OGGETTO: Todo modo: la diplomazia dei gesuiti ai confini del mondo
DATA: 02 Luglio 2022
SEZIONE: Metafisica
AREA: Asia
Padre Alessandro Valignano, gesuita e Visitatore generale delle missioni delle Indie Orientali, viene ricordato come maestro dell'arte del negoziato per via del suo celebre "Cerimoniale per i missionari del Giappone".
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Dopo ore interminabili scandite dalle gocce di sangue che stillavano da un taglio inciso dietro il suo orecchio, padre Ferreira cedette alle richieste dello shogun. Ferreira fu tirato fuori dal pozzo e condotto dalle guardie al cospetto del governatore Inoue Masashige, quindi gli fu ordinato di calpestare un’immagine in terracotta della Passione di Cristo. Korobu era l’unico termine della resa. Allo shogun era sufficiente che il padre gesuita appoggiasse un piede sull’immagine perché gli fosse offerta una dimostrazione evidente dell’abiura. Ferreira non poté più tirarsi indietro: appoggiò il piede e si gettò subito a terra, scoppiando in lacrime sull’immagine sacra, sotto gli occhi compiaciuti del governatore. 

La vicenda di padre Ferreira non era un caso isolato. Con l’ascesa dei Tokugawa, il Giappone aveva scelto la via della chiusura al mondo esterno, condizione che sarebbe durata fino al XIX secolo. Perché il regno diventasse a tutti gli effetti impermeabile a influenze straniere, serviva però il gesto estremo di recidere ogni legame con rappresentanze, ambascerie e mercanti delle potenze occidentali del XVI- XVII secolo. La politica del sakoku imponeva che al benché minimo sospetto di ingerenza coloniale la classe dirigente dello shogunato tagliasse ogni ponte, fossero anche opere di misericordia compiute sotto il segno della pace di Cristo. Non una traccia della presenza europea, tanto meno cristiana

«1633. Pax Christi. Dio sia lodato. Sebbene per noi ora ci sia poca pace in questa terra, non ho mai conosciuto il Giappone quando era un paese di luce, ma non l’avevo mai conosciuto così buio come è adesso. […] Gli ufficiali hanno chiesto ai nostri padri di abbandonare Dio e il suo Vangelo d’amore, ma loro non solo hanno rifiutato di abiurare, hanno chiesto di essere torturati per poter dimostrare la forza della loro fede e la presenza di Dio dentro di loro. […] Noi non abbandoneremo mai i nostri cristiani, che vivono nascosti e nella paura, diventeremo solo più forti nel Suo amore».

Lettera di padre Cristóvão Ferreira al Visitatore citra et ultra Gangem della Compagnia di Gesù nel film Silence di M. Scorsese

Si doveva forse porre un limite all’opera di evangelizzazione? Dal sangue versato dal colonialismo ispano-portoghese nel “Nuovo Mondo”, “benedetto” dalla Chiesa di Roma, i missionari non avevano tratto alcuna lezione? Quale immagine di Cristo annunciare ora ai popoli confuciani: il Cristo Risorto, splendente di potenza, o quella del Cristo Crocifisso, umiliato e sfinito? Erano tutti interrogativi che col tempo si sarebbero fatti pressanti e con cui padre Alessandro Valignano (1539-1606) dovette confrontarsi nel suo ministero di delegato del padre generale della Compagnia per le missioni delle Indie Orientali. «Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina». Ma qui la sfida appariva titanica, la scommessa troppo rischiosa. Annunciare il Vangelo in una terra tanto impermeabile era un’impresa.

Appoggiato dal padre generale Everardo Mercuriano e sostenuto economicamente dal re portoghese Sebastiano (le missioni della Chiesa in Giappone si svolgevano sotto la giurisdizione portoghese), Valignano non faceva mistero delle sue virtù intellettuali e di un certo ingegno. Responsabile delle missioni dei padri gesuiti da Capo di Buona Speranza al «paese del Sol Levante» dal 1573, il Visitatore imparò presto che un grande divario divideva quanto riferito nei rapporti dei missionari dalla realtà concreta dei singoli paesi, motivo per cui Valignano si impegnò a viaggiare molto e ad annotare ogni esperienza significativa. Partendo da Roma e passando per Spagna e Portogallo, volle prendere con sé confratelli dotti e ben preparati, ma escogitò anche una soluzione per far fronte alla penuria di missionari con la formazione di un clero locale da impiegare nella vasta provincia indiana. Lo stesso avrebbe prescritto per le missioni in Giappone. 

«Interprete giapponese: – […] La dottrina che portate con voi può essere vera in Spagna e Portogallo, ma noi l’abbiamo studiata attentamente, studiata per molto tempo e riteniamo che non abbia né utilità né valore in Giappone: abbiamo concluso che è pericolosa./ P. Rodrigues: – Ma noi pensiamo di avervi portato la verità e la verità è universale, accomuna tutte le nazioni in ogni tempo: per questo è chiamata la verità. Se una dottrina non fosse vera qui in Giappone come lo è in Portogallo, allora non potremmo chiamarla verità./ Inoue Masashige: – Credo che voi non lavoriate con le mani, padre: tutti sanno che un albero che prospera in un tipo di terra può seccarsi e morire in un’altra. Lo stesso per l’albero del cristianesimo: le foglie si seccano, le gemme muoiono».

