L'editoriale

Un bambino a cavallo d'un cannone

Pubblichiamo un estratto di Segretissimo - Una storia del Novecento da Kim a Le Carré, l'ultimo libro di Diego Gabutti, da oggi disponibile sul sito Dissipatio.
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Se la faceva con tizi che conducevano un’esistenza più bizzarra di qualunque fantasia di Harún ar-Raschid, ed era a sua volta immerso in una vita avventurosa degna delle Mille e una notte. 

Rudyard Kipling, Kim 

Rudyard Kipling pubblica Kim nel 1901. È la prima grande spy story. Ci sono già state molte storie di spie, naturalmente, e presto ce ne saranno altre ancora, a valanga, fino a straripare, tra le due guerre e dopo, nelle librerie e nelle edicole delle stazioni. Alcune voleranno alto nei cieli della grande letteratura (Ashenden l’inglese di W. Somerset Maugham, Il fattore umano di Graham Greene, From Russia with Love e le storie brevi di Ian Fleming, Lettera al Cremlino e L’esecutore-ombra di Noel Behn, la trilogia di Smiley e Casa Russia di John Le Carré). Ma niente è paragonabile a Kim. Kim è un’esperienza originaria, e tutto ne deriva, come la poesia occidentale da Omero, e mezzo cinema moderno dal poncho (e dal mulo) di Clint Eastwood in Per un pugno di dollari

Ottant’anni prima, nel 1821, era apparso The Spy di James Fenimore Cooper, da noi La Spia, o L’agente segreto (dove si scopre che sotto la barba finta di «Mr. Harper», l’enigmatico personaggio intorno al quale ruota la trama del romanzo mentre intorno infuria la rivoluzione americana, Sua Maestà da una parte, i ribelli dall’altra, c’è George Washington, niente meno). Nel 1907, sei anni dopo Kim, appare The Secret Agent. A Simple Tale di Joseph Conrad, da noi L’agente segreto, storia d’un falso attentato anarchico organizzato a Londra dai servizi segreti d’un paese innominato (ma naturalmente la Russia: la Guerra Fredda viene da lontano, come vedremo tra poco). Ancora Conrad, nel 1911, pubblica Under Western Eyes, da noi Con (o Sotto) gli occhi dell’Occidente, che è contemporaneamente una riscrittura dei Demoni di Dostoevskij e un sequel di Kim ambientato in Europa. Senza la profondità di Dostoevskij, senza gli indimenticabili personaggi di Kipling, e senza il suo scanzonato esotismo, anche il romanzo di Conrad è una storia originaria – la prima «localizzazione» extra indiana del Great Game, il Grande gioco: l’espansionismo russo (a breve sovietico) da una parte, l’Union Jack dall’altra e le reti spionistiche nel mezzo. Sia Con gli occhi dell’Occidente che La spia sono diventati dei classici. Ma la classicità di Kim è di una classe superiore. A differenza di The Spy, Kim non vuole perorare una causa, nemmeno quella del diritto all’autogoverno e al perseguimento della felicità; e a differenza di The Secret Agent non è il cupo, profetico ritratto dei prodromi dell’equilibrio atomico a venire, e neppure il solito, retorico sguardo storto al lato oscuro della condizione umana. Kim è un romanzo luminoso, solare, come Tom Sawyer, come Pippi Calzelunghe, come L’isola del tesoro o, meglio, come Le avventure di Tintin

