Pronunciare, oggi, la parola virilità, è come suonare una blue note. Quasi stonato, è un lemma connotato da una certa ambiguità tonale e al contempo avvolto da un’aura di nostalgia. Ha il sapore di epiche gesta e doti cavalleresche, di film noir et blanc, ma serba in sé anche il retrogusto ferroso del potere, l’inturgidimento del cratos, è puntinato di spasimi di piacere. Ma a chi, di preciso, vada riferito il termine – nell’era della società sessualmente neutra – non è più cosa scontata.
Oggi, sono solo gli uomini ad essere virili, o anche le donne?
Ad avanzare la questione, all’interno del narcotizzante dibattito sulla parità di genere, è Harvey C. Mansfield, professore di Harvard e filosofo politico, nel suo saggio Manliness, appena pubblicato in Italia da Liberilibri come Virilità. Se Humphrey Bogart in Casablanca, con il suo volto spigoloso e il suo iconico trench coat aperto e svolazzante, può essere considerato un esempio di virilità, è possibile dire lo stesso, ad esempio, di Margaret Thatcher?
Il concetto di virilità è storicamente attribuito ad uno solo dei due sessi, pertanto – questa la riflessione da cui prende le mosse l’autore statunitense – lo stesso, oggi, potrebbe fungere da ostacolo alla neutralità di genere, difendendo, la nozione stessa, gli stereotipi fra i due. Ma asserire che sia possibile accordare l’idea di virilità anche all’universo femminile, ci farebbe ricadere in quel paradosso progressista che vuole eliminare dalla società le differenze sessuali, imponendo però di trasformare le donne in uomini.
La riflessione di Mansfield si tramuta quindi, di fatto, in una questione terminologica. Come risolverla? Giusto per fare degli esempi. La Iron Lady britannica, negli anni di governo, aveva potuto contare, oltre che sulle sue innate doti di leadership, anche su una sensibilità prettamente legata alla vita femminile. La signora Thatcher, “la figlia del droghiere”, al contrario dei suoi stessi colleghi conservatori, aveva infatti una precisa idea dei prezzi di mercato, giacché, come tutte le donne, almeno dell’epoca, aveva in mano le redini dell’organizzazione domestica, spesa compresa.
Lady Macbeth potrebbe apparire come una donna “virile” – secondo la provocazione lanciata dal professore americano – ma in realtà è solo una donna che, con una copiosa dose di persuasione femminile, fa leva sulla virilità del marito per indurlo ad uccidere. Anche un’altra eroina shakespeariana, Cleopatra, potrebbe essere definita forse addirittura più virile dello stesso Antonio, ma la verità è che entrambi, invasati dalla passione, reagiscono agli eventi politici che fanno da sfondo al dramma in una maniera che, declinata al maschile, si può facilmente definire come virile ma che al femminile non trova un suo corrispettivo di pari potenza linguistica.
La soluzione dunque potrebbe essere duplice: definire la virilità femminile in un modo differente, come assertività femminile ad esempio e, contestualmente, smettere di pensare alla femminilità come a un qualcosa che profuma di effeminatezza, una coreografia fatta di mollezza, isteria, debolezza, reazioni uterine, ormonali.
Del resto, la tanto agognata neutralità di genere non rende comunque le donne più tolleranti verso gli uomini privi di virilità. Mentre la società si femminilizza progressivamente e il maschio si devirilizza gradualmente – onde evitare d’esser parodiato come zotico e additato come predatore sessuale – la donna, al pari d’un navigante che ha smarrito la propria bussola, va alla spasmodica ricerca d’un “maschio”, uomo e gentiluomo. La vittima sacrificale dei risvolti perversi del femminismo moderno è infatti la donna media, borghese, la fautrice della nuova democrazia domestica che ha trasformato l’uomo in valido collaboratore casalingo salvo poi lamentarsi, nell’intimità d’amicali ginecei, della neutralizzazione d’ogni tensione erotica. Del resto, non dev’essere il massimo, arrivati alla sera, l’idea di giacere accanto a un uomo che ha appena finito di lucidare il parquet del salotto, sembrerebbe quasi di andare a letto con la colf.
