OGGETTO: Vamos a la playa, la bomba atomica in città
DATA: 25 Maggio 2020
Un'estate al mare, un'estate termonucleare.
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

Era la tarda primavera del 1983, e due ragazzi torinesi si fecero conoscere in città, in Italia, nel mondo. Michael & Johnson, i fratelli Righeira, all’anagrafe Stefano Rota e Stefano Righi con il loro singolo “Vamos a la playa” ottennero un successo planetario, sensazionale. Il termine “tormentone” inteso come brano musicale sparato senza parsimonia dai mezzi di comunicazione radiofonici nei mesi estivi ha il suo classico esempio nella canzone del duo di Torino.

Vamos a la playa, oh oh oh oh
Vamos a la playa, oh oh oh oh
Vamos a la playa, oh oh oh oh

La tipica caratteristica del famigerato tormentone estivo è avere strofe facili da memorizzare e ritornelli che entrano dall’orecchio nella zucca, e che da lì non escono più. Rimangono tatuati in testa, s’insinuano nella mente. Appena si sente una nota del tormentone lo si riconosce immediatamente, ipnotizza le masse, è il fenomeno di costume, anzi, da costume da bagno.

Italia ’83, le onde radio che muovevano le masse vacanziere e spensierate come megafoni commerciali, il totalitarismo del ritmo facile, la propaganda canora e leggera, l’invasione dell’hit balneare. Che coppia quella dei due Stefano. Stefano Johnson Righi Righeira conobbe Stefano Michael Rota Righeira al liceo scientifico Albert Einstein di Torino. Diventarono amiconi, addirittura fratelli; siglarono il patto electro-canzoniere. Nel laboratorio di idee che era uno scantinato in via Accademia Albertina, i due alchimisti di note e sonorità assemblarono il brano che li fece diventare popstar.

Struttura elettronica, testo apparentemente frivolo, orecchiabilità estrema: furono gli ingredienti della pozione discografica.

La bomba Righeira, incalzante e invadente, testimonianza canterina di quegli anni ’80. Quell’estate del 1983 i jukebox dei lungomare, i villaggi vacanza italici, i baretti da spiaggia, le autoradio delle macchine nelle migrazioni autostradali da esodo e controesodo cantavano in spagnolo un testo leggero solo alla prima impressione.

Vamos a la playa oh oh.
Vamos a la playa,
la bomba estalló,
las radiaciones tuestan
y matizan de azul

Testo frivolo? Al contrario Signori. La tensione fredda tra i blocchi USA e URSS si stava di nuovo facendo calda e pericolosa. Il mondo era diviso in due fette, un’arancia tagliata a metà, e missili balistici intercontinentali guardavano il cielo, pronti a schizzare in orbite di distruzione transoceaniche al comando di valigette con bottoni in grado di distruggere la razza umana e creare l’orrore supremo, l’olocausto definitivo della specie, il suicidio dell’uomo. Sì, in quel 1983 c’era ancora il serio rischio di un confronto militare tra mondo comunista e capitalista, e la Terza Guerra Mondiale, ovvero l’apocalisse artificiale, poteva scatenarsi sulle teste degli uomini.

Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti, imperatore dell’Ovest e gran visir del dollaro allegro, a marzo annunciò l’inizio del programma “Scudo spaziale”, un sistema fantascientifico di difesa da attacchi nucleari, una visione balistica da guerre stellari.

Dall’altra parte della barricata, al di là della Cortina di Ferro, il vecchio e malato pontefice rosso Konstantin Ustinovič Černenko, cariatide reazionaria e falco ortodosso del potere sovietico muscoloso e aggressivo, riprese con antica passione la sfida diplomatica con americani e alleati.

INTERMEZZO MUSICALE – MUSICA NELLA MUSICA – ALTRI ’80 – ALTRE ALLUCINAZIONI PUNK

Grandissimi i Killing Joke cavalieri di apocalissi sonore e di danze di guerra since 1979, ottimo il loro pezzo Eighties, eccezionale il video con suggestioni storiche dallo strano decennio degli ’80.