In trasparenza, dietro il Grande Gioco, c’è il gioco piccolo, il gioco e basta, senza l’ingombro e la gravità delle maiuscole: «Era il gioco per il gioco ad attirare Kim: arrampicarsi su per un condotto dell’acqua, aggirarsi furtivo al buio per vicoli e canali di scolo, fughe a precipizio di tetto in tetto col favore delle tenebre infuocate, e suoni e immagini del mondo femminile sulle tettoie piatte». C’è il conflitto politico, naturalmente: lo Zar è intenzionato a scippare cinque regni indiani del nord – confinanti con l’Himalaya, un tiro di schioppo dal Tibet – a Sua Maestà Vittoria, Regina di Gran Bretagna e d’Irlanda e Imperatrice dell’India (Kim si svolge intorno al 1880). Ma è un conflitto privo di solennità, senza caramellosità patriottiche, e visto attraverso gli occhi d’un bambino. Kimball O’Hara, giovane «sahib» orfano d’un massone ma indiano fino al midollo, cresciuto nelle strade di Lahore allo stato brado, coccolato da fachiri, ladri e prostitute, è l’equivalente urbano di Mowgli, il «ragazzo selvaggio» del Libro della giungla, l’altro freak bambino di Kipling. Kim – che in apertura di romanzo, «in barba alle ordinanze municipali», appare «a cavallo del cannone Zam-Zammah che su un basamento di mattoni fronteggia il vecchio Ajaib-gher, o Casa delle Meraviglie, come gli indigeni chiamano il museo di Lahore» – è Peter Pan, e gli agenti zaristi, camuffati da esploratori e geologi, sono l’equivalente dei pirati all’obbedienza di Capitan Uncino. È così che hanno inizio le moderne spy stories: a Lahore, di fronte alla Casa delle Meraviglie, come la chiamano gl’indigeni, con un bambino a cavallo d’un cannone. 

Alla morte dei genitori, una bambinaia inglese e un sergente irlandese, il piccolo Kimball O’Hara si perde tra le moltitudini dell’India, dove vive d’astuzie e d’elemosine, perfettamente mimetizzato nell’ambiente, più indù di qualsivoglia indù. «Per i rioni», scrive Kipling, «Kim era soprannominato “Piccolo Amico di tutto il Mondo”; e siccome era un’anguilla e non dava nell’occhio, spesso e volentieri eseguiva commissioni notturne sui tetti affollati per conto di bellimbusti impomatati e lustri». Uno scopritore di talenti, nome in codice «C.25», al secolo Mahbub Alì, avventuriero e mercante di cavalli, lo segnala ai residenti dell’Intelligence, che provvedono sull’istante a reclutarlo. Natural Born Spy: Kim è perfetto per il servizio segreto. «Non si sente perfetto per la CIA, Higgins?» chiede John Houseman, nei Tre giorni del Condor, a Cliff Robertson, che si schernisce un po’, fingendosi modesto. A Kim non c’è bisogno di chiedere, e nel caso lui risponderebbe «sì, sono perfetto per l’Intelligence». Kim è nato per spiare. Curioso, prossimo (quando vuole) all’invisibilità, Kim è leale, scaltro, generoso, spericolato ma all’occorrenza prudente e, quel che più conta, è il Piccolo Amico di Tutto il Mondo, come lo chiamano negli slum di Lahore, dov’è di casa. È irresistibile, una star. Sean Connery bambino. 

«Di tanto in tanto Dio fa nascere uomini – e tu sei uno di quelli – che hanno la fregola di avventurarsi per il mondo a rischio della pelle alla scoperta di segreti: oggi si tratterà di cose remote, domani di una montagna nascosta, e il giorno dopo ancora di qualcuno che a due passi di qui ha commesso una marachella contro lo Stato. Individui del genere sono rarissimi e, nel novero, una decina al più di prim’ordine». 

Mezzo secolo prima che le spy stories prendano forma nei fumetti, al cinema e nei pulp, quando le guerre segrete conservano il loro antico mistero e non sono ancora cresciute a brutale (ma efficace) metafora del nostro tempo, Kim viene iniziato alle figure dei tarocchi del Great Game. Impara a riconoscere i Maghi, le Papesse e gl’Imperatori, gl’Impiccati, gli Eremiti, gli Amanti, i Carri, gli Angeli, i Bagatti e – last but not least – il Diavolo, naturalmente. Agente segreto naturale, Kim s’unisce alla compagnia di giro, destinata a ingigantirsi nel tempo, degli Arcani Maggiori dello spionaggio. Prende posto nel conflitto d’ombre che oppone l’impero russo a quello britannico nel nord dell’India, giù nelle pianure afghane e su nelle montagne vertiginose del Tibet, tetto del mondo, per il controllo della regione (lo zar vuole uno sbocco sul mare, la Regina preferisce di no). 

