OGGETTO: Il canto del solitario
DATA: 29 Luglio 2025
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
AREA: Italia
Nell’autobiografia di Franco Marcoaldi, poeta e giornalista culturale di lungo corso, si percorre la via della diserzione dai fatti del mondo, dall’appartenenza a questo o quello schieramento. Ma non la via della fuga. Anzi, scegliere di stare da soli e abbracciare il credo solitario, rimanendo comunque in compagnia di scrittori e filosofi, poeti e musicisti, è il solo modo per riappropriarsi, dice Marcoaldi, della nostra vita interiore, mai come oggi messa sotto attacco dalle pressioni della società.
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Franco Marcoaldi, poeta e ultimo grande esponente di un certo giornalismo culturale, in Cani sciolti (Einaudi, 2024) ha deciso di partire da sé stesso. E non poteva essere altrimenti, trattandosi di un’autobiografia (sui generis, come vedremo). Lo ha fatto in compagnia e con il supporto di quella “comunità di solitari” cui si riferisce il sottotitolo, che “Non sta al gioco. Abbandona. Cambia scena. Prende un’altra strada. Si ritira nel bosco. Se ne va. In cerca di altri tragitti – più segreti, autentici, personali – vòlti a celebrare l’esistenza e a lodare il mondo”. Dopo anni di appartenenza alla parrocchia progressista – di cui la collaborazione a Repubblica, iniziata nel lontano 1989 e conclusasi di recente, rappresentava la certificazione più autentica -, a prevalere adesso, dice l’autore, è la voglia di ritirarsi. Perché il mondo non lo riconosce più e perché le cose della vita, simbolicamente e concretamente, rotolano ormai su un piano inclinato di follia, violenza e drammatico cupio dissolvi. Uno degli outsider del pensiero che più lo hanno ispirato in questa diserzione è certamente Henry David Thoreau. Filosofo e disobbediente civile del diciannovesimo secolo, autore del celebre Walden ovvero vita nei boschi, il quale insieme al maestro Ralph Waldo Emerson costituirà la punta di diamante del movimento trascendentalista americano, facendosi campione dell’individualismo contro ogni pressione sociale e obbligo imposto dallo Stato.

Un anarchico che sulla sua pelle, essendosi davvero rifugiato nei boschi a sperimentare la vita fuori dalla civiltà, conoscerà “gli aspetti positivi e creativi della solitude senza patire la loneliness, l’amarezza plumbea di chi è stato messo in un angolo”. La stessa solitudine del resto che prova Marcoaldi, figlia di una determinazione sincera e coraggiosa, ancorché giunta tardivamente. Sottoposta a costanti indagini e verifiche, derivanti dal fatto che ciascuno di noi, piaccia o meno, è parte di una comunità e da essa dipende. Infatti, la domanda radicale e bellissima da cui muove questo libro riguarda proprio come conciliare “l’irresistibile spinta a preservare l’integrità della propria vita interiore, che corre il rischio di smarrirsi nell’ininterrotto rotolare senza direzione e senso dell’attuale società, con la consapevolezza che l’uomo resta comunque un animale sociale”. Ebbene, all’interno del racconto – sempre personale, punteggiato da incontri, aneddoti e momenti decisivi della vita dell’autore – si azzardano alcune risposte per mezzo di grandi romanzi come Addio alle armi di Ernest Hemingway, dov’è la diserzione l’arma ribelle che impugna il giovane americano Frederic Henry, volontario nella Prima guerra mondiale e successivamente in fuga da quell’orrore verso la Svizzera, Milano, il Lago Maggiore a fare la sua “pace separata”; oppure attraverso le riflessioni di due grandi donne, la “santa” Simone Weil e la “fortunata” Hannah Arendt, tanto diverse per esperienze e destino, eppure accomunate dal fatto che “la loro vita mentale, per usare le parole di Arendt, non conosce “balaustre” di sorta a cui appoggiarsi”, specie se si parla di potere, violenza e guerra.

Proprio al tema bellico la Weil dedica Non ricominciamo la guerra di Troia e il saggio sull’Iliade, due scritti contro la riduzione dell’uomo a cosa, a carne da macello di ogni conflitto, alla perdita delle “nozioni di limite, misura, proporzione”, ma anche all’importanza di spezzare “il connubio tra prestigio e potere”, causa e conseguenza di una catena infinita di orrori cui solo un “miracolo” può porre fine. Se è così, la politica ha ancora un senso? Sarebbe possibile farne a meno? Domande da cui prende le mosse la “sorella” ebreo-tedesca Arendt, più interessata ai risvolti che ogni sistema di potere porta con sé, da una parte la “vuota propaganda” e dall’altra la “nuda violenza”, consapevole altresì della diabolica necessità della politica e della sua natura votata all’autodistruzione. Dunque, che fare? Per non disperarsi ulteriormente né sperare che “il diavolo non sia poi così brutto come lo si dipinge”, anche qui è il miracolo a fare capolino. Inteso non quale strumento di pace, così come diceva Weil, ma ghiotta occasione per fare libero l’uomo: “Se il senso della politica è la libertà, ciò significa che in quello spazio, e in nessun altro, abbiamo il diritto di aspettarci dei miracoli. Non perché crediamo ai miracoli, ma perché gli uomini, finché possono agire, sono in grado di compiere l’improbabile e incalcolabile e lo compiono di continuo, che lo sappiano o no”. Libertà che, nel caso del solitario Marcoaldi, vuol dire soprattutto abbandonare il campo di battaglia, scegliere di non schierarsi a tutti i costi, come gli ha insegnato il socialista Aleksandr Herzen, tra i più grandi intellettuali russi dell’Ottocento, capace di dare alla parola “fuga” (dal mondo, dalla società, etc..) una valenza più alta e nobile del gesto egoistico del singolo: “a un uomo libero – sostiene Herzen – fuggire è impossibile, perché egli dipende solo dalle proprie convinzioni, da null’altro, e ha il diritto di fermarsi o di andarsene. Non si tratta di fuga ma di vedere se un uomo sia veramente libero”.

In questo senso, le arroventate pagine che Marcoaldi dedica al conflitto israelo-palestinese costituiscono una sintesi magistrale di tale approccio. Difatti se “dell’orrore provocato da Hamas con la sua azione mostruosa del 7 ottobre 2023 […] è opportuno trattenere in silenzio, nel nostro cuore, precisa memoria”, non si può dire che il governo israeliano guidato da Netanyahu sia “indenne da colpe”, per “i decenni di occupazione dei territori palestinesi, […] nell’assedio totale di Gaza e nell’indicibile mattanza dei suoi cittadini, adulti e bambini”. Ecco perché, dice l’autore trattenendo a fatica l’indignazione, “non mi sono schierato né con Hamas né con il governo israeliano di Netanyahu. Perché sono peggio tutti e due”. In una fase storica di forti tensioni, dove ciascuno sente la necessità volontaria o indotta di indossare l’elmetto, Marcoaldi fa sua la lezione del grande direttore d’orchestra ebreo Daniel Barenboim, che da anni presiede alla West-Eastern Divan Orchestra, dove suonano fianco a fianco musicisti arabi e israeliani. E la musica pone le basi per una nuova umanità in cui ognuno riconosce l’altro. Con questi chiari di luna, un tentativo fin troppo illusorio di cambiare le cose. Ma per un “cane sciolto”, il pane quotidiano di ieri oggi e domani. 

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