Gli americani sono quelli di sempre, recita il verso di una poesia di Robert Frost, e il caso che sta facendo in questi giorni il giro del mondo, quello dell’assassinio di George Floyd da parte di un agente a Minneapolis, è lì a ricordarcelo nel peggiore dei modi. Perfino nei più insopportabili dettagli, come quel “vi prego, non respiro” diventato a tal punto famoso per il caso fotocopia di Eric Garner a New York nel 2014 da essere stampato sulle maglie che i giocatori della NBA, LeBron James in testa, indossarono allora in segno di solidarietà. E non per nulla sono tornati ad indossarla ora.
Come nell’altro topos ricorrente, quello in certo senso simmetrico delle stragi compiute dall’Erostrato di turno, identico ogni volta si presenta il copione: una vittima nera, un colpevole poliziotto bianco, magari recidivo, come nel caso di Minneapolis che al massimo lì per lì viene sospeso e poi solitamente assolto, le giustificazioni lì per lì in nome della legge sulla legittima difesa, basata sul principio del cosiddetto Stand Your Ground, parente nemmeno troppo alla lontana del famoso secondo emendamento, quello sul diritto dei cittadini a portare armi, una ripresa galeotta magari da telefonino che impone l’evidenza dei fatti, le grida di dolori e la richiesta di giustizia da parte dei familiari, quando va bene come in questo caso lo sdegno del Governatore dello Stato e delle autorità locali, i comunicati di solidarietà da parte dei politici a Washington, le proteste della società civile, la contagiosa esasperata ribellione della comunità nera (stavolta in quel di Los Angeles e di New York), lo stress sociale che torna improvvisamente, drammaticamente alla ribalta, il sindaco della città che proclama lo stato di emergenza, la protesta che porta a incidenti, scontri e magari anche vittime, come nel 1965 a Watts, un sobborgo di Los Angeles, in quella che è rimasta forse la madre delle moderne rivolte: sei giorni di disordini, trentaquattro morti di cui venticinque neri, più di mille feriti e circa quattromila persone di colore arrestate; e infine, immancabili, i commenti di americanisti, psicologi e tuttologi vari, sui perché e i percome di tanta violenza. Su tutto l’ombra lunga di un razzismo che non avrà più il cappuccio bianco del Ku Klux Klan ma affonda sempre nel pregiudizio: un uomo bianco con le mani in tasca ha freddo, un uomo nero con le mani in tasca sta per estrarre una pistola.
“Come è possibile che l’uomo che ha ucciso George Floyd non sia in prigione, ha chiesto il sindaco di Minneapolis, se aveste fatto lo stesso voi, o l’avessi fatto io, a quest’ora saremmo dietro le sbarre”. La risposta ufficiale dalla polizia, ovvero l’arresto del poliziotto richiesto a gran voce dall’opinione pubblica, stavolta è arrivata dopo pochi giorni (per il poliziotto che uccise il giovane Trayvon Martin occorsero diverse settimane), ma è stata la classica zavorra lanciata nei momenti di difficoltà.
Gli americani sono quelli di sempre, diceva Frost. Appunto. Due secoli dopo Tocqueville, l’America continua ad essere il Paese nel quale democrazia e violenza sono inestricabilmente intrecciate l’una nell’altra, quello dove Samuel Colt, quello delle pistole, partorì uno slogan altrove inimmaginabile come “Dio ha fatto gli uomini alti e bassi, io li ho resi tutti uguali”; dove l’invincibile istinto ribellistico, quello del “preferirei di no” melvilliano è sempre andato di pari passo con il rispetto se non l’istintiva ammirazione per la ricchezza e il successo personale; dove americanismo e anti-americanismo continuano ad essere armi brandite da tutti; “Il treno di vincitori e sconfitti” cantato da Springsteen, il Paese dove “la libertà è sempre stata dietro l’angolo” di Dylan. E oggi più che mai si può dire quanto valgano le parole del filosofo suo malgrado Andy Warhol: ognuno ha la sua America.
