«Guarda alla mia venuta, alle prime luci, il quinto giorno. All’alba, guarda a est». Con queste parole, Gandalf imprime fiducia ad Aragorn prima di una delle più grandi battaglie al fosso di Elm contro le orde degli orchi, hurukai e selvaggi ingaggiati da Saruman. Alla prima luce dell’alba, come era stato promesso, accade l’imponderabile: il nemico è come paralizzato da rumori sinistri e oscure presenze giunte alle sue spalle con le prime luci del giorno. Gli orchi sono infatti totalmente circondati, distrutti dalla carica dei cavalieri di Rohan da un lato, sorpresi al fianco da Gandalf alla guida dai soldati di Erkenbrand, e alle spalle dall’oscura foresta vivente di Fangorn.
Tolkien immagina che l’avanzare delle tenebre, dell’oscuro male che inghiotte il reale, possa trovare il proprio katéchon, punto di arresto all’avanzare dell’orda inarrestabile, solo laddove la luce dell’alba da est incontri il proprio orizzonte al tramontare dell’ovest.
Questa visione onirica raccoglie il tempo dilatato della proiezione escatologica e apocalittica dell’esperienza umana terrena, che si misura non solo col tempo cronologico, della possibilità come effettivo accadere. Dall’esperienza tolkieniana trae origine la versione schmittiana, usata nella moderna scienza e teologia politica, di una Europa che nel grande spazio incontra l’Asia, non solo come continuità spaziale. È l’avvicendarsi di una logica temporale naturale, rispetto alla quale l’alba succede al tramonto, come eterno divenire. Secondo questa chiave di lettura, Asia ed Europa non sarebbero in relazione conflittuale tra loro.
La moderna riduzione relazionale al conflitto (fra Russia e Nato) non risolve l’integralità dei rapporti nello spazio eurasiatico. Già Schmitt aveva intravisto nella composizione delle fratture continentali il futuro della centralità politica di questo spazio nelle relazioni internazionali. Nell’attuale dinamica imperiale, l’esistenza di una missione storica o metastorica che eccede largamente il semplice gioco degli interessi pragmatici di uno Stato nazionale avrebbe imposto una visione ragionevolmente nuova. La svolta che si attendeva, però, non c’è stata.
Proprio il conflitto russo-ucraino svela l’inconsistenza dell’agire europeo nella valutazione dei rapporti col mondo russo e asiatico. A partire dal 2003, attraverso la PEV (politica europea di vicinato) l’Unione ha stretto relazioni con sedici Paesi situati a sud e ad est dell’Unione, tra questi Georgia, Armenia e Azerbaigian. Il partenariato orientale, benché strutturato e collaudato, sembra aver fallito alla prova dei fatti. L’instabilità dell’area (Georgia, confine armeno-azero, Ucraina, Moldavia) non giova alla creazione di quella continuità storico-culturale che taluni auspicavano. L’espansione del modello europeo nell’area post-sovietica è un obiettivo primario di Bruxelles dalla fine della Guerra fredda. Dopo una prima generale indifferenza per i Paesi del Caucaso meridionale, subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ha cominciato ad interessarsi di più a quest’area a partire dai primi anni Duemila. Il primo strumento attraverso cui l’UE ha stabilito delle relazioni economiche e politiche con Georgia, Armenia e Azerbaigian è stata la PEV, all’interno della quale l’Unione europea si impegna per facilitare la risoluzione dei frozen conflict che affliggono la regione. La Politica Europea di Vicinato si concentra principalmente sulla prevenzione dei conflitti e sulla ricostruzione post-bellica, più che sulla diretta partecipazione alla risoluzione. La capacità dell’UE nel gestire le questioni legate al ristabilimento della sicurezza interna è maggiore, rispetto alla sua capacità di agire attivamente per trovare una soluzione alle dispute.
Eppure, dopo anni di politiche di buon vicinato, di dialogo cooperativo, il conflitto accade come rottura della faglia di interessi confliggenti tra due placche a spinta simultanea: Europa ed Asia. Lungo questa direttrice la mitologia si fa storia universale. Erodoto, nel IV libro delle sue Storie racconta che l’Europa fosse originaria dell’Asia e non giunse mai fino a quella regione che i greci chiamavano Europa, ma soltanto fino a Creta dalla Fenicia. In ogni caso, il legame sembra scivolare facilmente dal crinale mitologico a quello escatologico, finendo a realizzare il destino di due continenti e dei suoi popoli.
Esulando dagli interessi strettamente geopolitici, che pure guidano gli Stati nelle relazioni nel grande spazio, è nella creazione di blocchi assiologici condivisi che le politiche possono trovare facilmente traduzione. Senza, però, alcuna connessione spirituale le relazioni territoriali deflagrano sotto i colpi del mutamento degli interessi nel cambio dei nuovi assetti, soprattutto in un mondo il cui dinamismo sfugge alla stabilità degli strumenti interpretativi.
In questa prospettiva, laddove la l’Unione avesse potuto contare su reali collaborazioni nel Caucaso meridionale, la Russia non avrebbe avviato alcuna concreta azione militare contro l’Ucraina. È il caso, forse, di attivare, proprio in senso alla PEV, strumenti e moduli del tutto innovativi, così da garantire stabilizzazione all’area oggi più strategica. Come per la sponda mediterranea, anche per il Caucaso, già dal 2004, l’Ue avrebbe dovuto istituire una assemblea dei parlamenti euro-asiatici, con lo scopo di avviare relazioni finalizzate alla creazione di uno spazio politico sul modello delle confederazioni. Scoperta alle spalle, la Russia, la cui vocazione imperiale è pienamente realizzabile e riducibile nell’Eurasia, avrebbe accolto il segno dei tempi. Un grande spazio libero nel quale popoli e civiltà, confinanti e affini, avrebbero condiviso terra e mare, forgiando un nuovo ordine senza egemonia esterna (Usa), ma pienamente impastato di spiritualità e respiro universalizzante.