Il 3 novembre è ormai alle porte ed è giunto il momento di rispondere ad una domanda fondamentale: Trump è riuscito a rendere l’America di nuovo grande? Il miliardario repubblicano era stato eletto dall’America profonda e dalla destra religiosa per fermare il lento declino culturale e geopolitico dell’impero americano e riportarlo sulla strada della crescita. Una missione difficile, quasi impossibile, perché l’ordine internazionale sta muovendosi verso il multipolarismo e la sovraestensione imperiale degli Stati Uniti pesa come un macigno sul debito e sulla stabilità macroeconomica nel lungo periodo.
Inoltre, contrariamente all’epoca della guerra fredda, non si tratta di Stati Uniti contro Unione Sovietica, un’iperpotenza militare con l’economia di un nano, ma di Stati Uniti contro Cina – una superpotenza emergente, giovane e ricca di potenzialità – e una serie di piccole e medie potenze che, a vario titolo e in modo differente, minano le fondamenta della pax americana. Lo stesso Occidente non è mai stato così frammentato e diviso da rivalità: non è stato semplice convincere i governanti dell’Unione Europea ad accettare la scelta di campo nello scontro egemonico contro la Cina, il malcontento continua a serpeggiare nel seno dell’asse francotedesco che vorrebbe emancipare il Vecchio Continente dal controllo statunitense e, ultimo ma non meno importante, l’europeismo sta assumendo venature sempre più antiamericane.
Trump doveva affrontare, e ha affrontato, una serie di sfide egualmente importanti: dai rapporti complicati con l’Ue alla questione iraniana, dalla resistenza della sinistra anti-imperialista in America Latina al dossier Cina, passando per Russia, turbolenze economiche, pandemia e instabilità sociale. Rendere l’America di nuovo grande era, ed è, un obiettivo tutt’altro che a portata di mano, eppure, Trump ce l’ha (quasi) fatta. Cerchiamo di capire perché. Le ambizioni di grandezza dell’asse francotedesco sono state ridimensionate sia a livello europeo che extraeuropeo. All’interno dell’Ue, Trump ha saputo sfruttare egregiamente le capacità della manovalanza al servizio di Washington, ossia l’alleanza Visegrad e i Paesi Baltici, per impedire che Emmanuel Macron e Angela Merkel normalizzassero le relazioni bilaterali con Mosca, spostando ad Est il baricentro dell’Alleanza Atlantica e facendo leva su una serie di scandali, da Skripal a Navalny, per peggiorare ulteriormente il clima di dialogo eurorusso.
A livello extraeuropeo, sotto la minaccia del ricatto (guerra commerciale), Trump ha convinto il duo Merkel-Macron a omologare la propria agenda estera a quella della Casa Bianca: dal Venezuela all’Iran, passando per la Cina. I due statisti continuano a immaginare un’Europa indipendente, libera nelle proprie scelte di fare affari e stringere partenariati e, possibilmente, autonoma dal punto di vista della sicurezza militare, ma la loro visione è rimasta circoscritta al dominio dei sogni, impossibile da concretizzare per via di una combinazione letale di codardia e debolezza.
Il secondo teatro geopolitico in cui Trump ha raggiunto dei risultati eccezionali è indubbiamente l’area Medio Oriente e Nord Africa. Il presidente americano ha convinto le petromonarchie a svelare al mondo la loro alleanza segreta con Israele, ormai in piedi da un trentennio, dando vita a un sistema di potere macro-regionale, ruotante attorno agli accordi di Abramo, che servirà una sequela di obiettivi: il disimpegno strategico delle forze armate americane dai campi di battaglia aperti dalla guerra al terrore di George Bush Jr, l‘accerchiamento dell’Iran, il contenimento della Turchia e, a latere, il contrasto della Nuova Via della Seta. Trump è colui che ha permesso al sogno del “secolo israeliano” di continuare a vivere e prosperare, arrestando l’avanzata del cosiddetto “Asse della resistenza”, inaugurando una guerra diplomatica a Hezbollah e privando l’Iran del suo stratega più capace: Qasem Soleimani.
