Pier Paolo Pasolini se ne andava tragicamente, in circostanze mai del tutto chiarite, cinquant’anni fa, il 2 novembre del 1975. Gli eventi, le pubblicazioni e i convegni a lui dedicati in queste settimane, segnalano che discuterne l’eredità intellettuale ha ancora un senso. Specie in un paese come il nostro, così affezionato ai suoi martiri, ai suoi morti ammazzati scomodi e pericolosi. Da poeta, cineasta e scrittore Pasolini ha saputo interpretare e raccontare le trasformazioni sociali, politiche e antropologiche del suo tempo come nessun altro intellettuale italiano del Novecento. Nicola Lagioia, su Robinson, lo ha definito non a torto la nemesi del conformismo, un mostro necessario, la perfetta vittima sacrificale. Il senso di colpa che ancora oggi l’Italia sente nei suoi confronti, per averlo isolato prima che venisse violentemente ucciso in una notte all’Idroscalo di Ostia, è lo stesso che Marco Belpoliti descriveva in Pasolini in salsa piccante: un sentimento di comodo e ipocrita che ha consegnato la vicenda pasoliniana al sensazionalismo o, nella maggior parte dei casi, alla retorica del “profeta scomparso”. Generando in ogni caso equivoci se non vere e proprie falsificazioni.
Questo anniversario giunge dunque nella forma di un’occasione preziosa, per affrontare Pasolini finalmente senza quelle sovrastrutture sulle quali ci si è adagiati fin troppo. E leggerne l’opera assumendola nella sua giusta dimensione letteraria e poetica, a partire dal contesto dell’Italia del dopoguerra. Un paese percorso da fermenti sociali e politici straordinari, di cui l’autore di Ragazzi di vita e Le ceneri di Gramsci, da una prospettiva sostanzialmente cristiana e marxista, è stato testimone controcorrente, visionario, scandaloso. Nello scenario giornalistico degli anni Sessanta e Settanta, in cui lo spazio concesso agli scrittori e la terza pagina culturale erano il fiore all’occhiello di qualsiasi giornale (si pensi alle esperienze di Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Goffredo Parise, Giovanni Testori e altri), è chiaro che un profilo come il suo, autorevole e insieme anticonformista, risultasse ideale. A tal proposito, è da poco in libreria Pasolini e il Corriere della sera 1960-1975, un volume che per la prima volta, grazie alla cura di Gianluigi Simonetti, offre l’intero corpus degli articoli scritti per il quotidiano di via Solferino.
La sua collaborazione più prestigiosa, quella che ne consacrò il ruolo di grande polemista e intellettuale civile (dopo le significative esperienze su “Vie nuove”, la storica rivista del PCI, e su “Tempo”, con la fortunata rubrica Il Caos). A differenza di Scritti corsari e del postumo Lettere luterane, che comprendevano articoli usciti sul Corriere e testi di altra natura, nel presente volume Simonetti ha raccolto in ordine cronologico solo la produzione legata al quotidiano milanese (in particolare il biennio ’73-’75), con l’aggiunta di un pezzo inedito dal titolo Quiz. L’arruolamento al giornale di Pasolini fu possibile grazie alla proprietaria Giulia Maria Crespi, che cooptò lo scrittore con la mediazione di Antonio Cederna e Nico Naldini (cugino di PPP e poeta); Piero Ottone, il direttore del rinnovamento, dalla forte impronta liberal e progressista; e il caporedattore delle pagine culturali Gaspare Barbiellini Amidei, l’artefice della gestione e della pianificazione del lavoro di Pasolini al Corriere.
Nel momento in cui lo scrittore, all’apice della fama, veniva conteso dai maggiori quotidiani nazionali, dal cinema e dalla televisione, la proprietà del giornale, consapevole di quanto fosse necessario dare spazio a posizioni in grado di accendere il dibattito, lo strappò alla concorrenza. Da questo punto di vista Pasolini, sull’organo principale della borghesia, la classe sociale cui apparteneva e che nondimeno odiava in modo feroce, con le sue idee sull’aborto (Sono contro l’aborto), il Potere (Il processo, Cos’è questo golpe?), la mutazione antropologica (Gli italiani non sono più quelli), il neofascismo dei consumi (Il folle slogan dei jeans Jesus, Contro i lunghi), non farà altro che sollecitare un’opinione pubblica abituata a ben altri toni e argomenti. Scrive Simonetti nell’introduzione: “Pasolini lavora al Corriere della Sera come un letterato che però non parla di letteratura, ma mette la propria cultura e il proprio mestiere al servizio dell’interpretazione delle trasformazioni sociali e politiche che investono l’Italia in quel momento, in continuità con la propria visione artistica”. Il suo è un giornalismo d’opinione, orgogliosamente narcisistico, incurante degli specialismi. “La sostanza della sua ideologia è irrazionalistica, ermetica, passionale, oltre che programmaticamente contraddittoria”.
Esemplare di questa postura, che è poi il modo con cui Pasolini guarda alla realtà delle cose, è l’articolo Non aver paura di avere un cuore diretto a Italo Calvino, reo di aver fatto della ragione un idolo, tanto nella scrittura quanto nell’interpretazione del mondo. All’interno della poetica pasoliniana, l’uso della metafora è fondamentale. Espressioni come “La scomparsa delle lucciole”, “il Palazzo”, “il Processo ai gerarchi democristiani”, “il partito di governo come nulla ideologico mafioso” rappresentano “persuasive sintesi sociologiche universalmente comprensibili” e “funzionano anche come rinvii puntuali all’immaginario di Pasolini, tentato dall’idillio arcadico come dai meccanismi del potere, dall’ossequio alle istituzioni e insieme dall’infrazione della Legge”. Più in generale, sono spesso la polemica, l’antagonismo, lo scontro frontale con i propri lettori (o con altri intellettuali, come abbiamo visto) a innescare gli interventi dello scrittore.
Del resto, collaborare al Corriere significava giocare “fuori casa”, “in trasferta”, alle prese con un pubblico il più delle volte ostile. La sfida era quella di non confermare l’uomo comune nei propri giudizi (o pregiudizi). Tutto il contrario della logica algoritmica e tribalistica della stampa odierna, e dei media tout court, che per mancanza di coraggio e timore di perdere consensi procede a sacrificare il senso stesso del suo mandato. Nel caso di Pasolini, Simonetti parla di coraggio autolesionistico. Non senza qualche ragione, se è vero che l’autore ha incarnato il proprio martirio molto prima della tragica morte. Ebbene, la sua condizione di uomo libero rimasto solo (in vita e anche dopo) appare oggi, a cinquant’anni di distanza, forse il lascito più insopportabile e insieme commovente di questa “storia sbagliata”.