I Russi hanno fallito; si sono impantanati nel fango ucraino. Putin è impazzito; solo chiuso in un bunker sotto il Cremlino licenzia generali e muove armate a corto di benzina come l’Hitler de La Caduta. La Federazione Russa è isolata, sanzionata; il rublo in picchiata, la Borsa sospesa. I soldati, uccisi a migliaia, disertano, bucano i serbatoi dei tank per non combattere. Le piazze di Mosca e San Pietroburgo protestano; gli oligarchi tornati poveri – novelli boiardi – cospirano per abbattere lo zar fuori di senno. Micidiali droni turchi e tradizionali molotov fanno strage delle colonne corazzate lasciate allo sbaraglio nella gelida pianura ucraina. Le sanzioni provocano il declassamento del ranking mondiale e l’esclusione da ogni competizione sportiva e culturale. I grandi marchi chiudono i loro negozi; RT e Sputnik vengono di colpo oscurate. L’Europa si è finalmente unita e la Nato è cerebralmente risorta. Le brigate internazionali affluiscono in massa con rifornimenti e nuove armi. Putin ha perso; si è bruciato. Il mondo l’ha condannato; è caduto nella trappola o, forse, si è semplicemente rivelato per quello che è sempre stato: un folle sanguinario. Judoka scacchista, all’ennesima partita, ha fatalmente sbagliato. Un macroscopico irrimediabile errore. Ora è chiuso in un angolo. Abbiamo, in fondo, già vinto. Basta solamente aspettare.
Ma se, invece, ci stessimo sbagliando? Se, per caso, fosse già stato chiuso in un angolo per otto lunghi anni? E se questa mossa estrema e le sue inevitabili conseguenze fossero state a lungo meditate e dolorosamente accettate? Perché, dall’alba del 24 febbraio, quando i T-72 sono penetrati in territorio ucraino siamo immersi nella più fitta “fog of war”; cortina avviluppante che nemmeno satelliti e spie riescono a districare. L’invasione d’altronde pareva ogni giorno imminente, sorta di bellico calendario dell’avvento, ma allo scoccare dell’ora irrimediabile nulla accadeva. Grande è lo shock quando si verifica qualcosa che ormai pareva archiviato, sorpassato dalle soffiate. Perché proprio quel giorno? Cosa passa nella testa dell’autarca? “Un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma” – diceva Churchill della Russia; così, un brivido corre lungo la schiena al solo pensiero che, nella prima guerra interamente veicolata attraverso smartphone, potremmo cadere vittime della nostra stessa propaganda. Se i nostri stessi mezzi di comunicazione venissero rivolti contro di noi, illudendoci, rassicurandoci della debolezza del nemico; del suo destino già segnato? Il bando dei canali russi e la lista maccartista di “giornalisti collaborazionisti”, pericolose quinte colonne attive nelle retrovie europee, sembrano reazioni fin troppo isteriche. Un vincitore si comporterebbe con più lungimiranza e classe. Ed allora s’insinuano i primi dubbi; le prime crepe della narrazione.
Follia. L’aggressione impulsiva, da malato mentale, stride con una campagna che pare premeditata addirittura da anni. Lo confermano i metadati del video-discorso e pure i movimenti bancari degli oligarchi. Lo ammette perfino la Cia. Certo, probabilmente confidavano che Zelensky fuggisse al primo rombo d’aereo e che parte dell’esercito ucraino si rivoltasse; ma non s’inizia una guerra senza un piano B.
Guerra lampo. Dopo appena 48 ore la blitzkrieg è già fallita; ma quella “originale” del 1940 durò mesi e perfino l’US Army impiegò venti giorni per entrare a Baghdad. Lo schieramento iniziale inoltre era pressoché identico in numeri – 200.000 unità -; assolutamente insufficiente per conquistare armi in pugno una nazione. Sembra, infatti, che la tattica sia quella di avanzare fin dove possibile per poi accerchiare le piazzeforti e le città ucraine, minimizzare le perdite. Gli stop alle operazioni per i colloqui inoltre mal si conciliano con una spietata guerra lampo.
Attacchi aerei e droni. Nelle ore immediatamente precedenti all’invasione l’aviazione russa ha preso di mira aeroporti, depositi e stazioni radio militari, assicurandosi – pare – il dominio dell’aria. Non ci sono però state migliaia di sortite come la dottrina Nato ci ha abituato. Probabilmente alcuni micidiali droni turchi (Bayraktar TB2) sfuggiti all’attacco iniziale hanno compiuto delle sortite letali; ma la chilometrica colonna di mezzi corazzati alle porte di Kiev ne sarebbe facile preda. Resta di difficile comprensione, inoltre, la scelta di non colpire la rete elettrica e di conseguenza internet. Vogliono, insomma, che si “veda”.
Armi. Mancano totalmente all’appello le armi più sofisticate a disposizione dell’esercito russo (caccia di quarta generazione; T-14, droni, lanciarazzi termobarici) e perfino le truppe più esperte (ceceni, gruppo Wagner, reduci siriani). Non propriamente una scelta da dittatore all’ultima spiaggia.
Dinamica dell’operazione. Osservando i movimenti dei tre gruppi d’armata che avanzano su direttrici diverse appare chiaro come il più consistente (gruppo O?) procede lungo i due lati del Dnepr per assediare la capitale; il secondo formato prevalentemente da miliziani del Donbass avanza lentamente verso ovest, investendo Kharkiv; mentre il terzo (gruppo Z?), supportato da sbarchi lungo le coste, ha di slancio superato la Crimea per poi aprirsi a semicerchio in due colonne per assediare Mariupol e Odessa. Inutile sottolineare come l’unione dei due gruppi, dopo la caduta di Kherson e di Zaporizhzhia, intrappolerebbe in una sacca gran parte delle forze nazionaliste e il battaglione Azov là dislocato.
Sanzioni e isolamento internazionale. Le più severe misure di ritorsione mai applicate dall’Occidente – con l’esclusione del gas – sembrano poco intimorire Putin. Probabilmente sperava in una minore unità d’intenti? Può essere ma saranno state non solo messe in conto ma, perfino ponderate. Controllando l’Ucraina la Russia si assicura in un colpo un terzo della produzione del grano mondiale e l’80% dell’olio di mais. Inoltre acquisisce indispensabili materie prime: ferro, carbone, alluminio, il nichel – essenziale per le batterie delle auto elettriche – e il palladio – con cui si realizza il gas neon per produrre i microchip; per non parlare di eventuali ritorsioni sul gas. Nel gasdotto Yamal – che rifornisce direttamente la Germania – ieri il flusso è stato fermato. Alla luce di queste risorse l’isolamento internazionale è geograficamente e produttivamente un’utopia. Di fatti alla risoluzione di condanna dell’Onu nessun Paese dei Brics si è esposto, né i Paesi del golfo e neppure la Turchia e il Pakistan. Più di tre miliardi di persone negli Stati economicamente più performanti. E gli oligarchi? Reciso il cordone che legava la Russia all’Occidente, i loro affari si sposteranno ad est. Nella nuova Eurasia, l’Europa diventerà appendice dell’Asia?
Guardando in quest’ottica la cartina globale, staccandosi per un attimo dagli schermi degli smartphone e dai tg nazionali, non pare più così imminente il crollo dell’armata rossa. Altri a suo tempo l’hanno pensato e perfino un atterrito Macron, dopo la telefonata voluta dallo zar, ha ammesso che “il peggio deve ancora arrivare”. Il rischio è di trasformare l’Ucraina smembrata in una nuova Siria. Sicuri di potercelo permettere?