Decolonizing Russia: A Moral And Strategic Imperative, di primo acchito pare il titolo di uno dei tanti corsi extracurricolari offerti dai soliti atenei delle costiere statunitensi, qualche credito extra per ascoltare un anonimo lecturer mentre sproloquia di relazioni internazionali in chiave post-marxista. L’ennesimo, inutile relitto emerso dagli abissi neri del progressismo accademico. E invece, sorpresa, quello su riportato è il nome di un convegno organizzato in giugno nientemeno che dalla Commissione sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), l’organismo del governo USA deputato a vigilare sull’aderenza agli storici Accordi di Helsinki del 1975, che segnarono l’avvio di una nuova fase di distensione tra i blocchi all’apice della Guerra Fredda. Dal disgelo Ovest-Est alla geopolitica in salsa intersezionalista: la CSCE si unisce così alle «serie e controverse discussioni su come fare i conti con il fondamentale imperialismo della Russia, e sul bisogno di decolonizzarla per farne uno stakeholder della sicurezza e della stabilità europee».
Cosa si debba intendere con «decolonizzare la Russia» è presto detto: smembrare la Federazione Russa, mettervi fine non solo come entità territoriale e politica, ma addirittura storica e culturale. Insomma farla sparire. È questo, in sostanza, il contenuto della miriade di articoli che da mesi vanno affollando le colonne delle principali testate estere. Un crescendo guerresco alla base del quale sta la nozione secondo cui il moderno Stato russo, in quanto risultato di un’espansione territoriale che ha inevitabilmente inglobato gruppi etnico-razziali eterogenei sotto un’unica, e non di rado opprimente, autorità, è in definitiva illegittimo. La Russia sarebbe l’ultima, vera potenza coloniale di un mondo altrimenti addivenuto alla piena autodeterminazione wilsoniana; che sia soprattutto la stampa anglosassone a promuoverla non può che far sorridere ma, facili ironie a parte, questa tesi merita una riflessione approfondita.
È noto il perdurare in taluni circoli diplomatici, americani e non, di un’ostilità antirussa che i più immaginano relegata al mondo passato dei due poli. Sebbene desovietizzata, in questi ambienti Mosca viene ancora percepita come un avversario strategico ed ideologico di primo piano, forse più della Cina comunista, sulla cui crescente influenza gli USA sembrano ancora disposti a chiudere un occhio in nome degli affari. L’attuale conflitto ucraino rappresenta in quest’ottica un’occasione irripetibile per regolare i conti rimasti aperti dopo la caduta del Muro, e sbarazzarsi del nemico di sempre in vista del sicuro scontro col suo ingombrante vicino. Da qui discende la tendenza, a dire il vero assai diffusa, ad interpretare l’abuso del lessico tipico dei Social Justice Warriors come un tentativo furbesco di (ri)vendere il neoconservatorismo dell’era Bush alla moderna borghesia manageriale gauchista che detiene il monopolio della burocrazia pubblica e privata — e della quale non a caso fanno parte anche i relatori della conferenza citata in apertura.
I costanti richiami al postcolonialismo e alla decostruzione derridiana sarebbero dunque nulla più che orpelli retorici con cui agghindare l’ideologia appartenuta in origine al triumvirato reazionario formato negli Anni ’90 da Newt Gingrich, Mitch McConnell e John Bolton, e traghettarla nella dialettica geopolitica contemporanea attraverso quegli stessi ambienti woke che pure sono il prodotto diretto della New-New Left, vera e propria nemesi illo tempore degli alti papaveri repubblicani. Si tratta di una lettura non priva di fondamento: McConnell tiene ben salde le redini del GOP, di cui è capogruppo al Senato, mentre non più tardi del 2019 Bolton prestava servizio come Consigliere per la Sicurezza Nazionale. E che però risente nondimeno dell’avversione quasi paranoica al pensiero neocon scaturita dal disastro mediorientale d’inizio secolo.
Per quanto comprensibile, l’idea di un eterno ritorno dei fautori della Global War On Terror spiega solo in parte la seconda Primavera (chi vuol intendere intenda) sperimentata dall’avventurismo a stelle e strisce sotto l’amministrazione Obama. Laddove la postura muscolare assunta dagli Stati Uniti dopo l’attentato alle Torri Gemelle rispondeva se non altro ad una limitata gamma di interessi concreti, la linea adottata a partire dal 2011 è apparsa fin da subito ben meno vincolata a considerazioni realiste, spesso abbandonate in favore di un moralismo inedito — Obama amava parlare di una «parte giusta della Storia» — elevato da una dimensione nazionale ad una globale. Alla logica dello scontro di civiltà, che era stata in precedenza la cifra della policy USA in Asia Minore, è subentrata una nuova e più evoluta iterazione dell’interventismo umanitario inaugurato da Bill Clinton; all’impiego diretto della forza è stata affiancata l’azione trasversale di think tank, ONG e media, il cui sapiente impiego ha prodotto nel tempo risultati equiparabili a quelli di norma ottenuti con le bombe, quando non migliori.