Eighties, I’m living in the eighties

Eighties, I have to push, I have to struggle

Eighties, get out of my way, I’m not for sale no more

Eighties, let’s kamikaze ‘til we get there

VOLANO SUPPELLETTILI FUORI DALLA FINESTRA – SPARANO I VIGILI URBANI AL MIO BALCONE – FINE INTERMEZZO MUSICALE]

Sfida USA-URSS con i missili puntati sulle metropoli: in questi scenari di pericolo atomico globale la canzone dei fratelli Righeira si inseriva nelle hit come uno sberleffo alla paura nucleare.

Andiamo alla spiaggia

La bomba è esplosa

Le radiazioni bruciano

E dipingono di blu.

Lampi mortali. Funghi radioattivi incendiari. Cromature di blu come neon velenosi. No, Vamos a la playa non aveva un testo così leggero come molti pensavano. Emergono visioni ironiche ma anche inquietanti.

Andiamo alla spiaggia

Tutti con il sombrero

Il vento radioattivo spettina i capelli.

Vengono in mente assurde famiglie vacanziere anni ’80 nel bel mezzo di bombardamenti termonucleari. E poi ancora:

Andiamo alla spiaggia.

Alla fine il mare è pulito.

Niente più pesce puzzolente ma acqua fluorescente.

Ma quell’anno 1983 lasciò la sua impronta storica anche a Torino, città d’origine dei fratelli Righeira. A gennaio, a Cape Canaveral, in Florida, viene presentata in pompa magna al pubblico la Fiat Uno, una delle auto più prodotte e vendute di sempre. Cape Canaveral dove si lanciavano gli shuttle e le Uno. Lo stabilimento di Mirafiori, modernizzato per l’occasione con robot progettati per l’assemblaggio veloce, sfornava l’esercito delle nuove utilitarie. In Italia il successo tra il pubblico fu eccezionale e duraturo, una delle auto italiane più apprezzate dal grande pubblico. Era la macchina degli italiani per eccellenza. Altri tempi, ora Mirafiori arrugginisce.

A febbraio, invece, una tragedia scosse la metropoli, la peggiore dalla seconda guerra mondiale. Domenica 13 febbraio alle ore 18, nella sala del cinema Statuto in via Cibrario, veniva proiettata sullo schermo La Capra commedia francese con Gérard Depardieu. Il cinema prendeva il nome dall’omonima piazza torinese, a due passi di distanza dalla sala: piazza Statuto, decaduta già dall’Ottocento, dopo il Risorgimento, quando la capitale fu spostata a Firenze, lasciando i torinesi baccalà furenti. Nelle intenzioni d’un secolo fa, la piazza avrebbe dovuto fungere da quartiere diplomatico, con ambasciate, alloggi per i dignitari, militari, funzionari di stato e via dicendo, invece non se ne fece nulla. Secondo alcuni ciarlatani e appassionati di cose occulte, il luogo evocherebbe forze magiche, esoteriche, diaboliche. Non distante dalla piazza c’è infatti il Rondò della Forca, dove venivano impiccati i criminali e poi c’è questo monumento dedicato al traforo ferroviario del Fréjus con la statua del genio alato che mostra un bellissimo ragazzo dal fisico asciutto e atletico, e che secondo certi invasati di simbologie stregonesche rappresenterebbe un giovane e fascinoso Lucifero. La leggenda del cuore nero di Torino: solo fantasia di gusto gotico o c’è qualche pizzico di verità in queste storie di misteri sabaudi?

Faceva freddo quel giorno, aria di neve sopra la Mole, la pellicola era in visione già da diverse settimane e in sala c’era solo un centinaio di sfortunatissimi spettatori. Un cortocircuito scatenò l’inferno in platea. Tende e moquette, poltrone e tessuti, presero fuoco con estrema facilità. Panico. La gente tentò di scappare dalle uscite di sicurezza, ma, sorpresa horror, erano state sprangate dal proprietario per evitare che entrassero nel cinema scrocconi che si guardavano film a sbafo. Fu il terrore assoluto, il locale diventò un formicaio impazzito. Fuori nevicava, dentro stava per diventare un forno a combustibile umano. I passanti udirono grida atroci dall’interno, fu dato l’allarme, tardivo. Ma fu in galleria che si consumò la vera tragedia. Decine di persone trovarono la morte asfissiate dai fumo, nero e tossico, sprigionato dalle fiamme. Morirono in 64 come topi in trappola, strangolati dall’aria diventata veleno. Il Cinema Statuto si trasformò quella sera in una camera a gas con i corpi ammassati l’uno sull’altro. La vittima più giovane aveva 7 anni.

