OGGETTO: La creazione della nuova Ucraina
DATA: 24 Luglio 2025
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Analisi
La Ukraine Recovery Conference del 10 e del 11 luglio 2025, svoltasi a Roma mentre il conflitto è ancora in corso, ha riunito 70 Stati, oltre 100 delegazioni governative e più di 2.000 imprese. Ufficialmente dedicata alla ricostruzione del Paese, la conferenza si è di fatto configurata come una piattaforma anticipata di spartizione economica e geopolitica.
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Convocare una conferenza internazionale sulla “ricostruzione” mentre i missili cadono su infrastrutture civili non è solo inusuale. È un gesto fortemente politico. La Ukraine Recovery Conference di Roma (URC2025) non è stata semplicemente un esercizio di diplomazia multilaterale, ma un atto anticipato di ingegneria geopolitica: la creazione della nuova Ucraina non attende la fine della guerra — la precede.

La domanda, oggi più che mai, è cruciale: si può parlare di ricostruzione senza aver prima discusso la pace? Dietro lo slogan della “solidarietà con l’Ucraina”, URC2025 ha offerto un’istantanea chiara della nuova corsa alla ricostruzione postbellica come forma moderna di penetrazione strategica. Le cifre sono imponenti: un fondo europeo per la ricostruzione del valore di 10 miliardi di euro, annunciato da Ursula von der Leyen; oltre 2.300 accordi firmati per un totale di 15 miliardi di euro tra fondi pubblici e investimenti privati; la nascita dell’European Flagship Fund, primo fondo azionario “ibrido” pubblico-privato pensato per attrarre capitali su larga scala; la firma dell’accordo USA–Ucraina per lo sfruttamento congiunto di terre rare, gas naturale e uranio.

In tutto questo, la partecipazione di più di 2.000 aziende internazionali — tra cui colossi energetici, tecnologici e della difesa — segnala che il futuro economico dell’Ucraina è già oggetto di una competizione commerciale su scala globale. Sotto il vessillo della ricostruzione si sta combattendo un’altra guerra: quella per l’egemonia economica del dopoguerra.

Sebbene l’apparato retorico della conferenza sia stato improntato a concetti come “resilienza”, “solidarietà” e “integrazione europea”, il modello economico delineato è quello di una ricostruzione condizionata: privatizzazioni controllate e accelerazione delle liberalizzazioni; concessioni a lungo termine per lo sfruttamento di risorse strategiche; riforme del settore pubblico in cambio di aiuti; centralità del capitale privato come motore della ripresa. Un approccio che ricalca, in parte, le logiche dei programmi di aggiustamento strutturale del FMI negli anni ’90. Ma stavolta in un contesto molto più delicato, perché riguarda un paese ancora sotto attacco, con infrastrutture civili minate, una popolazione sfollata e una sovranità istituzionale indebolita.

Se la postura dell’Unione Europea è stata quella di donatore e promotore istituzionale, la posizione americana è apparsa più pragmatica: meno coinvolgimento militare diretto, maggiore influenza economica e controllo strategico. La dottrina Trump — già ampiamente delineata — ha trovato nella conferenza di Roma una conferma: “Gli Stati Uniti invieranno sistemi Patriot, ma sarà l’Europa a pagarli.”

Il messaggio è duplice: Washington continua a dettare la cornice strategica; Bruxelles si assume l’onere finanziario.

    Siamo di fronte a una trasformazione dell’alleanza atlantica: da sistema di sicurezza condiviso a relazione commerciale della difesa, dove l’Europa si configura come mercato e acquirente di sicurezza prodotta altrove. Tra i messaggi più incisivi della conferenza, quello della presidente Meloni: “Non abbiate paura di investire”. Un’esortazione rivolta agli imprenditori italiani ed europei, con il sottinteso che l’Ucraina sarà presto un mercato aperto, integrato e sicuro. Ma il rischio è che il paese diventi, più che uno Stato pienamente sovrano, un cantiere geopolitico guidato da capitali esterni, vincolato a: obiettivi di riforma dettati da Bruxelles e Washington; dipendenza energetica ed economica dagli investitori; trasformazione istituzionale accelerata per aderire ai modelli euroatlantici.

    A livello geopolitico, ciò significa che l’Ucraina rischia di diventare una semi-periferia funzionale dell’Europa, in cui le dinamiche interne saranno profondamente influenzate (e forse limitate) dagli interessi dei donatori. Dietro le cifre e i fondi si cela la vera posta della ricostruzione: le risorse naturali ucraine, tra le più ricche e strategiche d’Europa: terre rare, fondamentali per le tecnologie verdi e digitali; gas naturale e uranio, essenziali per l’autonomia energetica continentale; terreni agricoli, già oggetto di grandi manovre di acquisizione da parte di fondi esteri.

    Il recente accordo tra Stati Uniti e Ucraina sulle concessioni energetiche è un segnale inequivocabile: la ricostruzione serve anche a consolidare catene di approvvigionamento geopolitiche. Chi finanzia la ricostruzione oggi, controlla i flussi strategici domani.

    L’Unione Europea si presenta come l’architetto del nuovo ordine postbellico, ma il suo ruolo rischia di essere ambiguo: da un lato, il principale fornitore di fondi; dall’altro, priva di una vera sovranità strategica. Come sottolineato da diversi analisti, si delinea una dinamica pericolosa: l’UE paga, ma non comanda; gli Stati Uniti decidono le linee rosse, ma scaricano i costi sugli alleati; l’Ucraina, grata ma dipendente, si muove in uno spazio geopolitico definito da altri.

    Il rischio è che il modello di ricostruzione, anziché rafforzare l’autonomia europea, ne accentui la subalternità.

    La conferenza di Roma sulla ripresa dell’Ucraina è stata un evento spartiacque. Non solo per l’entità degli investimenti, ma per il suo significato politico più profondo: la guerra ha già un dopo, e quel dopo è stato parzialmente messo sotto contratto.

    Chi partecipa alla ricostruzione oggi non sta solo costruendo scuole e ponti. Sta modellando l’architettura strategica dell’Ucraina futura. Sta ridefinendo, in parallelo, gli equilibri della sicurezza europea e i rapporti di forza all’interno dell’Occidente.

    Se la guerra ha insegnato qualcosa, è che la geopolitica non si gioca più solo sui campi di battaglia, ma anche nei centri congressi, nei contratti, nei fondi equity.

    La vera domanda, dunque, non è solo quando finirà la guerra, ma chi disegnerà la pace — e con quali strumenti.

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