Il 6 settembre 1941 a Tokyo, si incontrano gli stati maggiori riuniti di marina ed esercito. Inchini, solennità, etichetta marziale, medaglie, uniformi blu delle forze di mare, uniformi verdi delle forze di terra: quel giorno nella sala del Consiglio Supremo di Guerra si concentra l’intero vertice militare dell’Impero del Sol Levante. Ordine del giorno, che poi sarà l’ordine di una guerra intera, la ratificazione del grande piano.
Hai! (Sì, affermazione degli onorevoli general-ammiragli).
Il Grande Piano di guerra
Prima fase:
– Attacco a sorpresa contro la flotta americana del Pacifico ancorata a Pearl Harbour;
– Rapidi sbarchi simultanei nelle Filippine, a Guam (isola americana in Micronesia), a Hong-Kong, nel Borneo, in Malesia.
Seconda fase:
– Offensive di conquista verso Manila e l’isola di Mindanao, Wake, Singapore e l’occupazione del Siam ora Thailandia;
– Invasione e occupazione delle Indie olandesi (Giava e Sumatra e isole minori dell’attuale Indonesia);
– Offensiva finale in Cina;
– Conquista della Birmania e invasione dell’arcipelago britannico delle Andamane nel Golfo del Bengala.
Banzai! (Diecimila anni di vita all’imperatore! Urlano in una voce sola gli onorevoli general-ammiragli alzando le braccia al cielo e poi accarezzando l’elsa della spada).
Questa in breve è l’ambizione dell’Impero: uno smisurato desiderio di dominio da raggiungere con un balzo tigresco per terra, per aria, per mare, lungo mari, nazioni, continenti. È una visione strategica immensa, da realizzare tramite la guerra; una pantagruelica fame di conquista imperiale da soddisfare nel minor tempo possibile. È uno sconfinato panorama storico che ci insegna che, in quel particolare momento di tempesta novecentesca – di Arashi – in cui l’arte bellica si compie con un’industria in moto perpetuo e campagne militari lanciate a tavoletta, la faccia del Mondo, la sua intera geografia politica di confini e imperi, può mutare nel giro di una stagione. Conquiste planetarie e rovine eterne posso alternarsi in un arco temporale molto ristretto: l’estrema politica del tavolo verde, ci si gioca tutto in poche mani. Nell’altra parte di Mondo è un’aspirazione di potere paragonabile all’idea di Reich continentale a cui ambisce Hitler. Uno sforzo militare che appare disumano e oggi folle, ma i cui obiettivi nei primi mesi di guerra sono stati incredibilmente raggiunti dal Giappone.
Il 7 dicembre 1941, in parallelo all’attacco di Pearl Harbour, le forze armate nipponiche sferrano una serie micidiale di assalti su vasta scala. Si è detto in parallelo, dunque simultanee, e aggiungiamo anche indipendenti: il risultato a Pearl Harbour, anche se fosse stato un disastro, non avrebbe influenzato le altre operazioni. È il frutto di una strategia d’offesa studiata nei minimi dettagli, calibrata per funzionare come un orologio. La combinazione terra-aria-mare funziona in perfetta armonia e coordinazione, e ad essa si aggiungono: una motivazione assoluta nella ricerca della vittoria, una sorpresa e una forte impreparazione del nemico, una preparazione dei piloti eccezionale, una tecnologia bellica – soprattutto per la marina e l’aviazione – in quei primi mesi insuperabile, e una serie di condizioni fortunate. Già, la fortuna … audentes fortuna iuvat … elemento incontrollabile ma primario nelle campagne, Napoleone insegna.
