Nel suo recentissimo “Il grande ritorno – La nuova era di Trump” (Guerini e Associati, 2025), Giulio Sapelli, economista, saggista, docente, ha raccontato la fine degli ordini borghesi e l’ascesa del trumpismo tramite un saggio coltissimo e brillante che con sapienza affronta i nodi di una situazione internazionale intricata e caotica come non mai. Un testo che prosegue e riannoda gli studi, gli spunti e le valutazioni che hanno segnato le sue riflessioni negli ultimi anni regalando al lettore un affresco mirabile dell’attuale disordine mondiale di cui il trumpismo è l’ultimo sintomo.
-Professore, qual è secondo lei il significato storico di questo “grande ritorno”?
La vittoria di Trump rappresenta molto più di una semplice alternanza di potere. È il sintomo di una lunga crisi della modernità occidentale, che ha portato alla fine delle vecchie borghesie nazionali come attori politici. Quelle classi dirigenti borghesi ben descritte da Alfred Hirschman che sapevano rappresentare l’interesse nazionale nel lungo periodo subordinando ad esso anche le politiche commerciali, e che oggi si sono politicamente dissolte. Il ritorno di Trump è, all’opposto, la vittoria del “popolo degli abissi” e di nuovi gruppi economici che hanno rigettato le classi dirigenti borghesi e le narrazioni woke e globaliste.
Oggi le politiche internazionali delle grandi potenze sono, infatti, condizionate dalle richieste di immediatezza delle opinioni pubbliche e dagli appetiti di gruppi che perseguono principalmente il loro interesse particolare nel breve periodo. Ha vinto quindi il bisogno di rappresentanza, di identità, di appartenenza di una parte della popolazione contro il woke, il globalismo e la cancel culture.
-E che cos’è questo “popolo degli abissi”?
È un insieme composito che va dai rappresentanti dell’economia fluttuante alla classe media sconfitta dalla globalizzazione, dal sottoproletariato alle realtà delle piccole imprese rurali e non. Un mondo che rigetta la versione woke del sogno americano e che cerca una nuova rappresentanza. Lo stesso sindaco di New York Zohran Mamdani, salutato come idolo di una certa sinistra politically correct, in realtà è il rappresentante di un’altra anima di questo popolo degli abissi che nasce dalla rabbia sociale, dalle richieste di edilizia abitativa e dalle nuove generazioni non dal marxismo degli atenei statunitensi o dalla borghesia liberal newyorkese.
-In molti hanno descritto il trionfo del Potus come il fallimento del progressismo americano. Lei parla invece di un esaurimento delle borghesie nazionali. Che cosa intende?
La borghesia moderna è stata la spina dorsale dell’Occidente: una classe produttiva, nazionale, portatrice di valori di responsabilità, risparmio, competenza. Quando la finanza e la digitalizzazione hanno dissolto i legami territoriali e professionali, la borghesia si è liquefatta. È rimasta solo una élite sradicata. Trump, paradossalmente, si presenta come un imprenditore arcaico, legato all’idea di nazione e di lavoro concreto, contro il capitalismo impersonale dei fondi e delle piattaforme. Un leader istintivo capace di conciliare popolo degli abissi e nuove elites economiche. . Purtroppo però la sua visione, al contrario del pensiero borghese, non riesce a puntare sui servizi, sugli investimenti, o sulle terre rare.
-Perché?
Non ne è capace. Per questo obiettivo serve un capitalismo politico lungimirante, strategico, capace di lavorare nel lungo periodo come era quello delle vecchie borghesie, mentre il trumpismo ragiona troppo nell’immediatezza. Può, invece, affrontare la sfida delle terre rare, ahimè, un capitalismo di impostazione terroristico-burocratica come quello cinese. Con una élite partitica si spietata, ma certamente paziente.
-Quindi la sua ascesa non è un’anomalia americana ma un segno del tempo?
Esattamente. L’era Trump è quella della dissoluzione del dominio borghese sul mondo e della stagione della grande diplomazia.
-Si tratta di un movimento reazionario di massa o di qualcosa di profondamente inedito?
A mio avviso il trumpismo è un fenomeno nuovo. Più che un rigurgito reazionario mi sembra una versione americana di quella che fu la grande rivoluzione di Mao a suo tempo. È quindi sul piano valoriale una rivoluzione culturale americana con meno violenza (per fortuna), più attenzione al mondo rurale e una opposta idea di rapporto col mercato, soprattutto a sostegno del capitalismo proprietario (specie nell’ambito digitale).