Dopo quella disgrazia, iniziò una vera e propria rivoluzione per la sicurezza dei locali pubblici. Si incominciò a parlare seriamente di porte antipanico, materiali ignifughi, vie di fuga. Tutta l’edilizia nazionale ne fu coinvolta.

Vamos a la playa, oh oh oh oh
Vamos a la playa, oh oh oh oh
Vamos a la playa, oh oh oh oh.

E d’estate esplose poi la bomba Righeira, incalzante e invadente, ed è bello rispolverarla come testimonianza canterina di quegli anni ’80. Fu New Wave piemontese, un riuscito esperimento pop dai colori sgargianti e cravatte improbabili. Un fungo atomico che salì dal cielo di Torino e si espanse ovunque nel pianeta Terra.

Vacanze ’83, ferie radioattive.

L’articolo nuclear-pop potrebbe finire qui, con la frase d’effetto Vacanze ’83, ferie radioattive. Invece, l’autore si prende la libertà di strafare. L’autore persevera con le sue allucinazioni atomiche e vacanziere. Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.  

Sto scrivendo un romanzo noir ambientato in una città immaginaria del Nord Italia che ultimerò chissà tra quanto, forse mai. Superia, bellissima e ricca di leggende, ma che cela un lato oscuro. Il thriller, cupo e allucinato, si ispira alle tele metafisiche di Giorgio de Chirico e alla sue suggestioni oniriche di panorami urbani velati di enigmi di luci e ombre: ho scelto di ambientare una storia di omicidio e gangster dentro una tela di Giorgio de Chirico.

Questo preambolo vuole introdurre un’altra hit balneare a me cara, il cui richiamo canterino è inserito nella mia bozza di romanzo, precisamente in un momento frenetico della trama, dove un vecchio ispettore di polizia, tal Eugenio Lupi, gonfio di alcool e cocaina, si ritrova nel mezzo di una rissa, in una gita notturna nell’infernale Zona Vizio Libero – Zetavielle, durante le indagini per scoprire l’identità di un misterioso assassino che si aggira in città.

Zetavielle, Isola del Mongolo, notte e oblio tra l’9 e il 10 dicembre 2023.

Dopo il brano Rebel Yell del ragazzaccio Billy Idol (con un grido ribelle ancora, ancora, ancora)il dj cambiò netto e trascinò la vista verso un sound italiano, estivo e mediterraneo. A Lupi venne la pelle d’oca per l’emozione nell’ascoltare ad altissimo volume quella che era stata la sua canzone preferita durante una meravigliosa vacanza nella riviera ligure di Ponente, nel 1982, quando non aveva nemmeno vent’anni. Pochi chilometri lontano da casa, ma sufficienti a farlo sentire il ragazzo più felice della Terra. Bastava poco agli inizi degli ’80 a rendere felice un giovanotto di famiglia operaia: il mare blu, la spiaggia con le ragazze in bikini, i gelati, gli spinelli, le birrette, il cinema all’aperto per limonare duro, il sesso a perdifiato sulla sabbia sotto la luna. Gli si inumidirono gli occhi quando il facile ritmo elettronico aprì Un’estate al mare con la voce del gabbiano sperimentale Giuni Russo e testo scritto dall’amico Franco Battiato. Poteva darsi che fosse per l’effetto della coca, ma l’ispettore non riuscì a trattenersi dal buttarsi in mezzo alla pista, a zampettare posseduto da qualche buffo spirito pop. La leggerezza rimaneva solo al primo ascolto: era il desiderio velato di malinconia, di una prostituta che sognava gli ombrelloni, il bagno al largo e le vacanze al mare.

