Milan Kundera, il grande scrittore boemo, parlando della differenza tra saggio e romanzo, una volta ha detto che solo il secondo si occupa dell’esistenza. E pensandoci, non aveva tutti i torti. Se il saggio ha a cuore esclusivamente il reale, diceva, nella finzione letteraria, in quell’abbraccio tra il nulla e il tutto che è la Verità, le cose stanno diversamente. Qui, lo scrittore ha la facoltà di raccontare di che cosa è capace l’uomo, cos’ha provato nel fare quel che ha fatto e, soprattutto, perché lo ha fatto. Il che non è poco. In una conferenza del 2010 e successivamente in Leadership. Sei lezioni di strategia globale, Henry Kissinger ha brillantemente definito questo scavo psicologico condotto dal romanzo con l’espressione di deep literacy, “alfabetizzazione profonda”, vale a dire “la capacità di affrontare un testo scritto di una certa ampiezza così da anticipare la direzione e il significato dell’autore”.
Una qualità di cui i capi di Stato presi in esame nel suo libro – Konrad Adenauer, Charles De Gaulle, Richard Nixon, Anwar Sadat, Lee Kuan Yew e Margaret Tatcher – disponevano abbondantemente, in quanto capaci nelle diverse declinazioni del proprio mandato di capire, grazie all’arte romanzesca, “come funziona davvero il mondo”. Ognuno di essi, sosteneva il diplomatico statunitense scomparso nel ‘23, consapevole di quanto fosse importante la fiction nella formazione di un politico, ha tratto dai libri “l’ispirazione necessaria per governare in ogni circostanza con tatto, lungimiranza e intelligenza politica, in modo da impedire alle esigenze del presente di pregiudicare il futuro”. Ha, in definitiva, ampliato il proprio sguardo sul mondo e saputo guardare alla realtà da angolazioni diverse. Cosa che un uomo (o donna) deputato alla cosa pubblica dovrebbe essere sempre chiamato a fare, pena l’irrilevanza delle sue azioni.
Questi pochi cenni, assai incompleti tra l’altro, valgano come introduzione all’ultimo capitolo di un saggio straordinario (in senso letterale, fuori dall’ordinario), tanto per l’ambizione del suo autore quanto soprattutto per il tema trattato, ovvero il rapporto tra politica e letteratura. Il testo in questione si intitola I Demoni. Storie di letteratura e geopolitica (Baldini Castoldi, 2023, prefazione di Maurizio Molinari) del diplomatico di stanza a Bruxelles Fernando Gentilini. Il quale si è cimentato in un lavoro di enorme difficoltà e fascino, quello di guidare il lettore “alla scoperta di quanto il demone letterario abbia influenzato l’azione di re, regine, statisti e autocrati di ogni tempo e di come le loro scelte, in politica interna ed estera, siano strettamente legate ai miti, le tradizioni e i libri”.
Posto che chi governa i destini degli umani non “agisce mai solo per calcolo”, i tremila anni di storia qui rappresentati, grazie ai numerosi fatti ed episodi riportati dall’autore, appaiono quasi come una naturale conseguenza di molta produzione letteraria. Gli esempi si sprecano. Troviamo le influenze di Gilgamesh, Omero e Virgilio rispettivamente per il re degli Assiri Assurbanipal, Alessandro Magno e Augusto, e gli insegnamenti dello stoicismo in Adriano, Antonio Pio e Marco Aurelio. Si attraversa la “civiltà del libro” di epoca umanistico-rinascimentale, con i neoplatonici fiorentini e la poesia di Lorenzo il Magnifico, e l’opera dei fondatori della scienza politica Machiavelli e Guicciardini. C’è il sottile tatticismo del cardinale Richelieu e la saggezza illuminista, debitrice di Diderot, dell’imperatrice filosofa Caterina di Russia, ma anche la vita di per sé già romanzesca del “bibliofilo alla conquista del mondo” Napoleone Bonaparte. Non mancano i vizi letterari di statisti del calibro di Cavour, Bismarck e la regina Vittoria, e le fatali passioni per certi poeti e filosofi da parte di “tre personaggi in cerca di autore”: Lenin, Hitler e Mussolini. In ultimo, si fanno i conti con le radici ideologico-letterarie dei padri fondatori dell’Europa – Schuman, De Gasperi, Spaak e Monnet, tra gli altri -, con i profondi cambiamenti cui stiamo assistendo in questo primo quarto di secolo e con la biblioteca “più pericolosa” (?) del mondo, quella di Vladimir Putin, ricolma di volumi della grande letteratura russa: Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev e molti altri.