-Una svolta “maoista” quindi?
Si. Lo è soprattutto sotto il profilo del ruolo della leadership carismatica e della funzione di quest’ultima di cambiare il volto del proprio Paese. La vittoria di Trump punta ad una riscrittura delle categorie valoriali e degli equilibri politici degli USA, archiviando così i canoni borghesi e woke. L’ultimo Mao è, quindi, Donald Trump.
-E come vede le politiche strategiche, economiche e commerciali di Washington?
È il ritorno alla dottrina Monroe, una sorta di neo-jingoismo che vede nel controllo territoriale e nell’arroccamento continentale gli strumenti per difendere gli interessi economici statunitensi. Il presidente statunitense vuole la Groenlandia, infatti, perché sa che la nuova partita globale sarà quella per il dominio dell’Artico e crede che per ottenere il primato economico su questo scenario sarà necessario il controllo territoriale della regione. Assistiamo, quindi, al ritorno di una visione ottocentesca delle relazioni internazionali. Quella dei miti della frontiera, delle politiche espansioniste rooseveltiane, delle guerre col Messico e col Canada. Per dirla con una battuta nel nuovo MAGA c’è quindi oltre ad un po’ di Monroe e di Mao anche molto John Wayne…
-La politica estera di Washington rompe con l’universalismo americano. È l’inizio di un nuovo ordine mondiale?
È la prosecuzione della grande trasformazione iniziata dopo la caduta del muro di Berlino. L’unipolarismo americano ha mostrato i suoi limiti. Oggi il mondo è multipolare e conflittuale. Trump, a modo suo, ne prende atto: non vuole esportare la democrazia, vuole difendere gli interessi statunitensi. È una visione che segna la fine del sogno globalista e un ritorno alla realtà, ma anche al rischio del conflitto permanente. Finita l’era della diplomazia borghese con le sue eleganti complessità assistiamo ad una logica istintiva di scontro tra potenze sempre in escandescenti ed instabili.
-Nel rapporto con gli Stati Uniti, come si ridefinisce oggi la percezione dell’Europa? In che modo Washington guarda al Vecchio Continente e come questo sguardo si sta trasformando?
Bisogna distinguere. Nell’immaginario americano essa è anzitutto Parigi, l’Europa delle vacanze in Italia e della cultura museale, quella dei film di Woody Allen. La maggioranza degli americani, che non ha neppure il passaporto, non mostra reale interesse per ciò che accade nel mondo. Per quella minoranza dirigente che il passaporto lo possiede, invece, l’Europa è soprattutto nel presente un immaginario estetico non politico: Parigi come capitale culturale, l’Italia come luogo di villeggiatura colta, la Germania come realtà inquietante e indecifrabile.
L’Unione Europea, d’altra parte, è vista come un apparato burocratico che produce regole e ostacoli. Gli Stati Uniti si considerano i soli legittimati a scrivere le norme del capitalismo globale, ma con l’obiettivo di favorirne lo sviluppo. L’Europa, invece, spesso ne frena il dinamismo: basti guardare alla transizione energetica, dove la regolamentazione comunitaria ha finito per bloccare la crescita più che accompagnarla. Oppure pensiamo alla questione del motore termico che ha smantellato l’industria dell’automotive in Europa. Anche l’antitrust europeo si muove in un orizzonte diverso da quello americano: Oltreoceano la concorrenza è tutelata ma mai in modo tale da distruggere la grande dimensione produttiva, considerata necessaria; in Europa, al contrario, le regole finiscono per impedire la nascita di grandi gruppi capaci di competere con Stati Uniti o Cina.
A ciò si aggiunge poi un elemento di incomprensione politica.

-Quale?
Gli americani non comprendono come funzioni la governance europea, né come si scelgano i suoi vertici. Il fatto che personalità di scarsa statura o con percorsi eterodossi – se non controversi – possano diventare presidenti della Commissione li lascia interdetti. L’Europa appare loro come un’aggregazione di mandarini tecnocratici, una autoreferenziale burocrazia celeste, per dirla con Balasz, senza una vera classe dirigente e politica. Per il Maga, quindi, l’UE è solo un ostacolo, da qui il ritorno prepotente alla preferenza per il bilateralismo e ad un atteggiamento di scontro con le barriere legislative comunitarie.