Durante i primi viaggi da Visitatore tra Goa e Malacca, Valignano comprese che, se le missioni nelle Indie Orientali non avevano sortito i risultati sperati, era per via di un approccio inadeguato alle relazioni interculturali. Serviva un «metodo di autentica infiltrazione spirituale, intellettuale, senza armi, con perseveranza, dominio della lingua e adattamento ai costumi della terra», una strategia in netto contrasto con un altro eminente padre gesuita, Francisco Cabral. Quella di Cabral, responsabile delle missioni in Giappone e successore di Valignano nel ruolo di Visitatore, era una visione eurocentrica, fondata su una forma di «etnocentrismo dal di fuori»: non ci si preoccupava di applicare i valori e le categorie della propria cultura, persino l’habitus mentale, per spiegare le civiltà orientali. 

Valignano era di tutt’altro avviso: restare «muti come una statua per più di un anno» era presupposto di partenza necessario per capire la cultura altrui, per comprendere come allinearsi sullo stesso canale di comunicazione, come sentirsi alla pari, ossia né sopra, né sotto. Il padre gesuita elaborò e perfezionò il suo metodo di adattamento nelle tre visite che dedicò al Giappone, dove la comunità cristiana avrebbe raggiunto il numero dei 500000 fedeli su una popolazione di circa 20 milioni di abitanti nel 1614. Ebbe, inoltre, l’intuizione di imprimere una svolta all’evangelizzazione della Cina per rendere più agevole l’annuncio del Vangelo in Giappone: a Valignano non mancarono collaboratori eccellenti neppure alla Corte del Celeste Impero, dato che suo contemporaneo era Matteo Ricci, che aderì all’idea di inculturazione operando da «cinese con i cinesi». 

«Interprete giapponese: – La lingua portoghese è stato un dono del vostro padre Cabral. Mi è stato chiesto di farvi da interprete: noi impariamo la vostra lingua meglio che voi la nostra. Padre Cabral non è mai riuscito a imparare altro che “Arigatai” in tutto il tempo che è stato qui: ha insegnato, ma non ha mai imparato la nostra lingua. Noi abbiamo la nostra religione, peccato che non ve ne siate accorti. […] Voi credete che i nostri buddha siano solo essere umani».

Durante la seconda visita in Giappone (1590-1592), Valignano assistette allo scoppio delle prime persecuzioni contro i cristiani e un editto dello shogun, Toyotomi Hideyoshi, prescrisse l’espulsione dei gesuiti. Forte della convinzione che il dialogo fosse la via da percorrere con prudenza e discrezione, in anni segnati dalle lotte tra gesuiti e ordini mendicanti e dalla competizione tra portoghesi, spagnoli, inglesi e olandesi, Valignano volle fissare per iscritto ragionamenti e intuizioni che traeva dall’esperienza nell’opera Il Cerimoniale per i missionari in Giappone del 1581. Nello scritto, il padre gesuita si soffermò sull’importanza di approfondire la conoscenza di aspetti religiosi, linguistici, artistico-letterari delle diverse culture, nonché di usi e costumi, come la cerimonia del tè giapponese e il tratto etnoculturale del riso. 

Similmente, le Costituzioni della Compagnia prevedono che il modus operandi si conformi al luogo, al tempo, alle circostanze e alle persone con cui si ha a che fare. Non deve sorprendere che, tra gli oggetti di studio di Valignano, rientrassero le regole di etichetta da osservare a tavola in Giappone, la cura del corpo e persino la corrispondenza tra stati d’animo, espressioni del viso e gestualità. Ciò non toglie che, con le sue idee all’avanguardia, tra cui la condizione necessaria dell’uguaglianza razziale tra clero europeo e clero locale, Valignano si attirasse sospetti e critiche severe da parte di confratelli conservatori e detrattori di ogni schieramento: non si trattenne, ad esempio, dal dire che missionari degli ordini mendicanti, giungendo in Giappone senza la minima conoscenza delle regole del gioco di una società rigidamente gerarchica, avevano screditato il cristianesimo. Qualcuno, però, potrebbe osservare, e non a torto, che la scommessa di Valignano non fosse un’impresa senza precedenti. 

Prima di lui, Paolo di Tarso aveva accettato la sfida del confronto con sistemi filosofico-culturali che interrogavano le fondamenta del cristianesimo, specialmente il mondo greco-romano. La tabula rasa era impensabile, così Paolo rivestì valori e costumi pagani con gli elementi essenziali del Vangelo, senza per questo annacquarli: non è un caso che Valignano avesse esaminato il metodo di evangelizzazione adoperato dalla chiesa primitiva. Un sottilissimo crinale tra il relativismo culturale e l’inculturazione, tra l’universalismo e il particolarismo. Un dibattito straordinariamente attuale che contrasta con la forza bruta del colonialismo e il martirio dei cristiani che caddero vittime della politica del sakoku. Ma, a conferma della grandezza dell’eredità lasciata ai posteri, alcune tracce della scommessa dei padri Alessandro Valignano e Matteo Ricci rivivono oggi nel sogno di fraternità umana di papa Francesco

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