L'editoriale

Viaggio in Etiopia

Domandarsi ossessivamente che senso abbia avventurarsi ai confini del mondo nel secolo anti-letterario, anti-epico, anti-eroico, per eccellenza.
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Quando iniziai questa avventura, chiesi consiglio (e benedizione) a persone con una lunga e profonda esperienza sul campo. Scrittori, missionari, giornalisti, corsari. Tutti mi dicevano che sarebbe stato quasi impossibile cominciare, nessuno però mi aveva detto quanto sarebbe stato difficile smettere. Viaggiare in aree di crisi, di frontiera o di guerra, produce in corpo una sostanza naturale stupefacente che si chiama “adrenalina”. E più accumuli timbri sul passaporto, consumi le suole delle scarpe, custodisci ricordi, vivi il pericolo, riempi il cuore di incontri con donne e uomini straordinari, e più vuoi sublimare ogni giorno che passa. È come una droga, credo. Ti proietta altrove, ti porta via dalla quotidianità, crea dipendenza. Ti fa sentire immortale; perdere il contatto con la realtà; vivere senza mai guardarti indietro e dentro. Poco a poco, come se nulla fosse, si trascurano gli affetti, le amicizie, i riti, gli appuntamenti, le “piccole” cose che fanno grande la vita. Diventi uno straniero di te stesso, un alieno per gli altri. E non c’è un giorno in cui non pensi di tornare indietro, via. Rifarei tutto, perché alla fine sono sempre qua.  A salvarmi credo sia stata in parte Roma. Una città che ti seduce, ti ipnotizza, ti inghiotte, ti sputa nell’eterno ritorno dell’uguale. Se fossi nato e cresciuto altrove mi sarei trasferito probabilmente nel Vicino e Medio Oriente, come stavo per fare, dove tutto inizia e tutto finisce oppure dove in un attimo tutto può iniziare e finire se ci si trova nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Come è accaduto ad amici, colleghi, conoscenti. Alcuni si sono sposati altri sono stati rapiti, altri ancora sono stati uccisi. Non siamo mai al sicuro, non siamo immortali. Ce lo ha detto persino l‘epidemia nella nostra società tutt’altro che bellica.

Improvvisamente anche da noi si è fermato il tempo, sigillato lo spazio. La natura si è riappropriata del suo corso, gli uomini e le donne della loro vita, consapevoli che la morte esiste, che provoca sofferenza e dolore. Per tanti, come per il sottoscritto sono cambiate tante cose, abituato da quasi cinque anni a imbarcarmi di continuo, da un aeroporto all’altro, a volte per diverse settimane, da un Paese all’altro, con pochi soldi in tasca, e a volte molta paura. Dio solo sa quante cose sono cambiate. È passato un anno ormai dal mio ultimo viaggio (in Libano). Era il 9 marzo del 2020 quando atterrai di ritorno all’aeroporto di Fiumicino. Il deserto, un’istantanea, il preludio. Da lì a qualche giorno sarebbe iniziato il “lockdown” su scala nazionale. La fine di un capitolo. Nulla sarebbe stato più come prima. Bisogna avere il coraggio di confessarlo, ammetterlo anche a sé stessi. Non credo ne usciremo migliori da questa situazione surreale, anzi.  

Eppure per alcuni, pochi privilegiati come me, è stata la possibilità di un’isola, di riconquistare il tempo, di occupare uno spazio, di costruire dei legami, di rafforzare delle radici profonde. Questo viaggio non è un ritorno alle origini, piuttosto “una riconoscenza al viaggio” che mi ha fatto diventare, credo, un uomo. Questi mesi ci ho pensato tanto, troppo. E in realtà già diverse settimane prima della chiusura degli aeroporti mi domandavo ossessivamente che senso abbia ancora avventurarsi ai confini del mondo. Il Ventunesimo secolo è il secolo anti-letterario, anti-epico, anti-eroico, per eccellenza. Personaggi come Thomas Edward Lawrence, Amedeo Guillet, o Henry de Monfreid oggi sarebbero degli incompresi, persino etichettati come criminali o peggio dei perseguitati: dalla legge, dagli algoritmi, dai piccoli burocrati, dai cronisti falliti, invidiosi, frustrati. Occorre prenderne atto.

Non so se continuerò ad avere gli stessi ritmi di una volta, perché ho una consapevolezza diversa, nuova: come scrivevo sopra non solo l’epoca in cui viviamo è cambiata profondamente rispetto al passato, ma soprattutto la riscoperta del “tempo perduto”, questo sconosciuto, mi tiene oggi prigioniero il cuore. L’Africa, dove tutto è così lento e magico, è il luogo di cui avevo bisogno, la finestra perfetta per affacciarmi e guardarmi finalmente indietro e dentro.

