Grandi folle perturbano le strade americane. Sventolano cartelli che rimandano a diritti, ma non sono le solite facce anonime, non sono lavoratori e lavoratrici sconosciute, che portano a casa una busta paga miserabile per servire dietro una cassa di un supermercato o dietro il bancone di un bar.
Dal 14 luglio, il sindacato SAG-AFTRA si è unito allo sciopero della Writers Guild of America. Il primo rappresenta attrici e annunciatori, caporedattori e cantanti, e tante altre categorie; il secondo rappresenta più di 11mila sceneggiatori e scrittrici che lavorano alla creazione di film, programmi televisivi e serie. Quest’ultimo ha dichiarato lo sciopero di massa il 2 maggio.
L’ultima volta che l’industria cinematografica scendeva in sciopero in massa in Italia usciva La dolce vita. Sono passati 63 anni. E forse il prossimo anno potrebbe essere il momento, per il pubblico che mastica e ingurgita qualsiasi vomitino prodotto dall’industria cinematografica americana (fintantoché scintillante e ben realizzato), di fermarsi e pensare. Un’occasione.
Cosa succederà? Un recente titolo de Il Fatto Quotidiano a un articolo di Davide Turrini suggeriva che la produzione di film e serie tv del 2024 potrebbe essere decimata, se non azzerata. Grandi titoli sospesi, grandi produzioni ferme. Apocalisse del mondo dello spettacolo. E se questo fosse, invece, un bene? Se fosse occasione per ritrovare la gioia sotterrata nei film novecenteschi? O anche del primo ventennio del duemila. Tutto, fuorché gli ultimi anni.
Potrebbe essere l’occasione, questa, per riscoprire la storia del cinema, per aggiornarsi sui capolavori italiani. Vi sarà tanto tempo per studiare meglio La strada di Fellini; il libertinaggio sessuale di Salò, o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini; o l’acuta riflessione sulla dipendenza di Le conseguenze dell’amore di Sorrentino.
Un altro motivo per gioire di questo sciopero degli attori e delle scrittrici del mondo dello spettacolo americano, è il trionfo di una forza sociale che si oppone alla potenza cieca del capitale. Un trionfo di una comunità che si collettivizza e combatte l’abuso delle potenze economico-finanziarie.
Sì, ma la ricchezza sfacciata delle star di Hollywood, il benessere dei lavoratori dello spettacolo, che sfilano sui red carpet e alle grandi premiazioni non hanno niente a che vedere con la penuria degli operai metalmeccanici, o delle raccoglitrici nelle aziende agricole. Le persone che ergono la parola diritto per strada questa volta sono anche le Jennifer Lawrence e le Meryl Streep che tutti conosciamo. Eppure, la maggior parte delle persone che stanno scioperando – seppur attrici, scrittori o personalità dell’industria cinematografica – appartengono alla classe media. Ovvero, non sono superstar di Hollywood. Ma sono persone iscritte ai sindacati che rappresentano gli scrittori e le attrici americane, ovvero: non sono parte necessaria e inamovibile del circo mediatico dalle cui labbra pende il pubblico. Tante di quelle persone non sono mai apparse negli show del sabato sera di Jimmy Kimmel, David Letterman, Jimmy Fallon, o Jon Stewart. Tante di quelle persone vivono vite comuni, leggere. Alcune vivono alla giornata.
Al termine della seconda settimana di scioperi, da quando la SAG-AFTRA si è unita alla Writers Guild, la preoccupazione salariale e le discussioni sui diritti sociali sono state riportate al centro dell’immaginario collettivo. Con il solo mezzo che un pubblico addormentato dall’inesauribilità del mondo del intrattenimento poteva capire, stoppare il meccanismo che sedava la popolazione in uno stato da romanzo di D. F. Wallace, in una paralisi e dipendenza dalla visione infinita.
Questo sciopero di massa sarà un’occasione imperdibile, concessa al pubblico altrimenti appisolato, dipendente dal flusso ininterrotto di storie che distraggono, stanco solo di attività fisiche controllate in palestre assordanti; un pubblico reclino su divani comodi, martoriato dalla visione continua di Netflix e Prime, Apple TV e Disney+. Un pubblico che ha abbandonato la lotta per abbracciare il dominio della norma. «Il dominio della norma non vi era più sufficiente; non potevate più viverci, nel dominio della norma; e così vi trovaste a dover entrare nel dominio della lotta», scrive Michel Houellebecq in una delle più belle pagine del suo primo romanzo.
«Rammentate: l’acqua era fredda. Ecco: siete lontani dalla riva, oh sì! come siete lontani dalla riva! A lungo vi siete illusi dell’esistenza di un’altra riva; sbagliando, com’è ormai evidente. Tuttavia continuate a nuotare, e ogni movimento che fate vi avvicina al collasso. Tossite, i vostri polmoni bruciano. L’acqua vi sembra sempre più fredda, e soprattutto sempre più amara.»
L’estensione del dominio della lotta è abbracciare l’essere della rivolta. La lotta imperializza e trasforma le persone che subiscono abusi salariali, che combattono l’acqua fredda e amara, che credono all’esistenza di un’altra riva, che non si vedono garantite il diritto di avere diritti. Quel kantiano e illuminista diritto ad avere diritti, che garantisce a ogni essere umano la protezione nelle sue relazioni attraverso diritti sociali, oltreché politici – fatta eccezione per poche anomalie in cui quel diritto universale viene sospeso per ragioni legali. Anche le personalità del mondo dello spettacolo, in quanto persone, hanno diritto ad appartenere alla sfera dei soggetti sociali protetta dal welfare state.
Allora, bisognerebbe gioire di fronte a un collettivo che chiede diritti sociali, che chiede di essere protetto di fronte all’incessante e inarrestabile progresso dell’intelligenza artificiale. Di fronte alle richieste di sindacati riuniti, che dettano le condizioni e fermano qualsiasi processo programmato dall’industria del divertimento. In fondo, questo sciopero potrebbe mettere d’accordo i vari marxisti di destra come Diego Fusaro, che lamentano l’imperio dei diritti civili sui diritti sociali, con i social-liberali internazionalisti alla Luciano Canfora. Insomma, c’è di che gioire.