Come racconta nei suoi libri lo storico e giornalista Peter Hopkirk, autore di classici come Alla Conquista di Lhasa e Avanzando nell’Oriente in fiamme, in Asia centrale si gioca una decisiva partita geopolitica (tuttora in corso, come certi poker che durano anni: qualche giocatore rimane, altri cambiano, talvolta cambiano tutti, ma la partita continua). Prima ancora che Kipling consegni questa definizione alla storia della letteratura, la stampa inglese già chiama Grande Gioco le avventure e le imprese dei servizi segreti nel lontano e imperscrutabile Oriente. Nei decenni compresi tra il Congresso di Vienna e l’alba del nuovo secolo, mentre «la vieille Europe» (così la chiamava Napoleone, convinto com’era d’incarnare la giovinezza del mondo) conosce il più lungo periodo di pace e stabilità della sua storia, l’impero zarista e la Corona inglese s’affrontano nei territori dell’antica Via della Seta. È uno scontro indiretto, ma senza esclusione di colpi. Mosca e Londra s’affidano alle spie, fomentano le guerriglie, lasciano che a prendersi per le corna siano i loro alleati. È la prova generale della guerra fredda come (mercé le spy stories) la conosceremo nella seconda metà del secolo breve. Al pari d’ogni altro gioco, anche il Grande Gioco ha una posta. Chi conquisterà alla propria causa l’alleato giusto, o priverà d’un alleato influente l’avversario, qui rovesciando una dinastia, là incoronandone un’altra, controllerà le regioni del mondo di fronte alle quali si spalancano le fertili e brulicanti pianure e foreste indiane, che al momento sono dominate dai funzionari, dall’esercito, dagl’insegnanti e dai preti della corona inglese, ma chissà che la fortuna non giri e che lo zar non abbia la sua occasione, congiurano i servizi segreti moscoviti. Da una parte il Re Nero, dall’altra il Re Bianco, come negli scacchi, un gioco che secondo la tradizione è nato, qualche millennio prima, proprio in India, nelle giungle nere, all’ombra delle pagode. Gl’inglesi giocano in difesa, i russi all’attacco: i primi non ammettono sorprese da parte di potenze parvenues, i secondi cercano un posto al sole nella storia del mondo. Ciascuno mobilita il suo esercito di fantasmi. Mercanti e avventurieri, giornalisti, agenti confidenziali, esploratori e scienziati, ufficiali e gentiluomini: al servizio della Regina o dello zar, le pedine del Great Game s’affrontano nei mercati afghani, si scambiano revolverate sui passi innevati che collegano tra loro valli nepalesi a lungo credute inaccessibili, si prendono a coltellate nei caravanserragli cinesi e in sperduti villaggi tibetani, si mostrano i denti negli antichi territori della Via della Seta, nel Turkmenistan, nell’Azerbaigian, nel Tagikistan. C’è qui già tutta la spy story a venire. Per cominciare l’ambientazione esotica, da cartolina illustrata, poiché le partite segrete hanno per fronte il pianeta intero, e allora tanto vale combatterle in Giamaica, per dire, o a Miami, sulla Costa Azzurra, a Venezia. C’è poi il grande nemico, ossia la Russia, prima zarista e poi bolscevica, che proprio a partire da Kim, su su fino alla caduta del Muro di Berlino, a La Casa Russia di John Le Carré e a Putin in Ucraina, assume il suo ruolo definitivo d’antitesi dell’Occidente – noi The Yellow Submarine, come nel cartoon dei Beatles, e le agenzie russe di spionaggio i Biechi Blu. 