Come scrissi in un vecchio articolo in seguito ad un viaggio in Giappone a proposito dell’ora X che fece scattare l’inizio della seconda guerra mondiale nel Pacifico e in Estremo Oriente, tecnicamente le ostilità sono incominciate prima di Pearl Harbour. Perdonate l’autocitazione:
Un’ora e mezza prima della potente overture dell’orchestra sinfonica Mitsubishi Zero che ha sancito l’inizio ufficiale delle ostilità nello scacchiere Pacifico tra Impero nipponico e Alleati a Pearl Harbor, i giapponesi avevano in realtà già mosso guerra contro le potenze occidentali. Infatti, nel settore del Sud-est asiatico, si taglia il nastro all’immane scontro asiatico-oceanico-anglo-americano alle ore 0:25 ora locale del 8 dicembre (ore 16:55 del 7 dicembre secondo il Meridiano di Greenwich), mentre, trascurando volutamente i precedenti duelli sottomarini, l’attacco contro il porto USA ha il suo minuto congelato nell’orologio della Storia alle 7:55 ora hawaiana del 8 dicembre (ore 18:25 del 7 dicembre secondo il Meridiano di Greenwich). Dunque, senza stare a sbattere troppo la zucca, e prendendo Greenwich come riferimento temporale, 18:25 meno 16:55 = 1 ora e mezza esatta. L’aritmetica del topo da biblioteca, preciso, puntiglioso e maniacale, ci dice quindi che la macchina da guerra giapponese aveva già attaccato gli inglesi prima del famoso episodio contro gli americani, arcinoto e cinematografico.
Federico Mosso, MOMAT Banzai!
Sì dunque, ancor prima che la tempesta di fuoco si scateni alle Hawaii, le forze nipponiche aggrediscono la Malesia sotto il controllo dei britannici. La base di partenza è l’attuale Thailandia. Il governo siamese collabora già da tempo con Tokyo. Grazie agli aiuti giapponesi le forze armate thai ottengono porzioni territoriali delle vecchie colonie francesi in Indocina strappate alla lontana autorità di Vichy. Per lo Stato Maggiore imperiale l’ambitissima preda è il tesoro dello Stretto di Johor, Singapore. Per non guastare la sorpresa agli inglesi coinvolgendo Bangkok in piani segretissimi, i giapponesi optano per un’invasione “soft”, senza troppo sangue, dell’amico thai. Sotto il comando del generale Tomoyuki Yamashita, penetrano via terra dalla Cambogia, guidati da una divisione d’élite della Guardia Imperiale, e via mare dalle navi nel golfo del Siam per prendere il controllo degli approdi strategici lungo la penisola di Malacca, sia thailandesi che malesi. Sulla spiaggia di Kota Bharu, a una decina di chilometri dal confine thai, sbarcano le truppe d’assalto della 18ª divisione “del Crisantemo”, veterana della Cina.
Tsunami del Sole Rosso Nascente: è la marea giapponese. Guam, unica isola americana dell’arcipelago delle Marianne (le restanti sono sotto il dominio imperiale), è ritenuta essere un buon punto intermedio nella rotta USA-Filippine. A difenderla c’è uno striminzito manipolo di marines, appena 430 fucilieri. Il 10 dicembre l’esile guarnigione viene spazzata via da una forza d’invasione di 5.400 uomini. L’isola di Wake, a nord dell’arcipelago delle Marshall, a metà strada tra le Hawaii e l’Estremo Oriente, è ghiotta preda. Gli americani, in posizione di netta inferiorità, si difendono orgogliosi e ostinati anche se consci che la caduta dell’isola è destino già scritto. Il 23 dicembre l’ammiraglio Kajioka in alta uniforme fa il saluto alla bandiera di guerra innalzata sui crateri artificiali di Wake, che ribattezza isola degli uccelli, secondo la tipica inclinazione giapponese a fare ricorso alla poesia nella scelta dei nomi geografici.
Ma questi due obiettivi, importanti soprattutto dal punto di vista propagandistico, spariscono di fronte alla conquista della colonia inglese di Hong-Kong difesa da 11.000 soldati britannici di Canada, India, Scozia. Dopo massicci bombardamenti d’artiglieria e aerei, i fanti giapponesi balzano all’assalto delle fortificazioni e delle ridotte. Da parte dei difensori, la lotta è disperata ma inutile. Il giorno della Vigilia di Natale ’41, la città è priva di acqua, cibo, medicinali, elettricità. Il giorno di Natale, la guarnigione alza bandiera bianca.
