Qualche giorno fa hanno dato in tivù Videodrome: vederlo è sempre istruttivo. C’era di mezzo l’anniversario. David Cronenberg comincia a scrivere Videodrome quarant’anni fa, nel gennaio del 1981; inizia a girare a fine anno, il film è in sala nel 1983. Il successo di Scanner gli consente di estorcere ai produttori – la Canadian Film; la distribuzione è Universal – quasi sei milioni di dollari. Il film risulterà, in sala, un disastro: recupera poco più di due milioni di dollari; per la stampa è “audace”, “caotico”, “surreale”, “inquietante”, “confuso”. Tutti, per lo più, si concentrano sugli effetti speciali – effettivamente straordinari, ancora oggi – ideati da Rick Baker. Il film propaga una profezia apocalittica; una contro-utopia agghiacciante. Che si è realizzata.
Videodrome è una violenta analisi sul potere della televisione. Max Renn, il protagonista che specula col porno in tivù, conosce per caso, appunto, “Videodrome”, programma occulto, di culto, che annienta le distanze tra reale e virtuale, tra video e verità. Il film procede per allucinazioni – un repertorio micidiale: dalla televisione che si gonfia e si muove alla pistola che s’incardina nella mano di Max – fino all’atto finale, estremo. In fondo, dice Videodrome, ciò che è reale non è che un’ipotesi, un’opinione, la vera realtà è ciò che appare in video. Non esiste la carne, ma il visivo; non esistono le cose in sé ma le immagini che ci facciamo delle cose, che le fasciano; tutto è contraffatto tranne la recita catodica.
Ogni volta che, da allora, viene mandato in onda Videodrome, le citazioni si sprecano – ma sono sempre quelle: The Medium is the Message di McLuhan e La società dello spettacolo di Guy Debord, solo che sono libri dei tardi Sessanta… – e, allietata da un sospiro, la conclusione è sempre la stessa: proprio così, ha ragione lui. Nel 2017, per dire, il Moma ha realizzato una piccola rassegna intorno a Videodrome, e su “Little White Lies” è uscita un’articolessa – interessante, per carità – per spiegarci “come mai Videodrome è più necessario ora di allora”. “Fin dall’inquadratura iniziale, Videodrome immagina un futuro prossimo in cui la tecnologia si è infiltrata in ogni aspetto della vita”, scrive Adam Woodward. “Videodrome afferma senza mezzi termini che il prossimo stadio della nostra evoluzione sarà disumanizzante. Nel bene o nel male, la spaventosa visione di Cronenberg inizia a diventare realtà. Lunga vita alla nuova carne”. Disumanizzazione. Non transumanesimo.
Benché il televisore sia ormai un cimelio di antiquariato, noi viviamo nel visivo. Se non c’è qualcuno che ci vede, che ci legge, che ci celebra foss’anche insultandoci, semplicemente non esistiamo. Gli atomi sono stati sostituiti dai pixel, il mito dalla fiction – quando Cronenberg manda al cinema Videodrome, George Lucas ha terminato il primo ciclo di “Star Wars”, eccellenza di un mondo fantastico televisivo –, la fantasia individuale, audace e sovversiva, è annientata dalla fantasmagoria di massa. Non sappiamo immaginare altro oltre l’immaginario video che ci ha razziato il cervello: la visione è sostituita dal visivo, la vista ha preso il sopravvento su tutto, abbiamo corpi tempestati di occhi, per scoprirci, infine, invisibili e ciechi. Al posto della pistola di Max, nella nostra mano s’è incardinato il cellulare: escrescenza orrenda? Piuttosto, il sunto esatto della nostra anima, il punto di scolo, ennesima teologia, esegesi dello spirito.
In Videodrome Cronenberg non denuncia soltanto – pia, millenaria rivolta – lo straordinario strapotere della tecnologia. Intanto, ci dice due cose. Primo: l’uomo è attratto, da sempre, dal sangue, dalla violenza, dal sopruso, non può farne a meno. Macellati gli dèi, terminato il rito, lasciato solo alle sue paure, alle sue ataviche voglie, l’uomo esaspera questa naturale propensione al sesso e al sangue. Ne anela, ne è sedotto nelle sue molteplici foie. Secondo: ridotto nel covo del suo appartamento, nido perverso nella metropoli oceanica, l’uomo non vive, guarda. Non vuole vivere. Vuole guardare. E essere guardato. È un guardone e allo stesso tempo un narcisista. Eccola la furibonda potenza della tivù, del video, del visivo: guardo e sono guardato. Cosa facciamo tutto il giorno davanti a uno schermo, barbari automi, d’altronde? Guardiamo, siamo guardati.
