OGGETTO: Vade retro Heidegger
DATA: 08 Aprile 2020
Riflessioni sul filosofo di Meßkirch.
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Heidegger era un imbonitore della filosofia, uno che portava al mercato solo merce rubata, tutta la merce di Heidegger è di seconda mano, Heidegger era ed è il prototipo del pensatore per imitazione al quale mancava tutto ma proprio tutto per pensare con la propria testa. Il metodo di Heidegger consisteva nel ridurre senza alcun riguardo le grandi linee altrui alle proprie piccole idee, proprio così

Non si può certo definire un giudizio in chiaro scuro, quello che il romanziere austriaco Thomas Bernhard riservava, in “Antichi maestri”, all’esistenzialista più citato e venerato del Novecento, a “quel filisteo nazista in calzoni alla zuava” chiamato Martin Heidegger. Sì, lui, il filosofo di Meßkirch capace, da allievo, di superare il maestro (Husserl), da maestro di influenzare profondamente l’allieva-amante Hannah Arendt nonché, come autore di “Essere e tempo”, di marchiare in profondità quel mondo intellettuale colto poi in imbarazzato subbuglio subito dopo la metà degli anni Ottanta dal riaffacciarsi a più riprese di un passato fatto di antisemitismo e di potere accademico all’ombra del Terzo Reich.  

Martin Heidegger

Il “disturbatore della pubblica quiete” più acuminato tra gli scrittori di lingua tedesca del secondo Novecento, l’austriaco Bernhard, se ne andava giusto alla fine di quello stesso decennio, ben conscio probabilmente delle verità nascoste dietro un’invettiva capace di far storcere il naso (e anche il fegato) a tanti autorevoli devoti, progressisti e non; per quanto letterariamente motivata, è difficile dargli torto su quanto questo “fedifrago della filosofia” avesse attinto alle “grandi idee” altrui: da Husserl, uno storicismo concepito come fonte dello scetticismo e del disorientamento contemporanei; da un Duns Scoto opportunamente elaborato in chiave irrazionalista, l’impossibilità per filosofia di scoprire da sola ciò che all’uomo è noto solo grazie alla rivelazione; da Aristotele, anch’egli rovesciato in senso anti-aristotelico, che il Dasein poteva esser concepito non sul piano della contemplazione ma su quello pratico; da Pascal che l’uomo nasce già immerso nel mondo libero di essere, condannato cioè a riflettere su stesso; da Kant l’impossibilità di poter giungere ad una comprensione totale e definitiva dell’Essere; da Nietzsche, la demistificazione dell’impostura metafisica da Platone in poi; da Kierkegaard, quanto il destino del mondo moderno fosse segnato dal conformismo di individui disperati; da meister Eckhart che tutte le faccende del mondo distraggono l’uomo dall’essere; da Spinoza che libertà che nulla ha nulla a che vedere col libero arbitrio; da Schelling che la filosofia è ontoteologia e che non esiste dualità tra soggetto e oggetto; dai romantici tedeschi di fine ‘700 che se si può trovare una Verità della realtà in qualcosa, quel qualcosa è la poesia; da Hegel il ruolo centrale della Germania e la filosofia tedesca erede di quella greca; da Spengler che la tragedia della modernità è la tecnica, la megalopoli moderna rendeva inoperante la democrazia liberale,  retrodatando la crisi dell’occidente di 2500 anni, con il tramonto della metafisica di Platone. 

A quasi mezzo secolo dalla morte, approfittando di questo vuoto da coronavirus dove l’esistenza nuda di fronte al destino sembra in grado come direbbe lui di risospingere l’uomo “nell’asprezza del suo destino”, forse è arrivato il momento – nazismo o non nazismo, svolta o non svolta – di prendere le giuste distanze da questo pensatore pretenzioso considerato magari “artista” in virtù dell’approdo holderliniano nel segno del “linguaggio sacro della poesia” per ripristinare l’unità coscienziale tra Dio e il mondo, dell’arte come messa in opera della Verità comprendente quel concetto di “capolavoro” che il critico Roberto Longhi tanto contestava proprio per il suo metafisico isolamento; da questo scrittore ermetico “genialmente reazionario” (Carlo Sini) diventato suo malgrado un maestro per tanti accademici dell’avanguardia degli anni Sessanta e Settanta, capace di mettere d’accordo perfino le opposte fazioni del pensiero “debole” e “forte”; da questo manipolatore della lingua “concettualmente legato all’idea del peccato radicale e della natura essenzialmente peccaminosa dell’uomo che alla domanda finale di “Essere e tempo”, “C’è una via che porta dal tempo originario a quello dell’essere?”, rispondeva sbrigativamente che “Il tempo stesso si rivela come orizzonte dell’essere”, rimandando a un seguito mai arrivato.

