Ci siamo, è novembre, le foglie degli aceri si tingono del colore del mosto, l’erica assume tinte brunescenti, i margheritoni gialli crescono spontanei sui cigli delle strade della Brianza lecchese, e la mia mente corre a Ercole Patti, l’autore di “Un bellissimo novembre”. Scrittore etneo già stradimenticato, è vero; ma anche Moravia, incomparabilmente più noto, nel frattempo è diventato uno spettro muto: destino della letteratura nell’epoca dell’accelerazione vorticosa dei tempi, quando la memoria non sta dietro alle cose di ieri, tanto più a quelle dell’altro ieri.
Quando andai via per sempre, alla fine dei Settanta, dalla città natale lastricata di nera lava addossata ai piedi del vulcano, Patti era già stato scordato dagli stessi abitanti di Catania benché avesse goduto di una certa fama nel ventennio precedente. Era morto qualche anno prima ed ebbi appena il tempo di vedere scolorire gli avvisi di lutto, con le due bande nere sotto e sopra e il suo nome nel mezzo, affissi in via Vittorio Emanuele, all’altezza della libreria dei parenti Patti, quando lui ci lasciò per sempre in un giorno di novembre, com’era destino che fosse. (Il romanzo si conclude il 15 novembre del 1925, la vita di Patti il 15 di novembre del 1976).
Come Brancati Ercole Patti abitò a Roma per molti anni, fu lo sceneggiatore di numerosi film di Camerini, e anche uno di quegli scrittori e sceneggiatori che si radunavano attorno a un tavolo da Rosati o nei caffè di Via Veneto che ispirarono la “dolce vita” e di cui accenna nei suoi libri un giovanissimo Arbasino che lo stimò e con cui usciva spesso la sera. A proposito di Arbasino credo che si potrebbe estendere a Patti questo suo giudizio (ne “L’anonimo lombardo”): “Se voglio bene a Brancati e Moravia sarà anche perché riescono spesso a non dare questa impressione di teoria applicata, di prodotto non finito, di soufflé che non sta su”. Ricordo anche ciò che scrisse Montale del Patti di “Un amore a Roma”:
L’ispirazione spesso sembra morderlo come una tarantola, scuoterlo da un sonno atavico; e in quei momenti è impossibile scrivere meglio di lui, con più scaltra misura, con gusto più perfetto». «Il suo modo di narrare sembra l’uovo di Colombo: sembra alla portata di tutti e invece appartiene a lui solo.
Eugenio Montale, “Il secondo mestiere”, pp. 1971-1973
Ma qual è il nucleo tematico di “Un bellissimo novembre”?
Siccome è sempre faticoso o scocciante riassumere un libro, lascio l’incombenza ancora a Eugenio Montale, che scrisse spesso e volentieri sulle opere di Patti.
Siamo in una villa a pochi passi da Catania. C’è un ragazzo di sedici anni e una sua piacente zia ventisettenne che gli si concede un paio di volte, tra scappa e fuggi, senza riflettere. Poi il ragazzo si scalda, mentre la zia si riprende, anche perché è sposata e teme le chiacchiere. Quando torneranno in città non dovranno vedersi più. Ma sullo scorcio del bellissimo novembre la zia si lascia sorprendere tra le braccia del baffuto cacciatore Sasà Santagati, un seduttore da strapazzo. E Nino, che ha veduto tutto, fugge inorridito anche più del giusto, e si butta o si lascia andare in un burrone. Morirà probabilmente, ma non ne siamo certi.
Eugenio Montale
Il tema portante di “Un bellissimo novembre” è quel momento magico dell’iniziazione sessuale del maschio, di quella prima conoscenza carnale che segnerà la sua sensibilità per sempre, se riuscirà a sopravvivervi dal punto di vista emotivo e psichico (Nino ebbe una sorte tragica e non andò oltre). Il tema dell’educazione sessuale e sentimentale di un giovane per mano di una donna matura, è capitale nelle opere di molti artisti, ed ha avuto i suoi cantori sia al cinema (“Il laureato”) sia nella canzone (“Diciotto Anni” cantata da Dalida), sia ancor più in letteratura. Ricordo per restare a casa nostra l’indimenticabile “Agostino” di Moravia e soprattutto il racconto postumo di Flaubert, che per pura coincidenza o forse no, si intitola giustappunto “Novembre”, dov’è narrata la “prima volta” di un giovane sedotto da una donna matura. Questo momento magico della conoscenza carnale è narrato in letteratura perlopiù dalla parte del maschio (poco o nulla sappiamo dell’altra metà del cielo a parte la canzone di Dalida che rispecchia il punto di vista femminile certamente, ma non racconta la “propria” iniziazione sessuale). È uno spartiacque indelebile nella coscienza maschile forse perché spetta a lui, al maschio, l’“onere della prova”. Ed è per questo che per tutto il resto della sua vita è un esame che non dimenticherà mai. L’esame con le donne mature è insomma come l’esame di … maturità.