Videodrome, di fatto, è l’apoteosi gnostica. Gettati in questo mondo di lordure, prigionieri del corpo, inventiamo un altro mondo, deleghiamo la carne all’etere, abitiamo l’immortalità digitale, infima illusione. “Il mondo è un’orrida tana di bestie selvagge”, ansima il valentiniano Eraclone, scagliandosi contro il crudele Arconte che ha creato questo pianeta, parziale e corrotto. Attraverso la sapienza – incarico delegato alla tecnologia – l’uomo si eleva dal mondo, incenerisce le scorie carnali, agguanta la vita autentica: “Voi siete immortali fin dall’inizio, siete figli della vita eterna… quando dissolvete il Cosmo senza dissolvere voi stessi, siete padroni assoluti della creazione e della corruzione”, dice Valentino, sommo maestro gnostico, citato da Clemente di Alessandria. Il sogno del fondatore della “Chiesa Catodica”, Brian O’Blivion, in effetti, è quello di tradurre se stesso in svariate registrazioni video, che ne garantiscano l’immortalità.
Questo incubo visivo – privo di visione – dove la carne è martoriata, torturata, col piacere di corrompere il corrotto, insegna che i segni, tutti, sono tenaglia, dottrina del terrore. La storia è vecchia, millenaria: nel ‘mito di Theuth’, narrato nel Fedro, Platone stigmatizza la ‘tecnica’ della scrittura, il suo abuso. Quando Theuth – che ha inventato “il numero e il calcolo, la geometria e l’astronomia, il gioco del tavoliere e i dadi”, cioè i segni matematici, la comprensione dei segni celesti, l’azzardo, ritenendo il vero, poiché è un dio, pari al gioco, sparigliando i confini tra superstizione e misura, caos e cosmo – porta in dono al re egiziano Thamus l’alfabeto, idea rivoluzionaria, viene messo in sospetto.
“Oh Theuth, sommo esperto di tecniche, altro è la capacità di concepire una tecnica, altro è giudicare il danno e il vantaggio che essa arreca a chi la adopererà. Quello che tu, in qualità di padre delle lettere dell’alfabeto, ora dici per affetto nei loro confronti, è il contrario di ciò che esse sono in grado di fare. Perché indurranno l’oblio nelle anime di quanti le avranno apprese, per mancanza di esercizio della memoria; infatti affidandosi alla scrittura, essi richiameranno alla mente non più attingendo all’interno di se stessi, ma a segni esterni”.
Platone, Fedro
La scrittura si guarda – ci si guardi da essa! –, si legge; ma da essa si è guardati, guidati, letti. Il narcisismo – scrivo di me – arreca claustrofobia – sono prigioniero di ciò che di me ho scritto. Siamo detti dalle scritture visive degli altri, che dettano i nostri passi, infine il nostro destino. Eppure, dovremmo essere latitanti tra le scritture, corsari nella rincorsa della nostra identità, evanescente. L’ideologo del “Videodrome”, la vita televisiva, si chiama O’Blivion, oblivion, oblio; la scrittura, secondo Platone, conduce all’oblio di sé. Il transumanesimo si è realizzato, ed è ben altro dal trasumanar di Dante: chi vuole esaltare l’uomo, finisce per ucciderlo. Di chi stiamo interpretando il sogno?
Vivere senza lasciare segni, senza essere segnati – o meglio, segnati da tutto, benché ignifughi al narcisismo, in fuga dalle mediazioni. Certo, è assurdo liberarsi del mezzo telematico, dei computer potenziati dal virus: non è possibile scegliere di farne a meno, sono un obbligo perfino scolastico, una necessità lavorativa. Non sapendo elaborare cose, ne siamo i devoti servi. Supini alla tecnica, la sorbiamo credendo di poterla controllare. Ma ogni tanto è bene radunarsi intorno a un fuoco, raccontare una storia, lasciare che le parole si dilatino come la mano del falò, in uno spazio incontaminato, dentro di noi. Dopo aver visto Videodrome vado a fare un bagno al mare: è sera, la nebbia mi circonda. L’orizzonte dà le vertigini: non percepisco forme, né il punto in cui il mare sfocia nel cielo. Tutto è equivalente e grigio. Sembra di essere inconsistenti, di precipitare. O di stare dentro un video. Il segnale è muto. Qualcuno vive al mio posto.