-In questo scenario, si può parlare di una metamorfosi del capitalismo accompagnata alla distruzione delle borghesie nazionali?
Certamente. Siamo di fronte alla fine del capitalismo manageriale e alla nascita del capitalismo proprietario. Il manager, un tempo figura autonoma, è oggi anche azionista: riceve stock option, condivide gli stessi interessi dello shareholder. È scomparsa la distinzione tra chi gestisce e chi possiede. Di conseguenza si dissolve l’idea stessa di borghesia come ceto radicato, legato al lungo periodo e alla responsabilità verso l’impresa. Restano le piccole borghesie produttive, sane ma incapaci di avere peso politico vero, e una classe alta globalizzata, mobile e deterritorializzata, che non riconosce più confini nazionali.
-Ma nel mondo anglosassone, dopo la Brexit e con il nuovo protagonismo di paesi come l’Australia, sta emergendo un diverso sistema di equilibri? L’anglosfera si sta ristrutturando?
Sì, l’anglosfera vive un processo di ridefinizione. L’Australia ne è un laboratorio interessante. La loro politica estera oscilla costantemente tra il contenimento e la cooperazione con la Cina. Questo pendolo riflette quello statunitense, ma con una crescente autonomia di giudizio. Il concetto stesso di “Indo-Pacifico” è contestato da alcuni studiosi: non tutti accettano di descrivere quella regione come un’unità geopolitica. C’è un dibattito sofisticato, di cui in Italia non giunge quasi nulla. Il grande storico Paul Dibb – già a capo dell’intelligence australiana – aveva mostrato come l’Australia debba misurarsi con l’equilibrio tra potere e dipendenza, tra Occidente e Asia.
La crisi americana e quella russa, unite all’instabilità strutturale della Cina, stanno aprendo, pertanto, lo spazio per l’emergere di medie potenze. L’Australia ne è un esempio. Ma in questo quadro anche la Gran Bretagna sta recuperando un nuovo peso strategico inaugurando un nuovo protagonismo.
-Cosa intende quando parla di instabilità cinese?
La Cina, contrariamente a quanto si crede, non è un Leviatano stabile ma un Behemoth caotico: un potere che si regge sulla repressione ma privo di coesione interna che genera disordini e penetrazioni nella scacchiera internazionale. La recente purga delle élite militari e nucleari lo conferma. Tale dimensione caotica favorisce l’ascesa di medie potenze.
-E, a parte India, Australia e UK, chi sono gli altri beneficiari di questa crisi dell’unipolarismo americano?
Certamente, paesi come la Turchia o il Marocco che stanno conquistando un peso regionale inedito, proiettando la loro influenza su aree – dal Mediterraneo all’Africa – che erano un tempo dominio delle grandi potenze. Di fronte alla crisi degli ordini borghesi assistiamo allo sgretolamento delle diplomazie che favorisce nuove potenze più spregiudicate. Trump è l’effetto anche di questa disgregazione diplomatico-politica.
-In questa frammentazione globale, lei vede ancora un ruolo per l’Italia?
L’Italia, paradossalmente, conserva una tradizione diplomatica di livello, ereditata dagli antichi Stati italiani. Non essendo una grande potenza, ha mantenuto un approccio umanistico e flessibile alle relazioni internazionali. È un capitale che si sta erodendo ma che ancora resiste. Se pensiamo alla diplomazia del Regno delle Due Sicilie o del Piemonte, troviamo un patrimonio di intelligenza politica e senso dell’equilibrio che ha fatto scuola.
-E la politica estera italiana attuale?
Mi pare positiva. La linea atlantista è stata mantenuta con intelligenza sia con Biden che con Trump, e il governo Meloni ha mostrato consapevolezza nel resistere alle tentazioni filofrancesi che in passato avevano indebolito la nostra posizione. Pensiamo al cosiddetto Trattato del Quirinale voluto scelleratamente da certa sinistra. Allo stesso tempo Meloni ha saputo fermare il partito filocinese, contrastando la resa dei nostri porti a Pechino e avviando una bussola di contenimento cinese. Oggi, quindi, l’Italia sembra voler riaffermare una politica estera coerente con la sua tradizione diplomatica e con la propria proiezione anglosferica.
