Che le convinzioni siano tanto nemiche della verità quanto più pericolose della menzogna è una sentenza fin troppo esatta, anche se a pronunciarla fu un individuo da cui guardarsi come Friedrich Nietzsche. Alla monumentale biografia dedicata a Susan Sontag (1933-2004) dello scrittore Benjamin Moser, va il merito di aver restituito il ritratto di una personalità tutt’altro che monolitica, come, invece, l’immagine dell’intellettuale americana suggerirebbe. Piuttosto, qui affiorano le ombre di una donna abilissima a costruire una narrazione di sé senza lacerazioni, dubbi, insicurezze, che pure non smetteranno mai di tormentarla. Del resto, uno dei suoi saggi più importanti è Sulla fotografia (1973): dedicato all’utilizzo distorto dell’immagine quale strumento di falsificazione della realtà.
Il confine, dapprima sottile e poi sempre più invalicabile, nella giovane Sontag, tra vita pubblica e privata sfocerà, ben presto, in una forma di sdoppiamento dove ad avere la meglio sull’autentico sarà il percepito. Tant’è vero che, fin dagli anni delle superiori a Los Angeles, allora patria della diaspora tedesca dopo l’avvento di Hitler, a farla sentire maggiormente a disagio, senza tuttavia essere in grado di farne a meno, era quel mettersi continuamente in posa, come se l’unico modo per salvarsi fosse diventare qualcun altro; da cui il continuo rifugiarsi nelle piccole bugie, certo senza ferocia, più probabilmente per proteggere sé stessa e le ferite di un’infanzia non spensierata. Secondo Moser:
«C’è un divario non solo tra la persona che è e quella che gli altri percepiscono, ma anche, più acuto, tra sé stessa e una forza superiore che veglia su di lei. Mettersi in posa: non è un caso che Susan Sontag fosse uno dei personaggi pubblici più fotogenici della sua generazione, né che nel suo romanzo migliore, L’amante del vulcano, la protagonista sia un’esperta di “atteggiamenti”. Rinomata per il magistrale talento per l’imitazione Lady Hamilton è in grado di rievocare, con in gesto o un tono, un’intera schiera di figure della mitologia o della storia.»
Questo mascheramento della realtà, a dire il vero, Susan lo aveva preso da mamma Mildred. Donna bellissima e fragile, alle prese con problemi di alcolismo, vedova non proprio inconsolabile di quel padre che Susan conoscerà appena, essendo morto quando lei aveva cinque anni, e risposatasi, infine, con un uomo che probabilmente non amerà mai fino in fondo, Nat Sontag, il cui contributo familiare più duraturo sarà, a conti fatti, solo il cognome (rispetto al precedente Rosenblatt).
Soprannominata “la Regina della negazione”, per via della sua abitudine a omettere, zittire, sviare, Mildred era completamente incapace di affrontare la vita se non piegandola al proprio castello di menzogne. Celebre l’equazione che utilizzava per giustificarsi agli occhi degli altri: “sincerità uguale crudeltà”.
Con Susan, il rapporto fu drammaticamente disfunzionale. Tanto all’inizio così simbiotico, quanto via via sempre più ingabbiante e anaffettivo. Consumatosi, giocoforza, in un allontanamento pieno di rancore. Anche per alcune scelte di Susan, più che mai osteggiate da una madre incapace di bastare a sé stessa. Come quella di sposare a 17 anni Philip Rieff, un professore dell’Università di Chicago (dove frattanto era andata a studiare contro il volere di Mildred), conosciuto appena una settimana prima e da cui, dopo aver avuto un figlio di nome David, sarà costretta a divorziare (1958). Negli stessi anni, ancorché giovanissima e in maniera repentina, Susan si affermerà quale voce più rappresentativa della sua generazione. Grazie ad alcune pubblicazioni che, immediatamente, la impongono all’attenzione del grande pubblico. Si pensi all’opera d’esordio Contro l’interpretazione (1967), una raccolta di scritti dedicata ai temi più disparati: dalle teorie sul “Camp”, in ambito artistico, alla vita e l’opera di autori come Albert Camus, Jean Genet e Cesare Pavese, tra gli altri.
