In copertina, per dire, c’è lui, nudo, sdraiato, collana-anelli-bracciali, che ti punta la pistola in faccia, con quel visto tra Diabolik, Curzio Malaparte e Michael Madsen, pio di una noia violenta. Su “Le Figaro”, dieci giorni fa, Christophe Mercier ha scritto del suo libro accennando a “eccessi, forza e la brutalità di una bellezza malsana che ricordano l’ultimo film di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Aurelio Picca ti punta la pistola in faccia perché sa cosa vuol dire sfracellarsi, scrivendo. In Francia, Christian Bourgois ha tradotto L’Arsenal de Rome détruite (edito nel 2018 da Einaudi come Arsenale di Roma distrutta). È l’unico autore che è diventato la copertina del suo libro: come a dire, consustanzialità tra corpo e corpus, tra verbo e carne. Nello stesso tiro di mesi, per intenderci, Christian Bourgois ha pubblicato Denis Johnson, Hanif Kureishi, Wright Morris e William S. Burroughs. Parrebbe una specie di nobiltà per Picca. L’investitura, diciamo così. Egli è uno dei cardinali della letteratura recente, uno che per lignaggio non disdegna la pugna, l’offesa, il clangore del perdono. Dall’esordio come poeta, nel 1990, per Rotundo, con Per punizione, al romanzo, possente, edito l’anno scorso per Bompiani, Il più grande criminale di Roma è stato amico mio, che con una lingua sconfitta e onnipossente, epica e lacerata, d’oro e di melma, racconta per morsi e visioni moribonde la storia di Laudavino De Sanctis detto ‘Lallo lo Zoppo’, è una verticale di una ventina di libri che fanno di Picca, per gradi marziali, per corrusco carisma, uno dei grandi scrittori italiani degli ultimi decenni.
Recentemente, Arnaldo Colasanti, nell’antologia Braci. La poesia contemporanea (Bompiani, 2021), ne ha esaltato l’estro lirico, e lo descrive così: “Aurelio Picca è oggi l’uomo più antico che conosca. Smanioso, sfrontato, gatta e toro, magnanimo, narciso e inerme, ‘campione dall’esile fierezza’, il magnifico, il poeta luminoso e leale…”. Eppure, Picca non è fatto per la gloria e la quiete, per il triclino di applausi. È uomo pronto al patto di sangue, fraterno, e al sacrificio supremo. Dietro le maschere, il vagabondaggio nel sottosuolo, il censimento degli eccessi, l’“Henry Miller dei Castelli Romani”, c’è l’uomo che ti abbraccia, che ama la cartografia della carne, che non sopporta le mediazioni, men che meno quelle telematiche – “e chiamami, no…” –, una fragilità in vetro – dunque, pericolosa. Che porcata, lo Strega, trogolo dei soliti noti, con la solita dote, gli dico, perché l’hanno tagliato fuori, fuorilegge. Lui nicchia, avvezzo al miracolo più che al cinismo, alla lotta più che alla cagnara. “Nella vita ogni nodo viene al pettine. E se non decidi tu, ci pensa lei. Non credo nella fortuna, né alle scorciatoie. Sono stato un bambino orfano. La mia ferita era talmente bianca che già allora l’anima tagliava e illuminava il corpo. Forse sono diventato uno scrittore per sostituire, attraverso le parole, la legge del padre e poi di un nonno che fu per me patriarca”, mi ha detto, la prima volta che gli ho telefonato. Qualcosa di frantumato, di increscioso, di innocente giace tra i libri di Picca, una via mediana tra Kaputt e Il ramo d’oro, una gita tra gli arcani. “Il Cristo l’ho sentito a trent’anni, con la potenza di Grünewald. Dobbiamo ricordarci che Cristo è un uomo che muore, sulla croce. Cristo era uomo quando è morto, mica Dio, e questo è sconvolgente. Il cristianesimo è pietà e combattimento. Come si può capire, io sto con i papi che impugnano la spada”, mi diceva, allora, quell’uomo dotato al massacro, interamente romano, che ha derubato al giorno un guaito di eternità.
Non sei tra i 12 discepoli dello Strega: forse perché sei re, immolato alle ambizioni altrui. Ti frega qualcosa, infine?
So che non vincerò mai lo Strega. Ogni tanto dimentico che è una latrina di oggettistica, retta da una piccola oligarchia di straccioni intellettuali. Da uomo che ha mantenuto in sé la ferita dell’infanzia, vagheggio a volte che i libri siano giudicati magari da Luigi Baldacci, Geno Pampaloni, Alfredo Giuliani, Rosanna Bettarini… E che lo Strega sia quello dei Comisso, Piovene, Morante, Parise. È nel mio destino non vincerlo come quando da bambino, siccome i compagni di giochi li dominavo in interiorità e ingenuità, mi bastonavano. Sono fiero di questa consapevolezza. Del resto so anche di cosa morirò.
Eppure, sei in Francia. Lì si sprecano i paragoni: sei Pasolini, sei Henry Miller, sei lo scandalo formale permanente. Ma chi è, infine, Aurelio Picca?
I francesi, pur carichi di contraddizioni, sono lontani dalla P2 culturale. Amano l’eversione dell’arte. Aurelio Picca è un uomo delicato che si batte senza difese e che ha scelto la letteratura per avere una legge e onorare il nome del padre.
Cosa significa scrivere? Come si pone lo scrittore nei confronti della Storia, della politica?
La scrittura è corpo e politica. È puro Eros. È gesto reazionario e rivoluzionario.
Ravanare dentro Roma, come fosse l’immane corpo, glorioso e putrescente, dell’Uomo, del mondo, immondo. È così?
In questi due ultimi romanzi è stato così. La corsa dei “mortacci” senza il silenzio della morte. Infatti il più grande cimitero monumentale di Roma, il Verano, è un cadavere devastato.
Cosa si scrive nell’era pandemica, dove scopriamo – ops… – che l’uomo è contagio permanente, la carne un mattatoio di virus? Cosa stai scrivendo? Cosa stai vivendo?
Sì, l’uomo è un contagio permanente. Non ho nessuna speranza per il genere umano che avanza nella irrealtà. Solo gli individui, gli angeli custodi incarnati si salvano. Non scrivo niente. Penso. Il pensiero ora è abisso. Per la scrittura ci vuole il desiderio e la giovinezza. Ora bisogna pensare a come scacciare i demoni. La scrittura non va sporcata né contaminata. Vivo sdraiato sul letto a pensare.
Che fine ha fatto il sacro nel mondo dissacrato, nell’era del sacrilegio? Tu, dove lo odori il sacro?
Il sacro è solo la morte.