Il Dioniso sdraiato sul frontone orientale del Partenone, disinteressandosi alla scena della nascita di Atena, anticamente posta al centro, osserva simbolicamente verso l’area dell’Acropoli su cui sorgeva il teatro a lui dedicato. In un capitolo del Nome della rosa il novizio Adso si spaventa di fronte alle figure scolpite sul portale dell’Abbazia benedettina insanguinata da misteriosi omicidi. L’affresco del Baciccio sul soffitto della Chiesa del Gesù, nel cuore di Roma, fu il modello di narrazione cattolica del Paradiso che il papato decise di esportare all’estero per far fronte all’irruenza della nuova chiesa luterana: con esso nacque il Barocco.
Questi sono esempi, reali e immaginari, di come il narrare possa assumere forme potenti, di come nel passato, icone, bassorilievi o immagini, potessero spiegare una storia e trasmettere un significato anche all’ultimo degli analfabeti. Il pastore bavarese che nel XVII secolo fosse restato affascinato da un sermone luterano, difficilmente avrebbe fatto a meno di inchinarsi di fronte alla magnificenza della Chiesa di San Michele a Monaco, accettando la supremazia del cattolicesimo. L’allegoria parla.
Le forme della narrazione sono molteplici. Nel corso del tempo esse si sono avvicendate o compenetrate per rispondere al livello culturale delle epoche. Questo avviene perché la parola e la scrittura si muovono di pari passo con il pensiero ed il sapere.
Oggi con un tasso di analfabetismo di ritorno, in Italia, superiore al 30% viene da domandarsi – in un esercizio tutto storico – quali siano state le fonti della scrittura, le esigenze e i fenomeni che l’hanno fatta nascere, che hanno condotto al bisogno di scrivere, e se, il passaggio dall’oralità all’alfabeto, non sia stato la fase speculare ma positiva del nostro presente, abituato a “scrollare” narrazioni e a scrivere con il correttore automatico.
L’indagine sulla nascita della scrittura si lega strettamente alle cause sull’origine del pensiero filosofico, quello presocratico in particolare. Una serie di fattori costitutivi le associano, come mostrato in un brillante saggio di Maria Michela Sassi sugli «inizi» della filosofia in Grecia.
In primo luogo c’è la religione. Le forme cultuali della Grecia arcaica non prevedevano l’adesione ad un corpus di dogmi, come saranno l’infallibilità del Papa o la Trinità nella Chiesa cattolica. Pertanto, l’inesistenza di forme di ortodossia così come di comportamenti bollati come eretici non creava tabù o concetti che non potessero essere oggetto di discussione e di opinione. L’assenza di rischio nell’entrare in contrasto con la classe sacerdotale favoriva nei primi filosofi la libertà di pensiero. Un secondo fattore che alimentò l’esercizio della ragione si ritrovava da un lato nella vitalità economica e nella dedizione alla fondazione di colonie che contraddistingueva le polis greche; dall’altro nell’atomizzazione politica della Grecia stessa, vero e proprio mosaico di situazioni locali. In questo senso il viaggio, lo scambio commerciale, o i contatti con le città vicine rendeva i confini delle polis permeabili allo scambio di idee e al confronto con la diversità di opinioni. Un terzo punto – più facilmente collegabile alla scrittura – è la tendenza sempre più diffusa da parte dei dotti greci a firmare o a citarsi nelle proprie opere – assumendosi di fatto la paternità di quanto avevano scritto – secondo quella forma di culto del sé che prese il nome di egotismo. Un quarto punto è reso manifesto nell’alta produzione – in senso quantitativo – di teorie (cosmologiche, mediche, storiche etc.) che i primi sapienti greci – indocili verso qualsiasi tradizione – diffusero: queste azioni andarono a sviluppare un esercizio intellettuale ad alto magnitudo poiché colui che proponeva una nuova teoria doveva darne un ancoraggio intellettuale tanto solido da convincere i lettori che la sua soluzione fosse superiore a quelle precedenti. Questi fattori facevano della Grecia arcaica un ambiente intellettuale fortemente competitivo.