Ma per la verità stavolta qualcosina di diverso c’è, e forse è su questo che vale forse la pena di ragionare, in attesa che stavolta a sancire la differenza col passato sia davvero la giusta condanna per un delitto che non sembra avere attenuanti ma semmai solo penose aggravanti.
C’è un presidente molto sui generis entrato nella cristalleria del quadro politico mondiale con la grazia di un elefante, prima ostacolato poi sopportato da un altro elefante, quello da sempre a guardia simbolica del partito repubblicano, e che fin dal giorno della sua elezione si è attirato strali, sberleffi e insulti da tutto lo stupefatto, indignato mondo liberal-progressista. E poi, grazie alla frenetica corsa tecnologica c’è una comunicazione sociale sempre più accelerata, sempre più pervasiva che mai come ora sembra dar senso al famoso e per lungo tempo criptico principio-slogan lanciato da McLuhan: il medium è il messaggio.
Che anche il mondo liberal americano, fin dal giorno dell’insediamento di Trump, abbia preferito non mettersi troppo a riflettere sulle cause che avevano portato alla vittoria del nuovo “intruso” che evidentemente non era venuto da Marte (i rovesci della candidatura Clinton, il lascito poco entusiasmante del predecessore Obama, gli otto milioni di americani che dopo aver votato Sanders avevano deciso di convergere su Trump, lo strapotere di un mondo finanziario fino ad allora assecondato invece che punito dal potere politico) preferendo invece vedere possibili impeachment a ogni dove e battere ossessivamente il tasto della volgarità di un presidente che forse proprio per la sua volgare ignoranza, per la sua pacchianeria, per la sua voglia di scombussolamento del sistema era stato premiato con 60 milioni di voti, beh, tutto questo fa parte del delirio di cui è vittima la mentalità collettiva di una democrazia occidentale sempre più tiranneggiata dall’ignoranza, sempre più sprofondata in un dibattito politico segnato da quei colori che Tommaso Landolfi definiva dell’orrore, il bianco e il nero.
Mi piace o non mi piace. Con tanti saluti alla complessità ma in compenso con molto profitto economico, visto il valore attribuito ai dati personali: in media 405 dollari ciascuno per Google e 194 dollari per Facebook. Quello che stupisce di più, semmai, è quanto poco volentieri si vogliano fare i conti con una dimensione sociale, politica, ma forse prima ancora antropologica che sta inquinando le nostre esistenze quotidiane e addomesticando i pensieri e, quel che è peggio, tra la soddisfazione generale.
I messaggi di Trump sulla vicenda di Minneapolis sono oggettivamente un fatto nuovo. Non tanto per le parole di Trump mai parso in effetti così a disagio, messo a dura prova – a pochi mesi dalle elezioni – non solo dai vari scivoloni sul corona virus ma anche dai quaranta milioni di disoccupati americani («Quando iniziano i saccheggi, si inizia anche a sparare», aveva scritto il presidente, e poi ancora: «Non posso star qui a guardare quel che succede in una grande città americana, Minneapolis. Una totale mancanza di leadership. O il debolissimo sindaco di estrema sinistra Jacob Frey si dà una mossa, o manderò la Guardia nazionale per fare il lavoro che serve»), quanto piuttosto per la scelta di Twitter di intervenire a gamba tesa, semi-bannando i messaggi, non cancellandoli, cioè, ma segnalandoli cioè come “controversi”.
E ancora più nuovo è lo scontro che ne è nato tra Facebook e Twitter. Mark Zuckerberg, il creatore di Facebook che solo pochi mesi fa aveva eliminato i profili di siti anche italiani ritenuti “pericolosi”, ha criticato la piattaforma rivale:
“Credo fortemente che Facebook non debba essere l’arbitro della verità di tutto ciò che la gente dice online. In generale le società private, specialmente le piattaforme, probabilmente non dovrebbero essere nella posizione di farlo”.
Mark Zuckerberg
Dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, si capisce come il giovane miliardario sia alla costante ricerca di riabilitazione, in un’America dove in anti si chiedono come sia stato possibile che la Federal Trade Commission gli abbia potuto permettere di acquistare prima Instagram (nel 2012, per 1 miliardo di dollari) e poi WhatsApp, per 22 miliardi (due anni dopo, per 22), lanciandolo di fatto come il vero padrone della comunicazione globalizzata.