-In sintesi, quale destino attende l’ordine internazionale?
Viviamo l’età della convulsione globale. Sono crollate le strutture che sostenevano l’equilibrio tra le potenze, e soprattutto è scomparsa la diplomazia come arte del governo. Un tempo il mondo era retto da un reticolo sottile di relazioni tra élite colte e stabili: basti leggere le lettere degli ambasciatori veneziani del seicento per capire quanto raffinato fosse quel sistema. Oggi non esiste più nulla di simile. Manca una Vestfalia. Restano frammenti, attori isolati, stregoni che fanno bollire il pentolone del potere senza più un disegno. È il sintomo di una transizione epocale che non ha ancora trovato il suo nuovo centro di gravità permanente.
-Le visite di Re Carlo III e la nuova attenzione britannica sono un segno di questa ritrovata centralità?
Sì, ma attenzione: la tradizione anglosferica in Italia non è nuova. Pensiamo al peso del mondo anglofono nel Risorgimento, oppure al ruolo di Londra, affidatogli da Washington, nel rilancio dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Lo si capisce bene leggendo le memorie di Renato Mieli o certi documenti sulla Resistenza: l’Italia dopo la guerra è stata pensata come il perno mediterraneo del sistema britannico e soprattutto come un Paese chiave nel quadro dell’atlantismo.
-Parlando dell’Italia Lei sottolinea la necessità di una “rivoluzione gobettiana”. Cosa intende?
Intendo il ritorno alla normalità della politica. Gobetti rappresentava l’idea di una classe dirigente morale, capace di unire libertà e responsabilità. Oggi manca questa coscienza. Il neoliberismo ha dissolto l’autorità, sostituendola con un anarco-liberismo dei costumi e dei comportamenti. Siamo in una crisi etica profonda. E come avevano intuito Mosca, Pareto e anche Gramsci, senza spirito e cultura non c’è Stato, né politica. È lo Spirito, del resto, il vero motore della storia.
-Nel suo ultimo lavoro lei individua due nuovi centri dell’ordine mondiale: il grande Medio Oriente e l’Africa. Perché?
Perché lì si gioca la vera partita del XXI secolo. L’Africa è il continente delle risorse: acqua, energia, popolazione giovane. Ma manca lo state building, la costruzione degli Stati. A parte l’Egitto mancano stati saldi e forti. Servirebbe una sorta di Germania dell’ Africa ma non c’è. Speravo fossero la Nigeria e il Kenya ma entrambi si sono rivelati inadeguati. Ma la regione dei centroafricana sarà centrale. È ciò che spiegava Gérard Prunier studiando la guerra dei Grandi Laghi, prosecuzione in chiave africana della rivalità franco-britannica. Oggi il Congo resta il fulcro della contesa, ma in occidente manca la cognizione della centralità di questo ruolo.
-E il Medio Oriente?
È tornato il crocevia tra Mediterraneo e Indo-Pacifico. Erdogan tenta di fondere il neo-ottomanesimo con il panturanismo, mentre la Russia mantiene un ruolo decisivo, soprattutto in Siria, dove conserva basi e influenza. Mosca lotta per non essere declassata: dopo l’umiliazione dell’epoca Obama, Putin ha trasformato la resistenza geopolitica in una ragione di sopravvivenza imperiale. La partita tra Atlantico, Mediterraneo e Mar Rosso – da Suez a Djibouti – resta apertissima.
-In un mondo così instabile, servirebbe una nuova Vestfalia?
Servirebbe una diplomazia vera, non la governance dei tecnocrati. Gli imperi del passato avevano una costituzione implicita, un equilibrio aristocratico-dinastico. Oggi non esistono più regole del gioco. L’Europa ne è l’esempio: un’architettura priva di fondamento politico, senza sovranità né rappresentanza. Serve il ritorno della grande diplomazia.
-E sulla guerra in Ucraina?
L’unica via è un armistizio alla coreana: tirare una linea dove si sono fermate le armi. I russi non si arrenderanno mai, perché percepiscono il conflitto come difensivo. Certo, nel diritto internazionale sono aggressori, ma nella mentalità imperiale russa lottano per la loro storia. Per loro la Crimea è parte della Russia come lo era la Polonia nell’Ottocento. Ma un superamento del conflitto è necessario. Soprattutto per contenere le ambizioni di Pechino.