Lungi dall’essere una confutazione di quanto detto finora, il fatto che diversi falchi storici — ricordiamo su tutti Victoria Nuland, eminenza grigia del Dipartimento di Stato recentemente tornata alla ribalta — abbiano mantenuto inalterato il proprio potere tra i corridoi di D.C. nonostante l’evidente cambiamento della cornice entro cui sono chiamati ad operare vale piuttosto come ulteriore riprova della teoria di fondo. Ovvero, che nell’arena della politica mondiale neoconservatorismo e wokismo sono funzionalmente identici. Entrambi poggiano su weltanschauung essenzialiste, ed entrambi sono accomunati da un incrollabile senso di superiorità; il neoconservatorismo ha però finito per incontrare una barriera insormontabile nel legame col modello politico e socioeconomico cui faceva riferimento, che proprio perché distintamente americano si è rivelato impossibile da replicare con successo altrove. Non a tutti piacciono la Coca Cola, i blue jeans e la democrazia a due partiti, soprattutto quando glieli si impone in punta di baionetta.
Il wokismo, per contro, non crede di tipizzare una civiltà fra tante, ma la sola possibile; non ha né vincoli né confini; si concepisce come, e vuole essere, un fenomeno universale. È questo carattere totalizzante che gli ha infine permesso di occupare le strutture politiche, economiche e mediatiche patrie, soppiantando tutti gli orientamenti ad esso alternativi. L’assorbimento del sistema USA è pressoché completo; esaurito lo spazio nel Paese d’origine, il processo va ora ripetendosi su scala planetaria. Alla stregua di un virus, il wokismo esiste per replicare sé stesso all’infinito, e ciò ne fa la perfetta ideologia imperiale, votata per natura all’espansione perpetua: per questo vi hanno aderito, non di rado in maniera entusiastica, dei personaggi altrimenti a dir poco lontani dai suoi presupposti filosofici marxisti. Un matrimonio di convenienza tra la vecchia guardia degli Esteri — “The Blob” — e le nuove leve millennial, di cui il pasticcio ucraino è la prevedibile consumazione. Finché morte non li separi, ed è destino che avvenga più prima che poi, dato il notevole divario demografico esistente tra i due consorti.
Venuta meno l’influenza moderata dei Cold Warriors convertiti, a tenere le redini della diplomazia (e delle forze armate) statunitensi sarà una classe dirigente di true believers, molto più radicale e aggressiva. Veri e propri zeloti, sotto l’egida dei quali ci si può ragionevolmente aspettare un’intensificazione repentina di questa schizofrenia incipiente, sospinta dal definitivo scollamento tra Stato-apparato e identità nazionale. Gli USA cesseranno di essere un Paese nel senso tradizionale del termine per divenire un soggetto fluido alla Zygmunt Bauman, attraverso cui veicolare urbi et orbi il Vangelo woke in un surreale ritorno all’interventismo missionario del tardo Ottocento. I prodromi delle crociate venture si possono già intravedere nei numerosi programmi dedicati da USAID, l’agenzia federale per lo sviluppo internazionale, alla promozione dell’uguaglianza di genere e dei diritti LGBTQ in aree retrive come l’Afghanistan: nella Kabul occupata era stata addirittura aperta una facoltà universitaria di Gender Studies.
Quanto al dossier cinese, è plausibile che l’assetto illiberale della Repubblica Popolare divenga in futuro il perno del contrasto con gli Stati Uniti: lo suggerisce tra le altre cose la crescente insistenza di Washington sulla drammatica condizione degli Uiguri, minoranza di fede islamica che secondo le Nazioni Unite Pechino sta sottoponendo ad un genocidio in piena regola, e dell’ex concessione britannica di Hong Kong, da anni teatro di durissime repressioni. Non è altresì da escludere una ricomparsa della mai sopita questione tibetana, o un tentativo di declinare la storia del Dragone secondo la medesima retorica anti-imperialista oggi brandita contro la Russia di Putin. Con un po’ di fantasia riesce facile immaginare che perfino la conquista della Cina Han da parte della minoranza Manciù, avvenuta nel XVII secolo, verrebbe presentata come prova della vocazione vessatoria del Regno di Mezzo.
Se il wokismo riuscirà infine ad impadronirsi anche del gigante asiatico resta da vedere. Il Partito Comunista, avvezzo alle scalate istituzionali e pioniere di molti dei metodi di cooptazione oggi patrimonio degli SJWs, sembra convinto di no, e anzi scommette sull’implosione di un’America sempre più frammentata. Comunque, Xi Jinping e i suoi sanno di dover giocare d’anticipo ed evitare che il loro Paese si ritrovi tagliato fuori dal resto del mondo, isola solitaria nell’oceano woke; la recente svolta neoconfuciana inaugurata dal PCC va interpretata proprio come un tentativo di porsi in aperta contrapposizione col culto del progresso. La Cina nata da una rivoluzione va scoprendosi potenza conservatrice, mentre l’Occidente cerca con piglio gattopardesco di rovesciare l’ordine vigente per rimanerne egemone: è su questo paradosso che si combatterà la prossima Guerra Fredda.