Martin Heidegger

Di recente, era stata Roberta De Monticelli a lanciare un appello anti-heideggeriano: “In questa ammirazione, aveva scritto, c’è tutta la storia dell’irresponsabilità intellettuale e morale di una vastissima parte del pensiero europeo e italiano, dal dopoguerra ad oggi”. Ma al solito era stato come far cadere un sasso in un pozzo tipo quello di San Patrizio. Troppo profondo, troppo sedimentato deve essere ancora il timore reverenziale per questa “figura centrale nella storia della civiltà” (così Magris, sul Corriere della sera, 9 giugno 1996) che tanto ha contribuito ad allontanare la filosofia dalla demonizzata “inautenticità” della vita quotidiana, a rendere l’istituzione della filosofia quella macchina intimidatrice denunciata a suo tempo anche da Gilles Deleuze.

Nei suoi confronti, la comunità filosofica si può dire si sia comportata come la sua allieva-amante Hannah Arendt, come cioè chi da una parte non vuol vedere o credere, puntando magari a trasferire la realtà su un piano altro, addebitando pubblicamente – così per esempio sulla Partisan Review nel 1946 – “l’assoluta mancanza di senso di responsabilità a quella frivolezza spirituale che nasce in parte dalla follia del genio e in parte dalla disperazione”, aprendo tuttavia in privato squarci di verità inquietanti, come nella corrispondenza con Jaspers a proposito dell’estromissione accademica imposta a Husserl: “Poiché so che quella lettera e quella firma lo hanno poco meno che ucciso, mi permetto di ritenere Heidegger poco meno che un assassino”….

Hannah Arendt

A fine anni Ottanta, inevitabilmente, le prime sconvenienti rivelazioni naziste dettero vita al solito clima da derby bianco/nero che tanto piace ai giornali, quello che indusse per esempio Gillo Dorfles a parlare di “una crociata, spesso perversa, contro un’indubbia personalità filosofica” (Corriere della sera, 29 maggio 1989); ragionamento analogo a chi nel 2015, dopo la pubblicazione dei “Quaderni neri” provava a rifugiarsi nel solito, craxiano “lo facevano tutti”, arrivando perfino ad agitare un complotto ordito dai masnadieri “analitici” contro gli eroici “continentali”. Alcuni fedelissimi come la Di Cesare (vicepresidente dimissionaria della Martin Heidegger Gesellshaft pochi mesi dopo il suo presidente) erano arrivati a giustificarlo rifugiandosi proprio su quel terreno metafisico da lui stesso così aborrito (il suo era un pregiudizio non razziale, ma metafisico e ontologico, era in sostanza la giustificazione).

Era solo l’ultimo dei paradossi che ha caratterizzato storia e fortuna di questo filosofo che solo nell’odiato mondo anglosassone ha trovato resistenze, di questo “cita e interpreta se stesso come fosse la Bibbia” (sempre Arendt dixit), trasformato quasi immediatamente – con ben maggior solennità del pittore Francis Bacon – nella quintessenza estremistico-apocalittica della tragedia esistenziale novecentesca: introdotto in Italia in contrapposizione al (malinteso) idealismo immanentista della tradizione hegeliana, tenuto a distanza da un conservatore accorto come Croce che scriveva di un «filosofare vacuo, attualistico», quindi accolto – complice gli uffici di Marcuse – nella galassia dell’alienazione marxista anti-americana con tutte le sue varianti misticheggianti e “negative” utili a riscoprire quel filone irrazionalista che il materialismo storico-dialettico aveva o dimenticato o addirittura contrastato. 

Martin Heidegger

Ma il più clamoroso dei paradossi heideggeriani sta in quella capriola che con la sua solita, contraddittoria acutezza, nel costante confronto a specchio ingaggiato con l’antico maestro, la Arendt aveva evidenziato: il fatto che il Selbst e il Dasein rimanendo avvolti in una dimensione confusa, mitica, astorica, lo riavvicinava ai maggiori negatori della realtà, ovvero Platone e Hegel, facendolo approdare proprio a quella metafisica che aveva distrutto, rimproverandogli in certo senso il debito con una dimensione teoretica da lei stesso vissuto, considerando l’orizzonte teoretico in cui resta intrappolata la dimensione politica-plurale intersoggettiva della sua “vita activa”…

A pensarci bene, era il “solipsismo” che gli rimproverava il dimenticato Emilio Betti, era il limite “negativo” che anche un antropologo come De Martino gli contestava: la domanda radicale sull’essere non può aver risposta ed è quindi essa stessa irresponsabile, sosteneva in le fini del mondo, pensando piuttosto a un esserci come a un dover-esserci: l’isolamento è la follia. Ed era anche l’aporia individuata (nella sua tesi) da un’altra grande austriaca del secolo scorso, l’inquieta e sventurata Ingeborg Bachmann, che a Heidegger aveva dedicato la tesi di laurea: quell’aporia tipica della coscienza soggettivistica capace di risucchiare l’uomo in un oscuro concetto di umanità genericamente presociale, destituituendolo da ogni responsabilità nei confronti della società. Wittgensteinianamente, lei non faceva confusione tra il dicibile (il mondo) e l’indicibile (il mistico). Non era compito della filosofia parlare di metafisica…

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