In questi ultimi anni abbiamo assistito all’emersione di un certo gusto sadico nel pubblico dei prodotti d’intrattenimento, il quale, in alcune celebrate opere audiovisive, ha trovato pane per i suoi denti. La recente ultima stagione di Squid Game ha confermato lo show come il più postmoderno degli spettacoli a base di massacri, facendo impennare le curve di visualizzazione della piattaforma. Al cinema le avventure dei bei protagonisti della trilogia Hunger Games hanno affascinato milioni di ragazzi, mettendoli davanti a scene di omicidi compiuti, sia pure nella tranquillità del mainstream, da loro possibili coetanei. La dimensione distopica di quest’ultimo lo ha reso sufficientemente distante da letture attuali per renderlo più digeribile al grande pubblico.
Nella serie coreana invece l’attualità emerge con tutta la sua drammatica violenza, mettendo in scena la tragedia di un’umanità rovinata, imbruttita da un sistema capitalistico disumanizzante che oltre ai conti in banca prosciuga le vite e deturpa lo spirito. I coreani vivono infatti di estremi; i più comunisti quando si tratta di comunismo, i più sfrenati liberisti nell’applicare i dettami del capitalismo liberista. La ricchezza della società si controbilancia nella disperazione per l’onnipresente debito (il tremendo spettro che si aggira nei paesi economicamente progrediti), cui segue l’abbandono dell’umanità ed il massacrarsi a vicenda dei concorrenti per mettere le mani sul ricco montepremi, celato all’interno del simpatico salvadanaio gigante a forma di porcellino. Ma tali splendidi massacri mediatici hanno un autorevole, e purtroppo dimenticato, progenitore.
Un romanzo, Battle Royale, del giapponese Koushun Takami, pubblicato all’alba del nuovo millennio quasi come un battesimo sanguinolento ed estremamente significativo. Negli anni Novanta il Giappone ha visto fiorire la sua stagione di anime e manga più oscura e violenta, una sorta di risposta artistica alla devastante crisi economica che segnò la fine di un ininterrotto periodo di ricchezza, mettendo il paese più civile del mondo di fronte alle sue contraddizioni più angoscianti. Esse traspaiono negli anime horror e fantascientifici, nel nuovo cinema OAV (ineguagliati per valore grottesco e splendore granguignolesco i film di Takashi Miike) e, per l’appunto, nella letteratura.
Come sempre nella storia, la violenza nell’arte è strumentale per descrivere la realtà. Battle Royale racconta di come, in una versione distorta e distopica del Giappone moderno, sia previsto uno speciale “programma” per porre rimedio alla violenza giovanile ed alla disoccupazione: ogni anno gli studenti di una classe di scuola media selezionata in modo casuale dovranno impegnarsi ad ammazzarsi a vicenda, sotto la minaccia di essere a loro volta uccisi dai soldati del regime qualora rifiutassero, fino a che non rimanga un unico vincitore. Le armi assegnate ai protagonisti variano da fucili a canne mozze fino a dei coperchi di pentole.
In questa carneficina non ci sono però montepremi da vincere come in Squid Game o un pubblico da compiacere come in Hunger Games. Sono dei ragazzini obbligati dalla sorte a massacrarsi tra loro. Alcuni accettano di buon grando la sfida per un puro gusto omicida, altri per sopravvivere rinunciano ad ogni umanità uccidendo nei modi più abbietti i propri compagni, altri ancora rifiutano la diabolica sfida e cercano di sfuggire al loro destino. È un’umanità posta di fronte alla sfida suprema a sé stessa: sfida che, almeno nelle intenzioni dell’autore, pare perduta. Il romanzo divenne presto un best seller, da esso fu tratto un omonimo film di grandissimo successo con Takeshi Kitano nel ruolo del supervisore della strage.
Lo spettacolo del massacro è, fin dai tempi antichi, il più perversamente affascinante, ed il progredire della civiltà non pare aver posto rimedio a questa scomoda verità. Perché le persone amano così tanto osservare i propri simili mentre si uccidono tra loro? Che sia un film, una serie tv o letteratura poco importa, un voyeurismo sadico si aggira nei fruitori dei moderni spettacoli. Mostrare gli aspetti più oscuri della natura umana è forse un modo per esorcizzarli nella mente delle masse, così che esse interiorizzino il messaggio che ciò che vedono è in effetti sbagliato? Altrimenti come spiegare un simile successo? Nel romanzo di Takami la giovanissima età dei protagonisti rende la crudeltà del racconto ancora più insopportabile, soprattutto considerando che molti dei protagonisti non mostrano rimorso nell’uccidere i loro compagni. Solo che a differenza di Squid Game non si ammazza per soldi né ci si trova all’interno di un gioco perverso per propria scelta.
«Hai ancora fiducia nelle persone?», chiede l’organizzatore mascherato al protagonista della serie coreana, dopo che questi ha assistito a tutte le bassezze di cui l’essere umano è capace in nome dell’avidità e per garantirsi la sopravvivenza. Il comune denominatore di tutte queste opere sembra essere quello di mostrare il peggio della natura umana, sia dal lato di chi prende parte al massacro, sia dal lato di chi osserva. Perché c’è sempre qualcuno che osserva, divertito, il dispiegarsi della carneficina. Il lettore e lo spettatore non fanno eccezione. Si divertono, si intrattengono nel vedere loro stessi all’interno di uno specchio deformato dalla lente rassicurante dello spettacolo.
Questa è l’epoca in cui il massacro spettacolarizzato è tornato di gran moda; vedere l’essere umano al suo peggio all’opera attraverso i tanti schermi a nostra disposizione. Guardare è un atto di assoluto potere. Osservare il dispiegarsi della strage, apprezzarne i dettagli, le sottigliezze, gli stratagemmi, l’eliminazione di chi ci è antipatico.
Tutto questo ci diverte, ma senza alcuna catarsi. È solo l’ennesimo spettacolo che probabilmente presto diverrà reale. In fondo è la stessa logica del reality show. Il potere delle masse risiede oggi nell’atto di guardare le miserie dei loro simili. Se gli osservatori in Squid Game ed Hunger Games sono facoltosi ricconi che si divertono a guardare persone disperate ammazzarsi tra loro, forse presto, col progredire della civiltà, un simile potere verrà consegnato anche agli uomini comuni.
Ci divertiamo a vedere confermata la massima di William Golding, l’autore dell’opera forse progenitrice di tutte quante quelle nominate, Il Signore delle Mosche: «Gli esseri umani producono il male come le api il miele».