L’America Latina, lungi dall’essere stata dimenticata, è stata posta sotto l’egida di un Brasile rinato, guidato da Jair Bolsonaro e dominato politicamente e culturalmente dal blocco del protestantesimo evangelico e neopentecostale. Quella che John Bolton definì la “Troika della Tirannia”, ossia il triangolo Cuba-Nicaragua-Venezuela, è preda di un accerchiamento economico e di crescenti pressioni sociopolitiche che l’hanno ingabbiata in una condizione di stallo. La sinistra rivoluzionaria e anti-imperialista, ostile a Washington e amica di Mosca e Pechino, è stata resa completamente inerte: esportare l’ideale antiamericano nel resto del subcontinente non è più possibile, anche per via dell’effetto di controbilanciamento esercitato dagli evangelici, si potrà solo arretrare e, forse, scomparire.
Vi sono, infine, Russia e Cina, ossia la spinosa questione eurasiatica risalente all’epoca di Sir Halford Mackinder. L’obiettivo di Trump, così come quello dei suoi predecessori, è rimasto immutato: impedire l’ascesa di una grande potenza in Asia e/o di una coalizione antiegemonica con proiezioni di potere sul cuore della Terra e lungo il suo confine occidentale, ossia l’Europa. Per ovvie ragioni, in Asia, difendere l’interesse nazionale americano si è rivelato più arduo. La Cina non si è lasciata scoraggiare dai dazi e dalla campagna di demonizzazione contro Huawei e il 5G e ha anche saputo trasformare una minaccia esistenziale, la pandemia, in un’opportunità per recuperare il terreno perduto in quattro anni di morsa soffocante. La diplomazia umanitaria di Pechino si è rivelata fondamentale per il rilancio della Nuova Via della Seta, promuovendone il versante “sanitario” in ogni continente, e della crescita economica, stimolando la produzione industriale a livelli senza precedenti e facendo ripartire il mercato e i consumi.
Cina e Russia, inoltre, si sono supportate a vicenda in ogni campo e settore, ammortizzando e ripartendosi reciprocamente i costi legati alla controffensiva. Non vi è settore, oggi, in cui le due potenze non collaborino attivamente e intensamente: alta tecnologia, telecomunicazioni, energia, commercio, investimenti, spazio extraterrestre, difesa.
La necessità storica di fronteggiare il declino dell’impero americano, più agguerrito che mai, ha spinto le dirigenze dei due Paesi a mettere da parte l’antagonismo e le rivalità e a forgiare un partenariato strategico estremamente solido e capace di controbilanciare perfettamente la pressione proveniente dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. La cooperazione per sopravvivenza sta, inoltre, per raggiungere la soglia critica: Vladimir Putin, durante la riunione annuale del Valdai Club, non ha escluso che, un giorno, possa venire siglata un’alleanza militare.
A quasi quattro anni dall’elezione di Trump, il bilancio è il seguente: il declino non è stato fermato, ma sicuramente è stato rallentato. Arrestare la corsa verso il precipizio, del resto, sarebbe stato impossibile per chiunque; è la dura legge della ricorrenza storica: gli imperi nascono, gli imperi cadono. Il collasso della pax americana, però, è molto più lontano di quanto possa sembrare: New York continua ad essere il cuore della finanza mondiale, la Silicon Valley è il centro delle grandi corporazioni e dell’alta tecnologia, l’inglese è la lingua franca della comunicazione globale, e il dollaro è la lingua del commercio. Se, poi, gli Stati Uniti riusciranno nell’ambizioso obiettivo di sfaldare l’asse Mosca-Pechino, e questo lo si scoprirà nel corso di questo decennio, lo spettro della caduta verrà allontanato a tempo indefinito.