Questo tipo di amore, è detto ipergamico da Italo Calvino in un suo saggio sui classici della letteratura. La differenza di età varia a seconda dei tempi, ieri bastava che la donna avesse trent’anni per essere considerata matura (qui Cettina ha appena 28 anni, Montale le dà un anno di meno), oggi il limite si è spostato più in là, oltre gli “anta”. Forse la generazione dei nati attorno agli anni ’40 del secolo scorso (quella del ’68 per intenderci) è stata la prima in assoluto in Occidente per la quale sia l’ educazione sentimentale che l’ educazione sessuale sono coincise e sono avvenute contestualmente tra coetanei, all’interno della cosiddetta “comunità dei pari”. Ma ai tempi di Patti o andando più indietro, senza che peraltro muti lo scenario, ai tempi di Flaubert per esempio, l’iniziazione sessuale dei giovani avviene tipicamente o all’interno della famiglia (la zia di “Un bellissimo novembre”, “La cugina” dell’omonimo romanzo sempre di Patti), o con la servitù, o nei postriboli, e infine tramite le soccorrevoli cure di amori ipergamici occasionali. Le cosiddette MILF ( Mother I’d Like to Fuck), che prima di essere un genere pornografico di cui, ça va sans dire, non ho nozione diretta, è con ogni evidenza una delle forme in cui si fissa, particolarmente e storicamente, la libido maschile.
L’amore ipergamico ha una certa incidenza nelle lettere francesi: il capostipite è quello tra Madame de Warens e Rousseau raccontatoci nelle “Confessioni” dal filosofo ginevrino: un altro, celebre, è quello tra Madame de Rênal e Julien Sorel nel “Rosso e nero”, infine quello classico tra Frédéric Moreau e Madame Arnoux de “L’educazione sentimentale”. Possiamo dedurre da ciò che la “Femme de trente ans” (titolo di un romanzo di Balzac) attizzi particolarmente il giovane francese dell’Ottocento? La questione è forse, come si accennava su, più terra terra: una così consistente produzione letteraria probabilmente registra un mero fatto sociale. L’iniziazione sessuale del maschio in quel torno di tempo avveniva nei modi appena detti: con donne mature, ed era perciò fatale che lasciasse traccia nella coscienza creatrice degli scrittori.
Quanto all’amore ancillare esso è pratica corrente soprattutto presso i rampolli della classe aristocratica o dell’alta borghesia, classi che potevano permettersi la presenza e il pernottamento della servitù sotto lo stesso tetto. Tale pratica fa parte dello sfruttamento delle risorse, anche sessuali, dei subalterni, che la classe borghese non esita a fare propria non appena giunta al potere né più né meno come quella aristocratica. Flaubert, come racconta ai Goncourt, perse l’innocenza, diciamo così, con la cameriera della madre (difficile non credere che non ci fosse stata un’occulta regia materna). Analogamente Alexis de Tocqueville, dopo aver messa incinta una domestica da cui ebbe un figlio naturale, venne premiato con un viaggio in Sicilia, e finì per aggirarsi proprio nella zona di “Un bellissimo novembre” dove da par suo, anticipando l’osservazione partecipante della “Democrazia in America” comincia ad accennare ai precisi rapporti tra gli assetti politici e quelli socio-economici derivanti, in questo caso, dalla piccola proprietà contadina molto diffusa nella fascia pedemontana dell’Etna.
Ancora amori ancillari sono rappresentati in “Paolo il caldo” di Vitaliano Brancati; nella prima parte del romanzo, all’epoca dell’adolescenza, Paolo Castorini percorre in bicicletta tutta la città per raggiungere una fantesca di casa che gli aveva offerto le sue grazie. Ma il trionfo degli amori ancillari e dell’erotismo etneo è nel film di Salvatore Samperi “Malizia” (1973), girato ad Acireale, e dove, nella casa borghese di Turi Ferro, sia il padre che il giovanissimo figlio interpretato dal povero Alessandro Momo, si contendono i favori sessuali di una strepitosa cameriera interpretata da una indimenticabile Laura Antonelli. Alla lista dell’erotismo etneo di cui ho tentato qui un piccolo abbozzo si potrebbe aggiungere “Cento colpi di spazzola”, il best seller di Melissa P. in cui alcune scene si svolgono proprio in zona “Bellissimo novembre” nelle villette alle pendici dell’Etna. Ma in effetti qui siamo più in zona “Porci con le ali”, ossia nell’azzardo semi-porno della comunità dei coetanei venuto su con la rivoluzione sessuale degli anni Sessanta, piuttosto che nell’atmosfera degli amori sfiorati, elegiaci, ipergamici, novembrini ma non meno sensuali della tradizione letteraria di Ercole Patti e Gustave Flaubert.