Il mercato globale della droga rappresenta uno dei settori illegali più redditizi per le organizzazioni criminali. Nell’Unione Europea, si stima che il consumo di sostanze stupefacenti illegali generi un fatturato tra i 21 e i 31 miliardi di euro all’anno. La cocaina, seconda solo alla cannabis per diffusione e consumo, occupa un posto centrale in questo scenario, con un valore stimato tra i 4,5 e i 7 miliardi di euro annui. Tuttavia, queste stime ufficiali rappresentano solo la punta dell’iceberg: il mercato reale è, per sua natura, sommerso, volatile e difficilmente misurabile con precisione.
Negli ultimi anni, un nuovo e sofisticato modello di narcotraffico si è affermato sulla scena internazionale. Non più dominato dai narcos armati fino ai denti nei campi della Colombia, ma orchestrato da manager aziendali, intermediari finanziari e funzionari corrotti. Il cuore di questo nuovo sistema pulsante batte in Venezuela, si ramifica attraverso l’Africa Occidentale e trova in Turchia un crocevia strategico per l’ingresso in Europa.
Il Venezuela, un tempo tra le economie più promettenti dell’America Latina, è oggi uno stato in profondo collasso politico e istituzionale. Le sue infrastrutture portuali, i suoi aeroporti secondari e le numerose piste clandestine sono stati progressivamente convertiti in piattaforme logistiche al servizio del narcotraffico. Secondo i dati forniti da Transparencia Venezuela, oltre il 70% della cocaina che lascia il paese è instradata tramite strutture direttamente o indirettamente controllate da settori delle forze armate. In alcune zone come La Guajira e Delta Amacuro, la sovranità statale è di fatto condivisa con gruppi paramilitari, guerriglieri dismessi e reti criminali transnazionali.
Le spedizioni lasciano il paese occultate sotto voci doganali fittizie: rifiuti industriali, fertilizzanti, farina di pesce, plastica. Nessun controllo effettivo, nessun audit trasparente. Gli imbarchi principali avvengono nei porti di Puerto Cabello e La Guaira, da dove le navi salpano verso l’Africa Occidentale.
Guinea, Gambia, Costa d’Avorio: in queste regioni a bassa sorveglianza marittima e ad alta permeabilità politica, il traffico trova terreno fertile. I porti africani, alcuni modernizzati con capitali esteri, sono oggi luoghi chiave per la ripulitura e il rilancio della cocaina verso l’Europa. Le spedizioni si mescolano con merci legittime: frutta tropicale, legname pregiato, pesce congelato. Il principio è semplice: mascherare il carico illecito in un flusso regolare e in apparenza innocuo. Le isole Canarie, Tangeri e Algeri fungono da ulteriori snodi secondari, avvicinando il carico all’Europa meridionale.
Il porto di Mersin, affacciato sul Mediterraneo orientale, è diventato il volto emergente del narcotraffico in Turchia. Nel 2024, le autorità turche hanno sequestrato una spedizione di oltre 2,3 tonnellate di cocaina pura, nascosta tra presunti “rifiuti tessili”. L’indagine ha svelato l’esistenza di una rotta consolidata: Venezuela, Africa Occidentale, Turchia, Europa. Non è stato un caso isolato. Dal 2021 al 2024, i sequestri nei porti turchi sono cresciuti del 600%. Tuttavia, secondo Europol, la quantità reale di droga transitata è almeno venti volte superiore a quella ufficialmente sequestrata. Porti come Izmir e Istanbul sono ormai indicati come snodi stabili nei traffici transnazionali.
La crescita della Turchia in questo ruolo non è casuale. La sua posizione geografica — ponte tra Asia, Europa e Medio Oriente — la rende un punto di passaggio ideale. Ma è soprattutto l’opacità politico-economica ad aver favorito la trasformazione del paese in un hub strategico: numerose aziende logistiche sospettate di connivenza hanno legami diretti con uomini d’affari vicini al potere politico, garantendo protezione e silenzio.
Una volta giunta nei porti europei, la cocaina viene rapidamente distribuita ai grandi mercati di consumo: Italia, Germania, Francia, Spagna. Porti come Rotterdam, Anversa, Marsiglia e Genova diventano il punto d’ingresso finale. Milano, Barcellona e Monaco le città in cui si concentra la vendita, la distribuzione e soprattutto il riciclaggio dei proventi. In particolare, Milano è diventata una delle capitali del riciclaggio. I metodi preferiti includono: commerci fittizi di oro e metalli preziosi; acquisti immobiliari nell’area balcanica, in Albania e Montenegro; wallet di criptovalute attivi su exchange nascosti o del dark web.
La cocaina non entra più nel continente con piccoli carichi o operazioni clandestine. Entra in container sigillati, registrati, assicurati. E passa, spesso, inosservata. In questo sistema ne escono vincitori i nuovi narcos vestiti da imprenditori: gestori di logistica, broker internazionali, manager di shipping. Ma anche gli stati corrotti, dove la droga è una parte del PIL sommerso, e le reti paramilitari e i gruppi criminali globali. Fra i perdenti, naturalmente, la società civile, le istituzioni democratiche e i sistemi giudiziari. Così come le nazioni africane usate come corridoi di passaggio e tutti coloro che finiscono esposti a un mercato sempre più ricco e accessibile.
Nessuna inchiesta internazionale significativa è stata lanciata sulla rotta Venezuela-Turchia-Europa. Nessuna azienda logistica coinvolta è stata colpita da sanzioni. Nessuna conferenza multilaterale ha ancora affrontato la questione in modo sistemico. Nel frattempo, l’industria della cocaina si professionalizza. Sfrutta le dinamiche del commercio globale, le debolezze delle frontiere africane, l’ambiguità politica turca e la sete di consumo europea. È un impero che non combatte a colpi di machete o AK-47, ma con fatture false, incoterms e dogane compiacenti. Il traffico di cocaina oggi non ha più il volto del bandito colombiano nei panni mimetici, ma quello del broker in giacca e cravatta che parla tre lingue e tratta spedizioni globali. Finché la comunità internazionale continuerà a ignorare questa nuova realtà del narcotraffico, le navi continueranno a scaricare cocaina nei porti del Mediterraneo, camuffata da frutta, metalli o plastica. E l’Europa, culla della legalità, continuerà ad essere il mercato finale di un sistema che cresce nell’ombra, arricchisce pochi e corrompe molti. Questa non è più la guerra della droga. È la guerra delle filiere logistiche. E l’Europa la sta perdendo.