Negli Stati Uniti, il governo si ferma, ma la potenza americana non crolla. Al contrario, si compatta. Dietro la retorica del caos e della paralisi, dietro le immagini dei parchi chiusi e dei dipendenti in furlough, si cela un dispositivo altamente razionale: lo shutdown come tecnologia politica. In un sistema dove la spesa è potere e il potere è narrativa, il blocco amministrativo non è un incidente: è una leva. Dal 1976 a oggi, gli Stati Uniti hanno vissuto 22 shutdown federali, ciascuno formalmente dovuto al mancato accordo tra Congresso e Casa Bianca sul bilancio. Ma questa è solo la superficie. La realtà è che lo shutdown è diventato un’arma sistemica, parte integrante del processo decisionale americano. Non c’è nulla di caotico: tutto è scritto, calcolato, previsto nei piani dell’Office of Management and Budget (OMB), che da settimane lavora con ogni agenzia per decidere cosa si ferma e cosa no. Chi si ostina a vedere in questa situazione “l’instabilità della prima economia mondiale” sbaglia bersaglio. Gli Stati Uniti non si stanno disgregando: si stanno riordinando secondo priorità nuove, e lo fanno proprio rallentando l’apparato federale.
Il cuore dello shutdown non è il bilancio: è il conflitto tra visioni opposte dello Stato. I conservatori – in particolare l’ala trumpiana del GOP – non chiedono semplicemente “meno spesa”. Chiedono uno Stato meno presente, meno burocratico, meno invadente. Il shutdown serve a questo: a stressare il sistema per capire dove si rompe, dove resiste, dove può essere smantellato.
Ogni giorno di chiusura diventa un esperimento sul campo. Quali agenzie si fermano senza conseguenze immediate? Quali servizi, una volta tagliati, non generano proteste pubbliche? Quali funzioni amministrative possono essere digitalizzate, esternalizzate, accorpate?
La sinistra democratica, invece, resta ancorata a una visione novecentesca dello Stato amministratore e garante. Ma più lo shutdown si prolunga, più emerge un dato sociologico: non tutta l’America ha bisogno del governo federale allo stesso modo. Nelle zone industriali ad alta regolamentazione, ogni ispezione sospesa o dato macroeconomico ritardato genera attriti. Nei distretti rurali conservatori, invece, lo shutdown è rumore di fondo. Questo asimmetrico impatto territoriale rafforza il messaggio repubblicano: possiamo fare a meno del Leviatano. Dal punto di vista finanziario, gli effetti di uno shutdown breve sono quasi nulli. Ma se il blocco si prolunga oltre le 3–4 settimane, i mercati cominciano a “vedere” l’instabilità. Il problema non è il debito – che continua a essere servito – ma l’assenza di dati macroeconomici ufficiali. Senza payrolls, CPI e altri report chiave, la Federal Reserve naviga alla cieca. Questa incertezza genera una rotazione “risk-off”: cresce l’oro, scendono gli indici azionari, si rafforzano euro e yen. Ma attenzione: chi sa gestire il caos, domina i mercati. Per le grandi case d’investimento e i gestori di fondi sovrani, il vuoto di dati è un’opportunità. Chi ha modelli alternativi, accesso a dati proprietari o relazioni dirette con il policymaking guadagna terreno. L’Europa osserva, e subisce. Lo shutdown americano agisce come shock esogeno: se la Fed rallenta il suo ciclo decisionale, la BCE entra in modalità reattiva. L’euro si apprezza, penalizzando l’export tedesco. Le borse continentali si muovono a rimorchio. In uno scenario di guerra valutaria silenziosa, lo shutdown è una mina sotto il tavolo europeo.
Chi ci perde, politicamente? La risposta è: dipende dalla narrazione. Storicamente, il partito percepito come “al governo” paga il conto. Ma l’America di Trump ha riscritto le regole. L’ex presidente (ora, di nuovo, al potere) ha costruito la sua forza proprio nella denuncia dell’inutilità dello Stato federale. Per la sua base, lo shutdown è la prova che il deep state può e deve essere disinnescato.
Nel breve termine, i disagi colpiscono anche il suo elettorato, ma vengono interpretati come sacrifici necessari. Il vero rischio politico è per i Democratici e i moderati: ogni giorno di caos amministrativo fa apparire la loro insistenza su compromessi e “funzionamento normale” come retorica debole. Trump gioca con il tempo. Non gli serve riaprire subito: gli serve mostrare che può resistere più a lungo degli altri. In un gioco a somma zero, vince chi resta in piedi mentre l’altro cede. E il Senato, con i suoi 60 voti necessari per ogni compromesso, è la prigione di chi vuole governare, ma non controlla tutto.
Siamo di fronte a una trasformazione strutturale del ruolo dello shutdown nella governance statunitense. Non è più un’anomalia: è diventato parte del toolkit politico. È il modo in cui si negozia, si comunica alla base, si ridefinisce la cornice della spesa pubblica. Ma soprattutto: è il modo in cui gli Stati Uniti esercitano il potere interno con la stessa logica con cui esercitano quello esterno. Conflitto controllato, escalation calibrata, narrazione dominante. In questa logica, il shutdown non è disfunzione, ma funzione. Serve a consolidare potere, disciplinare l’amministrazione, testare la resilienza del sistema. È un processo doloroso? Sì. Ma è anche il segno che l’America non è in declino: è in ridefinizione. Più competitiva, più selettiva, meno legata all’universalismo sociale degli anni ’60 e più attenta alla sua struttura di potere reale. Uno Stato più magro, più focalizzato, meno retorico.
In definitiva, lo shutdown è una tecnica di governo. Non “governare senza governo”, ma governare attraverso la pressione. Una forma sofisticata di gestione del potere in cui la lentezza diventa strumento, e la burocrazia è piegata al messaggio politico. Gli analisti europei e liberal che gridano allo scandalo non hanno capito la lezione: non è in discussione la stabilità degli Stati Uniti, ma il loro modello di statualità. L’America di oggi è ancora il cuore pulsante del capitalismo globale, ma è anche un Paese che ha deciso di tagliare il superfluo – e nel dubbio, considera “superfluo” tutto ciò che non serve alla sua missione primaria: potenza, resilienza, dominio. E in questo senso, lo shutdown non è una malattia. È la cura.