’intelligence di Paesi “amici”. Il Pentagono ha rimpolpato il numero dei contingenti americani all’estero, in Europa e Medio Oriente nonostante Trump avesse definito “andata” la Nato e avesse considerato entrambi i quadranti, secondari. Trump portava con sé la priorità dettata dalla pancia del Paese, che vedeva nella Cina un concorrente sleale e manipolatore che affossava il benessere degli americani. La priorità era ed è il Pacifico.
Il Dipartimento di Stato faceva saltare un accordo definitivo con Kim-Jong-Un per questioni di stile della resa del dittatore nordcoreano, mentre perseguiva il regime-change in Venezuela, non prioritario però per il Presidente intento a non impantanarsi in contesti marginali che non consentissero ritorni elettorali. Questi elementi di grande spessore strategico si combinano ad altre vicende più contenute ai quattro angoli del globo, che invischiano Paesi terzi nelle lotte e nelle sofferenze delle strutture di potere americane.
Scardinare l’intesa russo-americana è toccato agli australiani, agli italiani, ai britannici e agli ucraini. Un misterioso professore maltese residente a Roma, Mifsud, che ormai da due anni ha fatto perdere le tracce, è al centro di un gioco di sponda tra Mosca e lo staff della campagna elettorale di Trump, nella persona di George Papadoupoulos, trentenne analista salito agli onori della cronaca dopo aver incontrato lo stesso Mifsud ed altri funzionari del Cremlino, che gli riferivano di essere in possesso di un dossier scottante contro Hillary Clinton, avuto dall’ultima National Democratic Committee. Divenuto pubblico l’hackeraggio della convention democratica, l’ambasciatore australiano a Londra Alexander Downer avvertì gli americani della discussione avuta con Papadoupoulos, innescando l’avvio di un’indagine dell’FBI sulla campagna presidenziale di Trump. Nel suo libro Deep Target Papadoupoulos affermò di essere stato incastrato, ricevendo dal misterioso Mifsud alcune informazioni che poi ingenuamente avrebbe ripetuto con il diplomatico australiano. Registrato l’audio, la macchina del fango sulla campagna era già partita.
Nell’ottobre successivo rincararono la dose gli inglesi tramite un ex agente dell’ MI6, Christopher Steele che raccontò di uno specifico dossier su un intervento importante del Cremlino in favore del magnate newyorkese. Nel frattempo gli ucraini svelarono parcelle a sei zeri versate dall’ex presidente filorusso Yanukovich al capo della campagna elettorale trumpiana, Paul Manafort. Arrestato Manafort, Trump cominciò il mandato con le mani legate, smentendo nei fatti tutti i propositi di virata strategica sui russi. Le vicende giudiziarie, complesse e ingarbugliate, convogliarono verso l’indagine del superprocuratore Robert Mueller, per tenere sotto scacco il presidente, senza però giungere all’esautoramento totale e al discredito che avrebbe portato con sè a livello globale e d’immagine, non tanto su Trump, quanto sulla stessa istituzione della Presidenza.
L’entourage trumpiano, inizialmente sulla difensiva a parare i colpi degli apparati cominciò a battersi fuori dal suolo americano per non rovinare definitivamente l’immagine politica e umana del Presidente e dell’amministrazione. La reazione è stata simmetrica, rilanciando minacce e rappresaglie nei confronti degli stessi apparati e governi stranieri che in precedenza erano stati usati dalla Cia e forse dal Pentagono per togliere terreno sotto i piedi alla Casa Bianca. I trumpiani hanno costretto quegli stessi governi a scegliere, a farsi partecipi di un conflitto interno che potrebbe avere ricadute spaventose su alcuni Paesi. Le minacce dei repubblicani sono arrivate contro gli inglesi e gli australiani, intimando di controllare maggiormente i propri reparti d’intelligence, schierati con Fbi e Cia per delegittimare la presidenza americana.
William Barr, segretario alla Giustizia, e il segretario di Stato Mike Pompeo sono stati inviati in un tour in alcuni Paesi coinvolti in queste macchinazioni, minacciando ritorsioni a governi e agenzie che non avessero parteggiato per il campo presidenziale. Passati i mesi e all’approssimarsi ormai della feroce campagna elettorale che condurrà alla scelta del presidente nel 2020, Trump e il suo tramite Rudy Giuliani, ex sindaco di New York, ricattavano il neopresidente ucraino Volodymyr Zelenskyj, per l’avvio di un’inchiesta nei confronti del candidato e avversario democratico di Trump, Joe Biden, accusato di aver sistemato il figlio Hunter alla presidenza di una società di idrocarburi (Burisma Holdings) operante nel mercato ucraino, con sede a Cipro.
In una prima fase contrario, Zelenskyj era stato convinto dalle minacce di congelamento di 400 milioni di dollari americani per aiuti militari al Paese, dopo una conversazione telefonica con lo stesso Trump. Forse era troppo anche per alcuni del suo staff, come Bolton, i cui “servigi non furono più richiesti” proprio da quel momento. Il 24 settembre 2019, la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti avviava un’inchiesta formale d’impeachment contro Trump con la motivazione che egli potrebbe aver cercato di utilizzare gli aiuti esteri degli Stati Uniti al governo ucraino, per danneggiare la campagna presidenziale di Joe Biden del 2020.
Dalla soffiata di Mifsud, docente alla Link University di Roma, a Papadopoulos, torniamo in Italia, da cui era partita l’intera indagine dell’FBI. Secondo lo staff trumpiano il professore maltese altro non era che un agente provocatore o un doppiogiochista gestito da Cia e servizi italiani. Arrivato a Roma Barr e il procuratore Durham, capo della controindagine sullo Stato profondo, le autorità americane hanno trovato la massima disponibilità del nostro governo a collaborare, ricevendo l’endorsement presidenziale verso il nuovo governo giallo-rosso, con buona pace di Salvini che si era financo fatto promotore di un eventuale avvicinamento tra Washington e Mosca. Nessuna presunta ideologia resiste a concrete lotte di potere.
Alla resa dei conti, non ancora giunta, sembra che il governo italiano e ucraino siano gli unici ad essersi schierati con la Casa Bianca, forse temendo ritorsioni a breve termine sui propri sistemi, economico-finanziari nel caso italiano e politico-militare nel caso di Kiev. Non ci è dato ancora sapere se la collaborazione sia effettiva oppure gli apparati stiano bluffando o temporeggiando in attesa delle prossime elezioni americane.
Siamo nel bel mezzo di una lotta tra fazioni in piena regola, tra centri di potere che vogliono imporre la loro visione del mondo e dell’impero e coinvolgono a forza l’intero sistema, fanno della politica interna americana politica globale a tutti gli effetti, vincolano a drammatiche scelte, combattendo la loro guerra civile in campo neutro, come è sempre avvenuto negli imperi, dai duelli tra Pompeo e Giulio Cesare allo scontro tra sovranisti e globalisti.
Pare che gli apparati siano in vantaggio sulla classe politica nel dettare le priorità della potenza americana poiché la continuità che garantiscono gli dona la certezza di stare dalla parte giusta della storia, protetti da una quasi totale immunità, facendosi scudo attraverso le loro stesse istituzioni militari e di sicurezza nazionali che rappresentano, mentre portano avanti una loro agenda che appare ineluttabile agli occhi di chi invece si fa portatore di differenti politiche e approcci al mondo, ma che è al contempo responsabile di fronte alla nazione, che chiede di cambiare, e incessantemente sottoposto alla pubblica gogna di ogni opinione.