Per le strade mercenarie del sesso 

Che procurano fantastiche illusioni

Senti la mia pelle com’è vellutata

Ti farà cadere in tentazioni

Per regalo voglio un harmonizer

Con quel trucco che mi sdoppia la voce

Accadde in un attimo tra le luci strobo che ritmavano la folla a scatti con flash intermittenti. In un baleno la scena cambiò, da allegra scatenata a caotica violenta. Sbucò dal nulla un commando teppista con le sciarpe biancoverdi al collo, per darsele di santa ragione con quelli con le sciarpe rosse. Attaccarono a sorpresa mentre Lupi era immerso nella musica, in estasi con gli occhi chiusi, a ballare fuori tempo come un orso in overdose di miele. Lo urtò una spallata, un treno merci a tutta birra che lo prese in pieno e lo buttò a terra, sulla pista da ballo a scacchi illuminati dai led. Una ragazza cicciottella e terrorizzata cadde sopra di lui, sentì il dolore di una ginocchiata involontaria alla bocca dello stomaco e una sensazione di soffocamento data dal seno abbondante premuto come un cuscino umido di sudore sulla sua faccia. Scansò la balenottera urlante resa handicappata dalla paura con non poca fatica, e i suoi occhi dopati colsero immagini intermittenti, fotografie in rapida successione del caos. Il faro di luci stroboscopiche rendeva la scenografia pazzesca. Una raffica di fermo-immagini di volti in smorfie tirate, di corpi abbracciati, di pugni a vuoto e a segno, di millepiedi scalcianti, di gente sospesa in aria per magia. La canzone pop continuò il suo giro noncurante della rissa scoppiata; tutta quella baraonda accadde così in fretta da lasciare allibito anche il dj che non tolse il disco. Fu la colonna sonora di attimi surreali.

Senti questa pelle com’è profumata

Mi ricorda l’olio di Tahiti

Nelle sere quando c’era freddo

Si bruciavano le gomme di automobili

Quest’estate voglio divertirmi per le vacanze

Eugenio fece leva sul ginocchio buono per rimettersi in piedi. Subito fu ributtato a terra da un calcio in culo. Picchiò il labbro sul pavimento. Deglutì saliva alcolica al gusto sangue. Il millepiedi scalciante lo calpestò. Sentì pesi in movimento sulla schiena. Gli venne naturale frugarsi sotto l’ascella, dove avrebbe dovuto esserci la fondina con l’arma d’ordinanza. Ma la pistola giaceva nel cassetto della sua stanza all’hotel del Dragone. Allora afferrò una caviglia a caso e tirò. Il proprietario della caviglia capitombolò in mezzo ad altri corpi. L’ispettore riuscì ad issarsi aggrappandosi a cinture, spalle e teste. Un pugno lo centrò nell’occhio. Eugenio si ritrasse dolorante con l’occhio violato protetto dalla mano. Lo afferrarono per il collo. Di fronte a lui con espressione omicida un ultrà della Fortitudo l’aveva preso di mira. Lui non c’entrava nulla di nulla con quella rissa tra teppisti ma in quel putiferio gli schieramenti si confusero subito, le botte volavano senza troppi distinguo. Una mischia, picchiavano nel mucchio, anzi il mucchio stesso sembrava esser diventato un’unica cosa che si menava da sola. La demenza furiosa era collettiva. Il vecchio poliziotto, a digiuno da secoli dalla violenza di strada, per un istante fu in balia degli eventi e del suo avversario digrignante odio killer. Poi però, l’istinto di sopravvivenza venne in suo soccorso.

