Al di là del risultato, il sistema elettorale americano si conferma fragile e lento. Ancora si contano i voti, infatti, alle elezioni di midterm dove si giocano gli equilibri della Camera – si vota per eleggere i deputati nei 435 seggi – e del Senato – si rielegge un terzo dei componenti – e con essi il futuro dell’azione politica della presidenza Biden. Ogni Stato vota separatamente e non tutti gli Stati hanno lo stesso metodo di voto. Per tutti è necessario registrarsi, in alcuni stati la possibilità di farlo si è chiusa prima dell’8 novembre, in altri ci si può registrare anche nel giorno del voto.
Il valore delle elezioni di metà mandato è sempre doppio. Dal punto di vista politico sono un giudizio sull’operato del presidente e un possibile quadro di ciò che saranno i due anni verso le nuove elezioni presidenziali fissate per il 2024. Exit pool e sondaggi hanno dato in netto vantaggio “l’armata rossa”. Se i Repubblicani di metà mandato saranno in grado di conquistare anche il Senato, oltre alla Camera dei Rappresentanti, dovremo aspettare per dirlo. Certamente, il dato che emerge va letto sotto una duplice chiave interpretativa: da un lato la palese difficoltà di Biden e della sua squadra di condurre la campagna elettorale secondo un registro innovativo e originale, dall’altro, nonostante la vittoria, l’appiattimento del GOP sulla figura e sulle posizioni ideologiche dell’ex presidente Trump. Per ora, stando ai risultati delle proiezioni che giungono dagli Usa, sembra profilarsi un pareggio che sorride più ai repubblicani, con un Congresso incapace di esercitare un forte ruolo legislativo. Se Sparta piange, però, Atene non può certo sorridere. Laddove, infatti, anche Camera e Senato andassero al partito repubblicano, di sicuro il risultato di Biden non sarebbe comunque pessimo.
Lo stato di salute della democrazia americana è appeso, in qualche modo, più che al meccanismo del sistema di voto e corrispettiva traduzione in seggi, sicuramente al dinamismo dei due partiti. Anche se, utilizzando le categorie adottate dai politologi, sono da considerare due cartel party, ovvero macchine elettorali e pubblicitarie asservite ai candidati più che ai contenuti ideologico-politici, il dinamismo e la capacità di leggere, interpretare e tradurre le istanze dei cittadini rappresenta il vero elemento discretivo per la vittoria o la sconfitta dell’una o dell’altra fazione. Il trionfo di Ron De Santis in Florida – possibile sfidante di Trump alle primarie GOP – e una non brillante prestazione di tanti candidati che avevano avuto il vigoroso endorsement dell’ex-presidente, agitano l’anima repubblicana e sembrano indirizzare verso considerazioni più benigne sullo stato di salute di questo partito. In Pennsylvania, invece, contro il dottor Mehmet Oz vince John Fetterman che tiene aperta la speranza di Biden di mantenere il controllo del Senato. La festa nello Stato è completa con l’elezione a governatore del Dem Josh Shapiro contro il trumpiano Doug Mastriano. La Georgia è uno Stato chiave, a questo punto decisivo per il controllo della camera alta, e la corsa serratissima. Così come in Arizona. Sorprende tutti la tenuta dei democratici, sospinti dall’onnipresente mentore Barack Obama, fuori da ogni aspettativa a leggere i sondaggi di due giorni fa.
I democratici, al di là dei facili ottimismi, devono farsi un esame di coscienza. La classe dirigente è vecchia, impreparata e a tratti inesperta, pur conservando punte d’eccellenza. Sul fronte opposto, i Repubblicani devono guardare fuori, anzi oltre. La vittoria alla Camera in qualche Stato importante, senza l’aspettato cappotto, segnala la frattura ancora aperta dopo Capitol Hill tra la frangia trumpiana e l’ala moderata del partito. Anche in questo campo c’è da lavorare, probabilmente con maggiore determinazione, autentica responsabilità, certosino rigore. Come sottolineato da Ian Bremmer, vecchia volpe della scienza politica, Donald Trump esce considerevolmente indebolito da questi risultati. Quasi tutti i suoi candidati preferiti hanno avuto delle performance deludenti. I midterm, però, saranno ricordati anche per sorprendenti risultati ottenuti da alcuni candidati. Mullin, Moore, Healey, Roesener, Frost: tutti eletti che concorrevano per la prima volta. Il primo senatore della tribù Cherokee, il primo governatore afroamericano del Maryland, la prima governatrice lesbica, il primo membro della generazione Z a ottenere un posto al Congresso.
Trump perde, ma il trumpismo resiste dunque. L’ondata di rifiuto verso il 45esimo presidente che aveva portato all’elezione del candidato del ritorno all’ordine, Joe Biden, sembra aver esaurito la sua potenza. Le istanze trumpiane possono dirsi tutt’altro che sconfitte. E una nuova generazione di repubblicani sembra essere in grado di capitalizzare sulle lotte e le narrative del Presidente più discontinuo dal secondo dopoguerra a oggi. L’egemonia culturale democratica, personificata da Obama, fatta di un’attenzione spasmodica ai diritti delle minoranze, oltre che di una controversa volontà di riscrivere la storia, non può dirsi riaffermata nel segno di Biden. Il popolo americano non ha abbandonato l’idea del cambio di paradigma, ma Trump non è più il suo portavoce. Serve qualcuno che non stressi più il sistema con la forza del tycoon newyorkese, specie in un’epoca dove già ci pensa il susseguirsi di crisi – pandemica ed energetica – a dare grattacapi. In un periodo storico del genere Trump non funziona più: è il momento della new-gen Rep.