Ancora due o tre lustri fa, lo spauracchio collettivo era il Grande fratello, l’occhio sorvegliante e invadente di orwelliana memoria. Oggi sembriamo tanti Montezuma che salutano l’arrivo del loro salvatore Cortazar, che sognano magari di chiedere notizie del mondo ad una Alexia già programmata per la risposta: “tutto a posto, divertiti e consuma”.
“La mia speranza è di costruire nel lungo termine una infrastruttura sociale per unire l’umanità (…) una comunità informata, sicura, impegnata dal punto di vista civico, inclusiva. Tutte le soluzioni non arriveranno solo da Facebook, ma noi potremo giocare un ruolo, credo”.
Mark Zuckerberg
Questo diceva Zuckerberg tre anni fa, lanciando un programma che sapeva molto di seduzione di massa, pochi mesi prima che scoppiasse il caso Cambridge Analytica (portato allo scoperto dal Guardian, giornale diventato modello di giornalismo investigativo e bollinato perfino dai film su Jason Bourne) sulla gestione sporca dei dati di oltre due miliardi di persone nel mondo. Lo scandalo in tutte le sue varie implicazioni trascinò poi per le sue manifeste implicazioni politiche il giovane Zuckerberg (per la prima volta pubblicamente in giacca e cravatta) davanti al Congresso, in un’audizione fiume che evidenziò due cose: la sostanziale benché a tratti imbarazzata volontà dell’interrogato di non cambiare rotta (“Penso che sia praticamente impossibile avviare un’azienda nella stanza del tuo dormitorio e poi portarla a crescere fino al punto in cui siamo ora senza commettere qualche errore” fu il concetto più volte ripetuto in quell’occasione) e l’altrettanto sostanziale incapacità dei politici che gli stavano di fronte, complici sicuramente anche puri motivi anagrafici, di padroneggiare il mondo dei social network e tanto meno i pericoli annessi e connessi. Ma dietro le incertezze dei politici (un repubblicano arrivò perfino a chiedergli come riusciva a campare con un prodotto gratuito!). c’era anche un’altra cosa, c’era un misto di ammirazione e di disagio nei confronti di questo ragazzotto fondatore di Facebook diventato un forse il potente del mondo, forte dei miliardi di affiliati non so fino a che punto consapevoli di quanto i social stiano modificando la struttura stessa del nostro modo di pensare.
Nonostante lo scandalo di Cambridge Analytica – ha dichiarato Brittany Kaiser, inquietante protagonista di quella vicenda che dopo trascorsi con Obama aveva lavorato da lì dentro anche per Trump – tante aziende continuano a raccogliere il maggior numero possibile di dati su di noi. Più ne hanno, più è facile convincerci ad acquistare un prodotto o votare per un particolare partito politico. Possono capire i nostri gusti, le nostre paure, le nostre abitudini. Riescono così ad avere un’immagine molto precisa di ciò che facciamo ogni giorno.
Naturalmente solo uno scemo poteva pensare che la multa da 5 miliardi comminatagli dalla stessa Federal Trade Commission per la violazione degli account da parte della società di consulenza politica Cambridge Analytica insieme alla successiva indagine antitrust sulla società, puntando sul ravvedimento capitalistico, potesse risolvere il problema. Il filo conduttore ufficiale dello Zuckerberg-pensiero resta sempre lo stesso: il ruolo centrale del social network e della tecnologia nel miglioramento del mondo. “Possono rafforzare il tessuto sociale”. E naturalmente il costante impegno per maggiore trasparenza, miglioramento dei controlli grazie all’intelligenza artificiale e un comitato indipendente di esperti e accademici che monitori quanto accade sul social network”. Perché è vero, disse sempre Zuckerberg, che “le persone sono fondamentalmente buone”, ma “non puoi semplicemente dare alle persone una voce. Devi assicurarti che questa voce non venga usata per interferenze straniere nelle elezioni o per diffondere notizie false”.