Con lo scoppio della guerra in Vietnam Sontag diventa una scrittrice impegnata e, definitivamente, celebre. Si avvicina alle posizioni della sinistra radicale e realizza dei reportage dal fronte (Viaggio ad Hanoi, 1969) che ne fanno un riferimento per tutta la controcultura del periodo.
Più avanti, grazie alla relazione sentimentale con il poeta russo Josif Brodkij, prenderà le distanze da certi suoi convincimenti politici, come anche dall’esperimento socialista, fino al denunciarne tutte le storture in un evento alla Town Hall di New York il 2 febbraio 1982. Sarà questa “svolta liberale” a costituire l’ennesimo tornante di una vita che, è il caso di dirlo, assomiglia più ad un romanzo d’avventura, e di formazione, tanto è ricca di colpi di scena e imprevisti. Ecco perché si vorrebbe centellinare il più possibile il contenuto del saggio di Moser – con cui tra l’altro egli ha vinto il premio Pulitzer nel 2020 -. Proprio per non guastare al lettore le tante scoperte che vi farà leggendolo.
L’eccezionalità di questo lavoro è di aver utilizzato gli archivi riservati della scrittrice (fino ad oggi mai presi in esame), intervistato familiari, amici, conoscenti e, soprattutto, chi ha trascorso con Sontag parecchi anni di vita, come la grande fotografa Annie Leibovitz, amatissima compagna per quasi vent’anni. Seppure insofferente all’utilizzo di etichette di comodo, vissute più come delle camicie di forza, il rapporto dell’autrice americana con la sua sessualità è infatti un’altra delle chiavi per comprenderne le contraddizioni. Dopo aver mentito a sé stessa (anche qui, sincerità uguale crudeltà?) per chissà quanto tempo, in un’epoca in cui l’omosessualità era ancora considerata una perversione (se non qualcosa di addirittura peggio), venire a patti con il proprio rimosso è stato motivo sia di orgoglio che di conflitto interiore. Non a caso, ne farà menzione solo pochi anni prima di morire.
«Il mio desiderio di scrivere è collegato alla mia omosessualità. Ho bisogno di questa identità come di un’arma, da contrapporre all’arma che la società usa contro di me. Ciò non giustifica la mia omosessualità. Ma mi accorderebbe una certa licenza. Essere omosessuale mi fa sentire più vulnerabile. Accresce il mio desiderio di nascondermi, di essere invisibile, che comunque ho sempre provato.»
Una situazione analoga a quella che proverà verso la fine degli anni Settanta, quando si ammalerà di cancro. Dove sarà sempre il corpo (il suo) a farsi strumento di lotta, simbolica e insieme reale. Da una prospettiva impersonale ma pienamente autentica. In Malattia come metafora (1978), resoconto sofferto di quell’esperienza, senza pronunciare mai una volta la parola ‘io’, Sontag si scaglierà non senza coraggio contro la vergogna e il senso di colpa imposti al malato dalla cultura occidentale che, anche grazie a questo lavoro, cambierà presto, ma non del tutto, il proprio modo di percepire la malattia stessa. Dunque, riuscendo in ciò che di più importante può fare uno scrittore, ovvero impattare sulla realtà senz’altri mezzi che non siano quelli legati alla parola. Elias Canetti diceva che l’autore moderno, per dirsi tale, deve scontrarsi con l’epoca in cui vive. Ecco, Susan Sontag non ha fatto altro. Fino all’ultimo (morirà di leucemia il 28 dicembre 2004). Oggi, nell’era dell’ossessione narcisistica via social, l’ombra di una figura come la sua ci ricorda, se mai ce ne fosse bisogno, quale funzione abbia o dovrebbe avere un intellettuale.