Lo stesso autore, d’altronde, non privo d’una certa dose di grazia, dimostra di non disdegnare affatto l’idea di appartenere alla specie del “porco maschio sciovinista” osteggiato dal femminismo ancien régime ma al contempo, da buon americano, apre il dibattito sulla virilità come ostacolo alla neutralità di genere – pensiero per il quale, da ciò che trasuda dalle sue pagine, prova chiaramente un certo raccapriccio – attualizzando così un concetto che rischierebbe ormai di scivolare in un burrone anacronistico. “Il vero problema della virilità non è che non esiste; perché esiste, ma è disoccupata nella società contemporanea” asserisce Mansfield, sostenitore di quella tesi che vede il progresso moderno accanirsi contro la virilità in quanto ostacolo a quel controllo razionale che oggi cerca di affrancarsi dal sé individuale e irrazionale. Se infatti il liberalismo moderno aspira alla nascita di uno Stato razionale, cioè al coronamento di quella lunga tradizione di pensiero, avviata da Machiavelli – che peraltro accusava la sua epoca d’essere effeminata – e culminata nell’opera di Hegel, che si è impegnata a promuovere il controllo della ragione sulla natura e sull’esistenza umana, lo Stato stesso può fare tranquillamente a meno dell’assertività virile. La virilità infatti cerca il dramma, predilige tempi di guerra, mentre la società moderna elimina il conflitto, ogni tensione naturale volta alla lotta, all’autoaffermazione.
Secondo l’autore di Virilità – il cui excursus sul tema va da Tarzan a Tom Sawyer, passando per Omero, Giulio Cesare, Hemingway, fino a Platone e Aristotele – la società contemporanea ha sostituito l’uomo virile con quello borghese, il cui emblema culmina nella figura del “professionista”, vero modello di riferimento per la neutralità di genere, un uomo che ha la stessa formazione dei suoi colleghi, viene giudicato sulla base di criteri oggettivi, può essere sostituito da chiunque, donna o uomo, la cui virtù è la “calma professionale” e non la passione virile, che si comporta nei confronti altrui con “cortesia professionale”, non con cavalleria. Il devirilizzato all’ennesima potenza è infatti il meritocratico, uomo non virile per vocazione, in quanto pretende che il sistema istituzionale, pubblico o privato, riconosca e promuova il proprio merito, senza dover lottare per rivendicarlo.
Pertanto, quali possono essere i risvolti di una società in cui la virilità risulta disoccupata? Semplice, i due eccessi opposti, ossia quello di un’innaturale e ossimorica mascolinità femminea o di un’esasperata mascolinità “aggressiva”, lasciata crescere allo stato brado. “Lasciata senza un’occupazione, la virilità diventa pericolosa perché si manifesta sempre in eccesso o in difetto” chiosa infatti il professore di Harvard. E se le donne, nuovo esercito del capitalismo – per dirla alla Zemmour – si sono sempre più appiattite sulla figura maschile, hanno al contempo femminilizzato non solo la società, ma anche le sue istituzioni, con risvolti che ancora oggi risultano in parte inediti, inesplorati.
Una domanda a cui diversi uomini hanno provato a dare risposta, a partire da Aristofane, che nel 392 d.C., con la sua commedia Le donne al parlamento – come ricorda Mansfield – metteva in scena questa fantasia al potere, dipingendo le donne di Atene, guidate dalla generalessa Praxagora, come molto più democratiche degli uomini, più conservatrici e meno inclini alla corruzione, a finire a Marcel Gauchet, che nel suo saggio, La fine del dominio maschile, tratteggia una nuova realtà, una sorta di interregno in cui i parametri istitutivi della vecchia società contraddistinta dal predominio maschile vanno svanendo e l’aspetto della futura società, più femminilizzata, è ancora in cerca di un equilibrio permanente. Ma l’epilogo di questo paragrafo di storia moderna è tragicomico, dal declivio al contempo mesto e pecoreccio. Sul viale del tramonto, insieme alla virilità ormai in crisi, scompare lentamente anche il gentiluomo e con lui il fascino dell’uomo autorevole, sicuro di sé, ma anche inquieto, con le sue paure e i suoi tentativi di domarle, con i suoi atti di galanteria che le donne di oggi tendono a scacciare via come fastidiosi insetti.
Proprio qualche giorno addietro, una vicenda dai tratti decisamente grossier è rimbalzata sui giornali. La moglie d’un calciatore, al termine di una cena in un ristorante milanese, con la stessa ingenuità d’una pretty woman davanti ad un piatto di escargots, ha palesato sui social tutta la propria indignazione per l’usanza di distribuire alle donne i blind menu – classici menù di cortesia senza prezzi riservati agli ospiti e alle signore – fomentando così la diatriba sessista. E se volesse pagare lei? Così si interroga lady parvenu, novella maître a penser del proletariato intellettuale. Potrebbe farlo tranquillamente, nulla lo vieta, se non quel complesso di norme in uso nell’high society detta etichetta, evidentemente sconosciuta alla signora in questione. Un tempo ci si sarebbe alzate per andare a incipriarsi il naso, oggi si denuncia volgarmente sui social la galanteria maschile.
Canterebbe oggi la ruvida voce di Rino Gaetano: Resta, vi(ri)le maschio, dove vai?