Il mondo doveva diventare piatto. È un racconto che veniva propagato con il mito di merci, capitali e persone che sarebbero scivolate senza attrito da un capo all’altro del pianeta, di ogni confine ridotto a fastidioso residuo da smantellare. Poi, a un certo punto, le cose sono andate diversamente. I confini non solo non sono scomparsi, si sono moltiplicati e ispessiti, alcuni si sono armati. Sono tornati alla ribalta e cartografati nel saggio “I confini più pericolosi del mondo” (Newton Compton, 2025). Andrea Muratore mappa le faglie sismiche del pianeta e ne diagnostica le mutazioni nel tramonto dell’era unipolare: un interregno caotico che assomiglia in modo inquietante a un Nuovo Medioevo tecnologico.
Se la globalizzazione doveva portare ordine e convergenza, il risultato che abbiamo sotto gli occhi è l’esatto opposto: un aumento esponenziale dell’entropia. Non siamo di fronte a un rassicurante “concerto delle nazioni” come da modello del XIX secolo, né davanti alla stabile e tesa architettura bipolare della Guerra Fredda. Quello che il mondo sta vivendo è un collasso sistemico delle gerarchie. L’America, internamente divisa, si ritrae o colpisce alla cieca; la Cina accumula leve di influenza e apre nuovi corridoi; la Russia gioca di disturbo armando fratture irrisolte. Questo vuoto di potere riconfigura l’emergenza dall’eccezione alla regola amministrativa quotidiana. È la “permacrisi”: uno stato di allerta continua dove pandemia, guerra, crisi energetiche e climatiche si fondono in un unico rumore di fondo, una convergenza di catastrofi.
L’architettura di istituzioni e trattati costruita dopo il 1945, appare oggi come una cattedrale in rovina, i cui riti non sono più condivisi. Le norme e le prassi consolidate per gestire l’ordine internazionale sussistono e sono note, ma occupano una zona tra il reale e il simbolico in cui è possibile celebrarle e ignorarle nello stesso atto. Tutto questo però, riconducibile alla fine di un certo dominio unipolare, non apre al multipolarismo ordinato e armonioso spesso contrappostogli: al posto del modello globalizzato, il mondo si ritrova in un interregno gramsciano in cui un nuovo ordine fatica a nascere. Restano solo un groviglio di appetiti e infrastrutture, una fase apolare, multicaotica, dove l’unica regola è che nessuno ha più davvero il monopolio della forza né dell’immaginario.
Tra le riflessioni sviluppate da Muratore, una delle più suggestive è quella legata alla mutazione dello Stato-Nazione. L’entità giuridica nata dalla Pace di Vestfalia, detentrice del monopolio della forza su un territorio definito, appare oggi erosa da due forze uguali e contrarie che spingono verso una modernità frammentata, quasi un nuovo medioevo. Siamo tornati in un mondo di roccaforti e terre di nessuno: dal basso, la sovranità svanisce in quelli che l’autore definisce “buchi neri” geopolitici. Basta osservare il sud del Mediterraneo. Nel Sahel, le frontiere coloniali sono state erose dall’instabilità, lo stato si ritira mentre al suo posto emergono entità ibride: giunte militari, califfati jihadisti come quello di Boko Haram, o confederazioni fluide che ignorano la legge internazionale. Intere regioni subiscono un processo di de-statualizzazione, dallo Yemen degli Houthi, un “non-Stato” capace però di bloccare i commerci marittimi globali, alla Libia settorializzata tra fazioni rivali. In queste aree, il confine torna a essere sostanzialmente premoderno, lontano dai trattati e dalle cartografie dei bordi da geografia politica: i confini sono mobili e definiti esclusivamente dalla capacità di proiezione militare e di influenza, Muratore rievoca la categoria imperiale cinese del Tianxia (tutto sotto il cielo) o delle orde nomadi; il confine pratico esula da quello teorico e coincide con la proiezione efficace di influenza concreta. Dall’alto, la sovranità statale viene drenata da nuovi attori: le grandi megacorporazioni tecnologiche e i fondi d’investimento. Questi soggetti operano trasversalmente ai confini, impongono standard che obbligano le leggi a negoziare e possiedono una capacità di influenza che spesso supera quella dei governi.
Ma nel nuovo Medioevo di Muratore, le fortezze sono principalmente tecnologiche. I centri di potere strategico sono impianti produttivi di semiconduttori e data center, nominarla è obbligatorio: Taiwan. L’isola è custode di una risorsa critica, i semiconduttori avanzati. La TSMC produce il 90% dei chip logici più avanzati al mondo, rendendo l’isola una roccaforte la cui difesa o conquista, può determinare l’egemonia globale. Attorno a questi asset si muovono i moderni contractor militari, come la Wagner (Africa Corps) o i gruppi di hacker statali, utilizzati per condurre guerre ibride e “negabili”. Le vie di comunicazione di questo sistema sono i cavi sottomarini in fibra ottica. Negli abissi transitano il 99% delle comunicazioni e delle transazioni finanziarie per mezzo di queste infrastrutture: controllare i cavi e gli snodi permette di detenere un potere di interdizione enorme, potendo isolare potenzialmente una nazione dal sistema globale. L’Italia assume una centralità geografica spesso sottovalutata. Una delle riflessioni del libro più vicine a noi riguarda la posizione italiana. Muratore evita sia la retorica dell’irrilevanza, sia quella del “ritorno al centro del mondo”. L’Italia è centrale per caso: la Sicilia, con il SicilyHub di Palermo, è il nodo dove si incrociano i dati tra Europa, Africa e Asia, un asset difeso dalla base di Sigonella e dal sistema satellitare MUOS di Niscemi. È un’infrastruttura critica di rilevanza mondiale che il nostro Paese ospita e che rende la Sicilia più americana che italiana, almeno per pertinenza strategica. Il problema non è tanto essere ponte – lo siamo da sempre – quanto non avere più un centro politico capace di decidere a cosa, e a chi, quel ponte serva. Il libro non si perde in un antiamericanismo caricaturale, ma mostra con discreta crudeltà come l’Italia sia riuscita a ridursi a infrastruttura altrui, senza nemmeno rivendicare un pedaggio politico.
Ciò che cambia in maniera drastica è la natura del confine. Nel XXI secolo, la frontiera torna ad essere limes nell’accezione classica: per i romani il confine non era una barriera fredda e concordata ma fondamentalmente una zona di contatto dove proiettare la propria potenza. Il confine è ovunque: nel Donbass, a Gaza e in Libano, nell’Artico e dentro le nostre stesse società. Questa proliferazione di confini genera un attrito ulteriore. Tentare di imporre ordine tramite sanzioni, blocchi tecnologici o interventi militari spesso accelera il disordine, il sistema è surriscaldato e la distinzione tra pace e guerra sfuma in una zona grigia permanente fatta di sabotaggi alle infrastrutture e strategie di guerra ibrida dal cyberattacco alla lotta per l’informazione.
Qual è la direzione di questo “mondo apolare”? Non ci sono facili rassicurazioni, l’idea che l’interdipendenza commerciale avrebbe garantito la pace si è scontrata con il ritorno della politica di potenza. Le catene del valore globali, pensate per legare gli Stati in un destino comune, hanno solo esposto ulteriori zone di pressione geopolitica. E mentre la globalizzazione si riconfigura, i BRICS+ restano a osservare senza proiettare una volontà decisa, confinandosi – anche loro – a mera alleanza economica. I punti di rottura si intensificano. Il testo di Muratore può essere letto come un elenco di luoghi dove non andare in vacanza, oppure come un avvertimento: la nostra vacanza dalla Storia è finita.