E poi Singapore… l’8 dicembre, alle 4 del mattino, la più importante colonia d’Estremo Oriente di re Giorgio VI subisce una dura incursione aerea, agevolata dalle luci metropolitane, tutte accese e sfavillanti come in normale tempo di pace. Singapore pagherà molto cara la sua noncuranza e sciocca sottostima del nemico …
Nel frattempo, per tentare di contenere la calata malese, salpa la Forza Z di cui fanno parte le supernavi da battaglia Prince of Wales e la Repulse, fiori all’occhiello della marina britannica, che sarebbero dovute essere il grande deterrente alla minaccia di Tokyo. Ma i giapponesi se ne fanno un baffo, e attaccano eccitati. Dalle piste indocinesi si alzano in volo i bombardieri d’Assalto della Marina – Mitsubishi G3M detto “Nell” e Mitsubishi G4M detto “Betty” carichi di siluri e bombe. I corpi aerei Kokutai si scagliano contro i pachidermi Prince of Wales e Repulse, per pungerli mortalmente. Sembrano piccoli ma letali insetti velenosi che svolazzano incattiviti su giganteschi mostri marini. La Prince of Wales e la Repulse colano a picco, è un disastro per la Gran Bretagna.
In tutta la mia esperienza, non ricordo una catastrofe navale terribile e dolorosa come la perdita della Prince of Wales e della Repulse.
Sir Winston Churchill alla House of Commons, l’11 dicembre 1941.
La straordinaria vittoria giapponese sulla flotta inglese porta due considerazioni storiche. La prima è che l’ostacolo più ostico per le forze armate imperiali per la conquista della Malesia è tolto di mezzo. La seconda che il moderno tipo di guerra marina portato avanti dai giapponesi risulta essere senza dubbio vincente. Corazzate imponenti, per quanto pesantemente armate e fresche di varo, soffrono di uno svantaggio letale senza adeguata copertura aerea. L’aereo vince sulle navi. Mentre in mare si consuma la rovina di Londra, le divisioni di terra del generale Yamashita, appoggiate da truppe siamesi, marciano lungo la penisola malese. Direzione: Singapore. Gli inglesi hanno commesso un gravissimo errore. Hanno infatti innalzato tutte le poderose difese fortificate di artiglieria verso il mare. Pensavano a torto che la minaccia sarebbe arrivata dall’acqua. Per loro era impensabile che un esercito venisse giù dalla Malesia. Si sono sbagliati di grosso.
Allo scoppio della guerra l’atteggiamento inglese nei confronti dei giapponesi è simile a quello americano: ritengono quei nani gialli inferiori e sottovalutano in modo grossolano le capacità militari delle forze imperiali. Stolta supponenza british, presto i gentlemen dei club signorili colonici in Orchard Road dovranno abbandonare i loro gin&tonic per darsela a gambe verso le navi in frettolosa partenza dal porto di Singapore.
Oh, Bloody hell, they are coming!
Le linee difensive vengono travolte e i contrattacchi di truppe australiane e anglo-indiane falliscono miseramente. Il 12 febbraio 1942 i carri armati sono all’ippodromo. Radio Singapore viene occupata subito dopo. Lo speaker in accento giap intima agli inglesi ad arrendersi. Gli ospedali traboccano di feriti gravi e urla. Aria umida dolciastra di calcinacci sbriciolati e sangue. Le banchine al porto sono nel caos più totale di valigie, clacson di auto, folla multietnica di europei, di indiani, cinesi, malesi in cerca del vaporetto della salvezza. Ultime cocciute sacche di resistenza. Il 15 febbraio viene firmata la capitolazione. È il crollo della Gran Bretagna in Estremo Oriente; l’Australia si ritrova sulla linea del fronte e ora rischia grosso.