***

Addis Abeba, capitale d’Etiopia e sede dell’Unione Africana, giustamente soprannominata “The Bubble”, è il solito crocevia di costruttori, membri di Organizzazioni Non Governative, incaricati di affari e di difesa, funzionari di ambasciata, delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea. Si incontrano nei soliti luoghi di aggregazione, dai ristoranti italiani Mamma mia e Castelli ai bar più esclusivi come The Union Coktail, passando dagli hotel più stellati come l’Hilton o il Marriot, dove le cifre stampate sugli scontrini non sono poi così diverse da quelle occidentali. Del resto la città ha subito un’inflazione incredibile da quando è diventata il caravanserraglio globale del Corno d’Africa. La stabilità ha un costo e a pagarne il prezzo più alto sono la maggioranza degli etiopi, in una società prevalentemente agricola, contadina, per i quali Addis Abeba è praticamente diventata inaccessibile. E poi i sinogrammi, stampati sulle insegne dei cantieri e delle fabbriche, “simboli” del miracolo economico etiope. Dal grattacielo più alto d’Africa fino al Palazzo dell’Unione Africana, passando dai mezzi pubblici, ai parchi e alla tramvia nella piccola metropoli, il marchio è sempre lo stesso: “made in China”. L’Etiopia è il laboratorio africano della Repubblica Popolare Cinese. Ma questa è una storia geopolitica, fuori da “The Bubble” invece è un’altra storia, una storia africana.

Tutto è così lento e magico, nell’Etiopia profonda. Curzio Malaparte, nel viaggio che fece nel 1939 dopo gli anni anni passati al confino, colse meglio di chiunque altro lo spirito del luogo percorrendo il Paese in sella a un asino. Quando parlava di “un’Africa non nera”, che si trattava di “un Impero bianco”, di una terra abitata “da uomini di pelle rossa”, trascriveva il sentimento (e le parole) degli etiopi, non tanto il suo. L’Etiopia è un Paese che nel suo immaginario non appartiene al continente africano, tantomeno al Corno d’Africa. Si considera altro, un mondo a sé. Come testimonia l’alfabeto ge’ez, e la lingua amarica, di origine semita. È un sentimento delle élite illuminate, come del clero ortodosso, ma anche un elemento di auto-rappresentazione nell’inconscio delle classi popolari. Un orgoglio che è legato alla storia del regno di Axium, all’epica dell’Arca dell’Alleanza, alla Regina di Saba e al Re Salome, al loro figlio Menelik I, al retaggio monarchico e imperiale del negus neghesti, al fatto storico di essere l’unico Paese nell’area a non essere stato colonizzato dalle potenze occidentali a cavallo tra Ottocento e Novecento (l’unica parentesi fu quella fascista dal 1936 al 1941, ma qui rimandiamo alle letture dei più grandi, che hanno vissuto o studiato quell’epoca: Angelo Del Boca, Nicola Labranca, Emanuele Ertola, Matteo Dominioni).

La specificità del popolo etiope però – che va ben oltre l’appartenenza etnica – è collegata alla sua esistenza, al suo modo di stare al mondo, in un Paese prevalentemente agricolo. Basta percorrere su un 4×4 le strade sterrate, attraversando i villaggi più remoti, per rendersene conto. L’età media da queste parti è di 25 anni, ragione per cui l’epidemia non aggredisce come in altre latitudini, sono i giovani infatti i veri protagonisti di questi raggruppamenti di capanne, costruite col legno e il fango, lungo il selciato. Laddove non c’è nemmeno un frammento di plastica e l’elettricità arriva a stento. Li vedi in fila indiana, camminare avanti e indietro, per chilometri. Alcuni con la divisa scolastica, altri in veste da allevatori, con le mucche al pascolo. I più fortunati, forse i figli dei notabili del villaggio, hanno il privilegio di possedere l’asino. Sullo sfondo, le distese di terra, a tratti rossa, si intermezzano da acacie senegalesi, sotto le quali gli anziani si proteggono dal sole. Tra le capanne, a volte, ne spunta una con la croce in cima. Sono piccole chiesuopole appartenenti alla Chiesa Ortodossa Etiope costruite sempre con paglia, fango e legna, che raccolgono gli abitanti di fede cristiana. Nonostante il DERG, la giunta militare socialista che governò l’Etiopia e l’Eritrea dal 1974 al 1987, la fede non è mai scomparsa del tutto. Anzi, dopo la caduta del regime marxista-leninista, come nella Russia post-sovietica, questa è fiorita incredibilmente.

Osservando i canti, i riti, le messe, i funerali, sembra di trovarsi di fronte a una sorta di sincretismo abramitico africanizzato. Il richiamo alla preghiera assomiglia a quello del muezzin dei minareti, il credo a quello cristiano, il senso di appartenenza a quello ebraico. Nei villaggi poi non c’è miseria ma solo povertà, c’è una dignità profonda. Nessuno muore di fame e di sete, nessuno fa l’elemosina, nessuno vive per strada. Tutti hanno un tetto, un umile capanna, tutti mangiano, tutti hanno un pezzo di terra da curare, arare, coltivare. C’è una grande dignità anche se alcuni ogni anno lasciano i loro villaggi in cerca di fortune, altrove. Il sentiero migratorio dall’Etiopia passa per Gibuti e arriva fino alla Penisola Arabica, con l’obiettivo di raggiungere un Paese tra gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e l’Arabia Saudita. Il più delle volte sono giovani che vivono in fin dei conti l’emigrazione come una ferita profonda, perché partire significa lasciare la propria capanna, dunque il villaggio, la famiglia, la comunità, e spesso abbandonare la povertà significa incontrare la miseria. Una vita sradicata, un lavoro svilente, una condizione esistenziale umiliante. Se prima era la terra a darti qualcosa, ogni mattina, ora sei tu a imprecare la società di darti qualcosa in cambio.

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