Se la stampa tende a dare poco risalto al mondo social, o più esattamente alle notizie riguardanti i social, visto quanto volenti o nolenti se ne fanno quotidianamente portavoce, molto dipende, come nel caso dei politici del Congresso, dai dati anagrafici di un giornalismo vittima privilegiata del digital divide, ma anche allo stesso tempo di quella stessa superficialità (o malafede?) che fece passare per esempio anni fa sotto silenzio la vittoriosa causa condotta da un giovanissimo avvocato austriaco contro Facebook che riuscì a viterae ai colossi digitali di “conservare” negli Usa i dati degli utenti europei raccolti online, una serie di modifiche sostanziali al regime di gestione dei dati personali, o ha sostanzialmente minimizzato (ma uso un eufemismo) la vicenda Assange e Wikileaks.
Ora, e il risalto dato invece alla vicenda Cambridge Analytica lo dimostra, il tentativo, messo in atto con il contributo straordinariamente compulsivo dell’interessato, è quello di far passare l’equazione: Trump uguale tutto il peggio dei social. Forse sarebbe opportuno allora ricordare che a chiamare Zuckerberg per farsi filtrare le domande in campagna elettorale, alle Town Hall, non era stato Trump ma il suo predecessore “democratico” Obama, ed è stato comunque sotto la presidenza Obama che Zuckerberg è diventato quel che è diventato. Così come era stato Obama a non firmare prima di Trump il trattato sull’ambiente a Kyoto. Purtroppo, nello schema appunto da bianco e nero, non c’è posto per la complessità che il reale ci impone e di fronte alla quale sembriamo sempre più impauriti da una parte e incattiviti dall’altra.
Per questo nel sentir dire ora a “americanisti” a pronta presa come Massimo Teodori (già innamorato non corrisposto di Obama al pari di una Giovanna Botteri), l’altra mattina a Radiotre, che il fatto nuovo del caso Minneapolis è la presenza di Trump, viene molto da sobbalzare. Anzi, sobbalzare due volte: primo perché affermare che la violenza americana abbia avuto un’impennata o una recrudescenza negli ultimi quattro anni è una falsità, e secondo perché chi attribuisce la responsabilità di tutto ora a Trump non solo continua a confondere più o meno intenzionalmente la causa con l’effetto ma dimentica colpevolmente che la gran parte dei guai contemporanei -non solo statunitensi, ma direi mondiali, non fosse altro che per il dilagare del terrorismo- sono addebitabili tutti a un personaggio che ha subito come una rimozione dalla memoria collettiva. E chi ha presente l’incredibile campagna a suo favore sostenuta e megafonata a inizio millennio anche dalla componente liberal (magari anche radicali ma con la i finale, però) à la Teodori, dilagata sulla stampa occidentale a favore del chi non è con me è contro di me e di ogni accenno di antibushismo accusato tout court di anti-americanismo, potrà capire bene il perché. Non è un caso che a differenza di quotidiani come il New York Times, ancora nessuno qui da noi, abbia fatto ancora pubblica ammenda per la bufala-pardon, fake news- delle armi di distruzione di massa che dette il via a una spirale di violenza di cui ancora siamo qui ancora a pagare le conseguenze…
Ora, pare che Trump, col solito garbo che lo contraddistingue, sia pronto a limitare l’immunità legale dei social. Ma l’impressione ormai è che l’intreccio politica-social network sia troppo potente, troppo pandemico, troppo egemonico per essere affrontato da una politica che continua a dimostrarsi invece troppo debole, a bassa intensità culturale per dir così, come non mai. In questi tempi amari dove vige la logica del me too e il rispetto della privacy, dove si denunciano con gran facilità offese e male parole e dove si fa a gara per trovare facili gratificazioni social non sembra esserci più posto per gente capace di scuoterci dal conformismo e dalle comodità virtuali. Forse ci farebbe bene ricordare quando il comico e attore Richard Pryor, durante uno spettacolo per omosessuali, poco dopo i disordini di stampo razziale a Los Angeles del 1965, ebbe l’ardire di rivolgersi al pubblico in questo modo:
Dove eravate voi checche quando i neri mettevano a soqquadro Watts? Baciatemi il culo, ricco, felice e nero.
Richard Pryor