Kim, la più bella spy story mai scritta, in realtà non è soltanto una spy story, anzi è forse tutt’altro che una storia di spie o, meglio, prima che una spy story è uno sfarzoso e coloratissimo affresco della vita indiana, dei suoi costumi e delle sue religioni, a metà tra una guida Lonely Planet e un trattato etnografico. Certo, come in tutte le spy story ci sono missioni e travestimenti, «McGuffin», maschere e pugnali. Ma soprattutto c’è l’India dei templi profumati d’incenso delle grandi strade pullulanti e chiassose, dei treni sbuffanti, dei santoni, dei caravanserragli e dei bazar, delle baiadere. 

«Era tutto godimento allo stato puro: la strada sinuosa, rampicante, digradante, che circuiva gli speroni sempre più numerosi; i rossori del mattino sulle lontane cime innevate; i cacti ramificati, fila dopo fila sui pendii petrosi; le voci di mille rivoli; gli schiamazzi delle scimmie; le solenni deodare, che si arrampicavano l’una dopo l’altra con i loro rami penduli; la vista della pianura srotolata in lontananza ai loro piedi; l’incessante clangore di tromba dei tonga e la folle fuga dei cavalli di testa quando un tonga imboccava una curva; le soste per le preghiere; i convegni serali nei luoghi di sosta, quando i cammelli e i buoi ruminavano solennemente insieme e i flemmatici conducenti si scambiavano notizie sulla Strada: tutto questo faceva cantare il cuore in petto a Kim». 

È un’India ricca di personaggi memorabili, d’angoli inesplorati, di storie raccontate intorno al fuoco dei bivacchi: è l’equivalente esotico della Londra dickensiana, che ha ispira Kipling come ogni altro romanziere dell’epoca. (In primis, naturalmente, Dostoevskij, che ambienta i suoi romanzi, a cominciare dalle Notti bianche e da Delitto e castigo, in una sorta di Londra dickensiana dark, la stessa «Baghdad occidentale» che presto ritroveremo nelle storie «weird» di Robert Louis Stevenson: la Londra dei ladri di cadaveri, del club dei suicidi o dello strano caso del «dottore impasticcato», come Bill Burroughs chiama l’Hulk originario: Henry Jekyll, per metà medico stile Ong strappacore e per metà monster hollywoodiano). Kim è la descrizione puntuale di quella zona di confine, tra India e impero, tra indigeni e sahib, dove le differenze sfumano, fino a sparire, o dove d’un tratto non contano più. Qui l’inglese si trasforma in indù e viceversa. Non per sempre, ma almeno per un po’, differenze e disuguaglianze svaniscono, come brutti sogni. L’India di Kim – figlio d’un sottufficiale affiliato alla massoneria, che morendo vorrebbe affidarlo alle cure del tempio: «il grande Jadoo-gher bianco e turchino, o Casa Magica, come chiamiamo noi la loggia massonica» – è anche l’India dei teosofi e dei massoni, potenti nei ranghi dell’amministrazione e dell’esercito. Massoni e teosofi praticano, ma soprattutto invocano, al pari d’ogni altro convertito a una setta profetica prima di loro, un nuovo «sincretismo» religioso (come vedremo meglio nel prossimo capitolo, ragionando di Madame Blavatsky e dei suoi club à miracles). La massoneria d’obbedienza teosofica è in qualche modo il tentativo d’immaginare una nuova religione capace di conciliare la torva dogmatica cristiana col fantasy teologico orientale: il Buddha e Gesù, il Nirvana e l’aldilà, il monachesimo e il lamaismo, la Trinità e la Trimurti. Sono tempi complicati, e per tenere insieme gl’imperi non bastano le cannoniere. C’è bisogno d’un Pantheon, sul modello imperiale romano: una religione o anche soltanto una cultura comune, condivisa da metropoli e colonie, onde evitare conflitti sanguinosi e irreparabili (come in Terra Santa dall’Esodo in avanti, una jihad dopo l’altra, all’infinito). Be’, è un’idea interessante, ma s’è visto com’è andata a finire. 

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Diego Gabutti

Saggista, romanziere, ma soprattutto lettore. L'autore di Segretissimo lascia da parte le pillole biografiche scegliendo di raccontare il suo gusto, e non i suoi traguardi.

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