I piani di attacco alle Filippine sono stato studiati dagli stati maggiori imperiali con cura maniacale. Sono terre saldamente in mano yankee, dal 27 novembre in allarme rosso (ulteriore indizio che l’esplosione della guerra nippo-americana non fu proprio un fulmine a ciel sereno come taluni indicano ancora). Comandante in capo è designato il generale Douglas MacArthur, già consigliere militare del presidente filippino Quezon. Il 7 dicembre, la cattolicissima popolazione è impegnata nei preparativi per la ricorrenza dell’Immacolata Concezione. Tutti tranquilli ad accendere ceri mentre si avvicina minacciosa l’undicesima flotta aerea imperiale. A bordo i piloti di caccia e di bombardieri spalancano gli occhi: file e file di aerei americani a riposo allineati sulle piste; a distanza di dieci ore si ripropone la gustosa sorpresa di Pearl Harbour. L’aviazione americana nelle Filippine viene pressoché annientata. Il 10 dicembre viene presa di mira la capitale Manila. Il porto brucia. Le bombe cadono con precisione crudele. Gli sbarchi si susseguono in una moltitudine di direttrici lungo tutto l’arcipelago, dal 10 al 21 dicembre, senza sosta. Gli invasori non possono essere fermati. Capodanno ’42, la banda militare suona l’inno nazionale Kimigayo nei giardini della residenza presidenziale di Manila. Le restanti forze americane e filippine ripiegano per la difesa ad oltranza nella penisola di Bataan dove ingaggiano battaglia anche se a brandelli e affamati. Le forze giapponesi avanzano ma lente e a caro prezzo. L’agonia dura fino a marzo. Il generale MacArthur fugge in Australia, ma promette:
Tornerò!
Douglas MacArthur
Non è promessa da marinaio… Intanto il 3 aprile il generale Nara ordina la tempesta d’artiglieria coordinata con il diluvio di fuoco dal cielo. Pare che la terra di Bataan ne fosse scossa come per un terremoto. I difensori, ridotti alla fame, decimati dalla malattia, nel caos, senza più munizioni, si arrendono. Oltre 76.000 uomini, tra americani e filippini, alzano le mani. Li attende il terribile calvario della “marcia della morte”.
Dopo il grandioso successo delle prime settimane di offensiva totale, il Sol Levante procede nella sua avanzata da piani, come una macchina programmata con assoluta precisione strategica. C’è davvero da stupirsi: hanno organizzato una serie di poderose operazioni indipendenti ma allo stesso tempo facenti parte della medesima impressionante sinfonia bellica. Precisione, tecnica, logica. Yamamoto e i gli altri strateghi hanno disegnato un piano senza pari nella Storia, quasi ingegneri del destino, e la seconda fase si combina alla perfezione con la prima, in un micidiale e spaventoso moto armonico di offensive e conquiste. Così è la volta del Borneo, anch’esso ricco dei giacimenti petroliferi del Brunei, poi le Molucche, Sumatra, Bali e Timor. C’è una tenaglia di un granchio mostruoso che si chiude verso l’Indonesia. Le forze coloniali olandesi, alleate di inglesi, americani, australiani, soccombono, come è dimostrato dalla battaglia aero-navale del Mar di Giava del febbraio 1942, l’ennesimo disastro per gli Alleati. La sete di petrolio del Giappone viene presto placata con i giacimenti delle Indie Olandesi. L’obiettivo fondamentale del Sol Levante è raggiunto.