La tesi – elaborata da Jack Goody e Ian Watt – secondo cui l’adozione della scrittura sia stata un fattore determinante per lo sviluppo del pensiero critico in Grecia si associa con la celebre teoria con cui le società si rapportano al tempo, alla storia e al cambiamento elaborata da Claude Lévi-Strauss (1908-2009), riassumibile nella dicotomia società “fredde”/società “calde”. Una società “fredda” come poteva essere quella babilonese o quella egiziana nonostante l’uso della scrittura tendeva da un lato ad utilizzarla come strumento per “cristallizzare” un sapere in una tradizione; è il caso dei testi religiosi che, resi fissi, nei secoli, alla stregua di un rito, potevano essere solo ripetuti e mai posti in discussione. Dall’altro la raffinatezza e la complessità della loro scrittura la rendeva uno strumento utilizzabile solo da élite ristrette, impedendo così una fruizione diffusa dei testi.
Diversamente la società greca degli inizi aveva abbandonato una scrittura complessa come la lineare B per adottare un sistema sillabico molto più semplice che faceva uso di vocali: l’alfabeto. Questa novità scatenava tutto il potenziale della scrittura permettendo ad una fascia più ampia della popolazione di utilizzarla. Allo stesso tempo il mezzo scritto – soprattutto se in prosa – permetteva, diversamente dalla tradizione orale, di elaborare pensieri più complessi in quanto questi, fissati una volta per tutte sul supporto, potevano essere meditati con calma; potevano quindi, anziché essere introiettati passivamente come accadeva per la poesia, venire sottoposti a giudizio. Inoltre, diversamente da una società “fredda”, quella greca, in linea con la sua natura competitiva, usava la scrittura non per rendere impermeabile e indiscutibile un sapere ma per criticarlo, per renderlo continuamente suscettibile alla variazione.
A questo proposito – è stato sostenuto con buone ragioni – che la scrittura, utilizzata in prosa, sia stata elemento inaggirabile allo sviluppo della filosofia. Per la sua trasparenza ed oggettività la prosa ha permesso un distacco, anche contenutistico, dal racconto mitico, più volatile in termini di coerenza e univocità di senso, edificato sulla poesia. Ovviamente, il passaggio dall’oralità alla scrittura non è stato repentino. Si indica con la parola «auralità» quella fase caratterizzata dalla convivenza delle due forme espressive: gli autori producevano un testo scritto ma per tradizione, legata al simposio, questo non era destinato alla lettura ma alla declamazione orale.
Fra i diversi usi della scrittura quella che in età arcaica fu ritenuta più funzionale al discorso che i sapienti intendevano fare fu la prosa filosofica. La posta in gioco era lo sganciamento da una tradizione che spiegava i fatti della natura a partire dall’esclusivo intervento divino con il tentativo di chiarire i medesimi attraverso una spiegazione razionale e scientifica, definibile a partire dalle sole possibilità umane.
A sottolineare lo sviluppo, coi presocratici, di un pensiero razionale all’approccio dei fatti della natura contrapposta ad una visione esclusivamente teologica è stato anche il filosofo della scienza Karl Popper (1902-1994). Secondo lui lo sforzo dei presocratici a ricercare diverse soluzioni al problema del divenire del cosmo li poneva in connessione intrinseca con un primo abbozzo di teoria della conoscenza. Corroborano questa intuizione autori come Senofane ed Eraclito, consapevoli di legare al nuovo discorso su un cosmo non mosso da forze superiori e trascendenti, affermazioni sulle possibilità della ragione umana di essere in grado, in piena autonomia, di valutare la realtà ed acquisirne conoscenza.
Aristotele nella rassegna sui primi filosofi operata nel libro alpha della Metafisica aveva infatti dato conto del loro prodotto intellettuale più evidente: i modelli cosmologici. D’altra parte, nel suo trattato Sull’anima, non dimentica di dare conto degli endoxa – opinioni autorevoli – dei presocratici su quella disciplina che sarà chiamata psicologia, ma che al tempo era lo studio dell’anima (psyché).