Le tecniche di autodifesa e le mosse di boxe thailandese che aveva conservato in qualche angolo della memoria lo salvarono dal pestaggio. Reagì d’impulso. Fu fulmineo nei movimenti. Si divincolò e strinse il polso del balordo, si girò di scatto, e lo fece volare. Nello strattone gli ruppe un osso del braccio. Lo finì con un calcio in piena faccia. Si allontanò dal centro del ring, proteggendosi come meglio poteva dal bombardamento di mani, piedi e bottiglie in orbita. Un coglioncello si mise in mezzo. Lo mise al suo posto con un diretto che gli fece esplodere il naso in uno spruzzo rosso. Conquistò finalmente i margini della battaglia. Credendosi in salvo, riprese fiato. L’occhio colpito faceva un male cane, lacrimava a fiotti, e la vista era sfocata e cieca per metà, con le stelle che brillavano in puntini gialli. Il cuore batteva impazzito. Fu in quel momento che lo vide. Di nuovo lui, il cameriere della trattoria dell’Orda Bianca, il cui sguardo di sfida aveva già incrociato due volte. Capelli cortissimi, basette da pub irlandese, sciarpa da guerra del gruppo ultras biancoverde del Superia F.C., il giovane aveva appena lasciato a terra un nemico della Fortitudo a cui aveva rotto la faccia con una sonora testata. La musica s’interruppe in un graffio di vinile. La luce strobo continuava invece a sparare flash ad intermittenza. Il cameriere-hooligan si volse verso l’ispettore con un’espressione da fiera assetata di sangue, del sangue di Eugenio Lupi. Il teppista si mosse verso di lui, a scatti. Ogni scatto di luce un metro più vicino. Gli ultimi passi li coprì con un unico balzo verso la sua preda. Il duello fisico fra i due fu davvero feroce. Si scontrarono senza pietà in una manciata di secondi scambiandosi scariche di pugni rabbiosi, assestati per infliggere più danni possibili all’avversario. Il tipo con le basette aveva la metà degli anni di Lupi, ma il vecchio poliziotto non aveva scordato come si menava il prossimo. Mollò una ginocchiata laterale che schiacciò la milza all’ultrà, e che lo fece indietreggiare. Questa mossa gli permise di guadagnare un metro di spazio per prendere l’iniziativa. Caricò la gamba destra come una balestra e sferrò un potente calcio alla testa dell’avversario. Lo investì in pieno. Quasi gli staccò la mascella. Era il momento buon per metterlo a KO definitivamente. Mentre l’altro era schiena a terra stordito, Eugenio gli si sedette addosso balzandogli sullo stomaco e poi liberò la tempesta di pugni in faccia, uno dietro l’altro, a raffica, per devastarlo. Gli fece ingoiare frammenti di denti rotti. Qualcosa di bestiale dentro di lui si era risvegliato dopo un lungo sonno … ma non si accorse che mentre stava compiendo il massacro a mani nude, l’altro era riuscito ad estrarre dalla tasca dei pantaloni un’arma da taglio illegale, un coltello giapponese Ishi Ba di ultima generazione, dalla lama bianca in ceramica più resistente dell’acciaio. Leggerissimo, affilato come una katana, immune ai metal detector. Roba da terroristi. Il bastardo a terra, sopraffatto e con il volto tumefatto, fece la sua mossa disperata affondando la punta del pugnale di ceramica bianca nel fianco sinistro dell’ispettore. Eugenio urlò alla luce strobo. Avvertì una specie di scossa, una puntura di mille aghi tra le costole. Mollò la presa e si alzò dall’avversario in uno scatto di molla, tenendosi premuto il fianco. Sotto la giacca a vento da sci e il pile azzurro grondanti sudore, sanguinava. Attorno a lui, giganteschi buttafuori della SECURPOL mollavano cazzotti, sparavano scariche elettriche con i taser, immobilizzavano gente in fuga. L’ispettore in stato confusionale si guardò attorno. Il cameriere che l’aveva attaccato non c’era più. Sparito. Una scarica di taser lo colpì alle spalle. Tutti i muscoli s’inchiodarono in un unico crampo. Paralizzato piombò in terra con un gran tonfo. Stranamente lucido, ma immobile, il corpo non rispondeva. Dopo alcuni secondi, fu colto da un caldo rilassamento delle membra, una sensazione piacevole. Infine, svenne.

Oblio.

I più letti

Per approfondire

Il rituale dei rave

Rituale mistico, rivoluzione, anarchia, ribellione, totem. Per chi li vive i rave party innalzano le coscienze verso il cielo grazie alla musica che unisce

Artek

Il leggendario campo compie 95 anni.

Difendiamo i nostri pregiudizi

I progressisti hanno instaurato uno stato di “rivoluzione permanente”: tutto ciò che facevamo fino a ieri è una forma di discriminazione e di razzismo, di violenza o di sopruso, di regressione e di intolleranza. Alla pari di software obsoleti, noi dovremmo sacrificare al trend e all’hashtag del momento le nostre convinzioni. Difendiamole!

Sulla relativizzazione dei libri di storia

La storia e i suoi libri di testo alle scuole superiori presentano una narrazione parziale. Questa narrazione è insufficiente per formare cittadini in grado di affrontare le vicende umane del prossimo futuro. Conoscere la storia degli “altri”, le loro istituzioni e vicende politiche, crea gli anticorpi ai pregiudizi e forma una società aperta al dialogo e al riconoscimento, pronta all’incontro: elementi inaggirabili per un mondo in moto caotico e perpetuo.

Il grande inganno

Paolo Cirino Pomicino pubblica con (Lindau) il suo "J'accuse" contro una classe politica che fa gli interessi di qualcun altro. Una contro-storia della Repubblica italiana.

Gruppo MAGOG