Dopo la vittoria di Giava, i giapponesi sbarcano in numerosi punti della Nuova Guinea. I reparti aerei australiani sono fatti a pezzi. Viene presa anche l’isola di Christmas, ricca di fosforo, molto prezioso per l’industria. Spostandoci di migliaia di chilometri da sud ad ovest sulla gigantesca mappa militare, esaminiamo la Birmania. Qua l’aviazione giapponese si busca la prima batosta. Il 23 dicembre 1941, uno stormo di bombardieri con il sole rosso dipinto sulla carlinga si dirige verso Rangoon, per bombardarla. Ma vengono intercettati da una formazione nemica e sei aerei nipponici vengono abbattuti. Il comando imperiale è furente e organizza immediatamente una massiccia spedizione punitiva aerea per il giorno di Natale. Questa volta perdono ventiquattro velivoli: una mazzata. I giapponesi naturalmente s’incaponiscono viola di rabbia. Nelle settimane successive avvengono circa trenta battaglie nei cieli birmani. Gli attaccanti perdono circa 250 apparecchi, contro appena 6 dei difensori.
Ma chi sono quegli audaci piloti che combattono contro forze giapponesi assolutamente preponderanti? Si tratta delle Flying Tigers, le Tigri Volanti che portano sul cofano dei loro aerei l’emblema delle fauci ferine, in nome di una certa estetica guerriera che li rende famosi. Sono piloti mercenari americani organizzati da un personaggio degno di un film di Hollywood, Claire Lee Chennault, assoldato dal generale nazionalista Chiang Kai-shek per mettere in piedi un’aviazione militare cinese decorosa. Quando scoppia il conflitto, Chennault ottiene l’autorizzazione dal suo datore di lavoro e dal comando alleato di costruire una base a Rangoon per una delle sue squadriglie. Sa bene il pilota di ventura che la Birmania è uno degli obiettivi militari del Giappone, perché è da lì che l’esercito imperiale vuole intraprendere una nuova campagna contro la Cina. In un momento storico cupissimo per gli Alleati, l’esempio spavaldo delle Tigri Volanti costituisce un’eccezione che dà un briciolo di speranza ad inglesi ed americani. Ma se nei cieli le cose non vanno per il verso giusto per gli aerei dell’Imperatore, in terra invece fanti ed artiglieri avanzano inesorabili aprendosi la strada dal confine thailandese e vincendo accesi combattimenti contro truppe anglo-cinesi che verranno cacciate in India. L’armata nipponica proveniente dal Siam si ricongiunge il 30 gennaio ’42 con i reparti della direttrice meridionale che sono risaliti dalla penisola di Krah. I rinforzi cinesi vengono respinti e stretti contro i contrafforti del Tibet. Cade anche la Birmania; è una nuova straordinaria vittoria nipponica, che permette loro di avere una solida base per la successiva offensiva in territorio cinese.
L’enorme perimetro della Sfera di prosperità comune della Grande Asia Orientale è pressoché tracciato. Sulla mappa appare come un insieme di raggi, un immane ventaglio che si propaga dall’isola del Giappone fino alle acque territoriali australiane a sud; a est per mezzo Pacifico inglobando importanti arcipelaghi come le Caroline, le Marshall, le Marianne; e a ovest, beh, a ovest il ventaglio del dominio parte dalla Manciuria, e scende per la Corea, l’intera costa orientale cinese, l’Indocina intera fino ai confini con l’India, poi le grandi isole dell’Oceano Indiano con tutto quello che c’è lì in mezzo: terra, mare, nuvole. È una conquista impressionante, immensa. In pochi mesi, i giapponesi hanno corso come folli, raggiungendo una posizione che galvanizza Tokyo in un delirio di onnipotenza.
Altre operazioni di consolidamento del perimetro, di annientamento del nemico ed di espansione territoriale bollono in pentola, e verranno affrontate nel terzo capitolo di Arashi i cui si narrerà l’apice dell’ascesa nipponica nella seconda guerra mondiale e l’inesorabile inizio della curva discendente. “Niitaka Yama Nobore” – Scalate il monte Niikata: fu il messaggio in codice ricevuto il 2 dicembre 1941 che sanciva il via libera all’operazione aeronavale per distruggere la flotta americana del Pacifico. Ecco, nella primavera del ’42 il monte è quasi scalato dal Giappone. Il Sol Levante salirà sulla cima, ma prima di riuscire a piantare la bandiera imperiale del Sole Rosso Nascente, verrà investito dal terribile tifone.