Una triangolazione. Cosmologia, teoria della conoscenza, anima. Se l’idea di un cosmo mosso da leggi naturali e non dall’intervento divino è legato a uno sforzo tutto umano sulle proprie possibilità di conoscere e spiegare tali leggi allora, per far questo salto, è necessario anche approfondire la conoscenza del sé, di ciò che sta all’interno e muove il soggetto. Eraclito (ca. 535-475 a.C.), incarna questa triplice riflessione. Egli è il primo autore in cui ricorre il termine psyché con un significato che rimarrà vivo fino ai tempi moderni: ossia un principio unificatore di processi sia vitali che cognitivi. Non solo. L’anima, e non i sensi, agisce per sviluppare la conoscenza. Semanticamente ciò segna un salto dalla tradizione omerica che definiva la psyché «soffio vitale», principio della vita. La ragionevolezza del nesso cosmo/anima è approfondita da Eraclito nel frammento 101 – ho ricercato me stesso – che rinvia all’esercizio dell’autoanalisi, indispensabile per scoprire come l’anima sia insondabile nelle sue profondità poiché priva di confini come dichiarato nel frammento 45: Per quanto tu vada non riuscirai a trovare i confini dell’anima, percorrendo ogni strada: tanto profondo è il logós – ragione – che essa possiede.
La tensione tra la fedeltà alla tradizione mitico-religiosa e la spinta progressista verso l’organizzazione razionale del discorso come della speculazione intellettuale – palese nei filosofi presocratici – ha fatto sottolineare a Jean-Pierre Vernant (1914-2007) come il pensiero greco antico non sia attraversato da una netta opposizione fra riflessione teologica e intelligenza razionale. Esso andrebbe visto come un «campo di razionalità multiple», con una geometria variabile a seconda dell’autore, del contesto spazio-temporale e del tipo indagine portata avanti.
In sostanza, il metro del V secolo a.C. sembra essere segnato dall’incapacità di ridurre autori ed opere ad etichette certe. Il contesto sociale, gli scambi commerciali fra colonie e madrepatria, i contatti fra singole polis – ognuna microcosmo a sé -, le influenze dei miti antichi dell’Oriente e il rapporto con il patrimonio di conoscenze tradizionali, facevano del presocratico un soggetto abituato a continue negoziazioni sul proprio sapere, aperto a mettere in discussione il suo patrimonio di conoscenze, proprio perché infuse all’interno di un ambiente estremamente competitivo e non formalizzato entro schemi di pensiero “freddi”.
Tuttavia la novità principale apportata dai presocratici è stato l’uso del pensiero critico diffuso attraverso la scrittura. Se con gli occhi della scienza moderna osserviamo – facendo un esempio che possa valere per tutti – il modello cosmologico di Anassimandro (ca. 610-546 a.C.) – il quale immaginava la terra come un tronco cilindrico – lo giudicheremmo senza remore ridicolo e falso. Ma il riconoscere la sua scarsa solidità empirica ha poca importanza. Ha importanza invece che Anassimandro abbia messo in discussione un sistema di credenze che spiegava la natura solo a partire dagli influssi di forze trascendenti, facendo scoprire all’uomo che poteva addomesticare l’inspiegabile con la sola forza della propria ragione, smarcandolo dal mutismo cui la tradizione mitica lo relegava.
In senso opposto all’antica società greca l’odierna realtà dell’analfabetismo funzionale si crea in un ambiente disabituato al confronto con controparti avverse, inibito delle sue capacità critiche poiché fuga la lettura, cognitivamente attiva, di romanzi, quotidiani e riviste. L’ipersemplificazione con cui ci supporta la tecnologia non viene controbilanciata, affossa la curiosità verso ciò che non si conosce proprio in quanto tutto può essere passivamente conosciuto. Il maggiore tempo libero diventa maggiore tempo di svago, con conseguenze concrete sull’esercizio della democrazia e sull’incremento dell’esclusione sociale.