Ebbene, malgrado questa panoramica proposta da Gentilini sia di enorme interesse, utile innanzitutto a chi volesse comprendere l’irrazionale del potere e dei suoi interpreti, tuttavia, se si guarda ai drammi del nostro tempo, al presente che tallona e ci costringe al ruolo di semplici spettatori, non si può che tornare alle osservazioni di Henry Kissinger. Perché l’analisi dell’ex segretario di Stato americano, posta come dicevamo nel capitolo finale de I Demoni, non solo illumina la realtà del qui e ora ma prefigura, probabilmente, “cosa dobbiamo aspettarci per il futuro” rispetto allo scenario geopolitico globale. Il punto di partenza della disamina è impietoso. E riguarda, senza ipocrisie, la “morte del libro”, il suo triste e (definitivo?) declino. Oggi, dice nella già citata conferenza del 2010, il mondo è indecifrabile perché nessuno – dei leader, dei capi di stato, della classe dirigente – è capace di sostenere il faticoso esercizio della lettura: “Leggere libri richiede la capacità di concettualizzare, di allenare la propria mente alle relazioni. Perché occorre imparare a conoscere sé stessi e uno statista ha bisogno di queste qualità”.
La rete, da questo punto di vista non esente da colpe, annullando la metabolizzazione, l’acquisizione graduale dei concetti rende vano finanche l’esercizio stesso della ragione: “Churchill capiva i contesti. E invece il nuovo modo di pensare cancella i concetti. Disaggrega ogni cosa. Rende impossibile pensare in termini strategici all’ordine mondiale”. Ecco, oggi chi ha l’onere del comando, ci ricorda Kissinger e con lui il filosofo Isaiah Berlin, dovrebbe fare piuttosto come “un romanziere o un artista”, “assorbire la vita in tutta la sua straordinaria complessità”. Compiere gesti lungimiranti e coraggiosi forti di questa esperienza interiore. D’altra parte, però, i “leader attuali sono diversi”, sostiene Gentilini. Essi “hanno perso per strada qualcosa con il passaggio dall’epoca della stampa a quella della visualità digitale”. Cosa? Proprio quell’alfabetizzazione profonda (deep literacy) dalla quale siamo partiti. Messa alle strette da una rivoluzione digitale non ancora portata a termine. Che, tuttavia, ha già indebolito le nostre abilità analitiche e strategiche. Creato confusione tra informazione e conoscenza. Posto un muro crescente tra noi e la cultura (tradizionalmente intesa). Insomma, trasformato cognitivamente la specie a cui apparteniamo.
Che avesse ragione, allora, il vecchio Borges (citato ab origine dall’autore) a dire che un giorno non troppo lontano da una parte ci saremo noi, ormai prossimi all’estinzione, e dall’altra tutti i libri che non leggeremo né sapremo mai più leggere? Chi può saperlo. Nel frattempo, al netto delle congetture dello scrittore argentino, la letteratura continua ad andare per la sua strada; specie quella fantascientifica, essa non ha mai smesso di riflettere sui futuri possibili che ci attendono. E la politica? Beh, forse per pensare al domani, per tornare in possesso di una qualche visione credibile, dovrebbe intanto essercene una degna di questo nome.