Sul futuro degli Stati Uniti e del mondo intero regnano la paura e l’incertezza in maniera incontrastata. Mai, nella storia recente, le elezioni presidenziali statunitensi sono state così importanti per l’umanità. Non è una lotta manichea tra forze del bene e forze del male, come vorrebbero far credere i seguaci di QAnon, e non è uno scontro tra democrazia e totalitarismo, come invece sostengono Joe Biden e il Partito Democratico. In gioco non vi sono la caduta del mondo nelle grinfie di una sinarchia pedo-satanica o il regresso nell’epoca dei fascismi.
Qualcosa di molto più concreto si giocherà il 3 novembre: il futuro della pax americana, ovvero dell’ordine internazionale liberale emerso nel secondo dopoguerra e consolidatosi con l’estinzione dell’Unione Sovietica. Il mantenimento in essere di questo sistema di potere è in bilico, oggi più che mai, e non sono stati sufficienti i cambi di regime, le guerre, le rivoluzioni colorate e la passività dei rivali statunitensi, per permettergli di prosperare e consolidarsi in maniera critica. Sul campo di gioco stanno battendosi due contendenti che hanno tanti sostenitori quanti detrattori, sia in patria che nel mondo: Donald Trump e Joe Biden.
Donald Trump è un imprenditore miliardario, con interessi che spaziano dagli alberghi allo sport, una figura completamente estranea ed esterna agli ingranaggi del complesso militare-industriale. La sua natura di outsider ha sicuramente svolto un ruolo primario nel 2016, anno in cui è stato eletto con l’obiettivo di rendere l’America di nuovo grande. Joe Biden è un veterano della politica e uno dei padrini del Partito Democratico. Entrato nel Congresso nel lontanissimo 1972, è stato vicepresidente durante le due amministrazioni Obama ed è l’uomo preferito dalle grandi corporazioni, dalla stampa e dai liberali di tutto il mondo.
Trump è un conservatore ed un realista: si rivolge all’elettorato di destra, in particolare la destra religiosa, e vorrebbe limitare l’esposizione militare degli Stati Uniti nel mondo senza rinunciare alla primazia egemonica. Come? Trasformando le bombe in dazi e sanzioni, e trovando dei custodi integerrimi in ogni continente ai quali affidare la salvaguardia e la promozione degli interessi americani, come ad esempio il Brasile in America Latina, l’asse arabo-israeliano nell’area MENA, l’alleanza Visegrad nell’Unione Europea. Il Brasile e il blocco evangelico sono utili ai fini del contenimento della cosiddetta “Troika della tirannia” rappresentata da Cuba, Venezuela e Nicaragua, e, in esteso, al contrasto dell’espansionismo iraniano nel subcontinente.
L’asse arabo-israeliano è fondamentale nel breve periodo, in chiave anti-iraniana, nel medio, in chiave antiturca, e lo sarà anche nel lungo, ossia in funzione anti-Nuova Via della Seta. L’alleanza Visegrad, invece, è una quinta colonna il cui euroscetticismo dalle venature antitedesche è essenziale per danneggiare l’agenda di dominazione dell’asse Berlino-Parigi all’interno dell’Unione Europea e, al tempo stesso, spostare il cuore dell’Alleanza Atlantica verso Est, lungo i confini della Russia. Questa ritirata strategica accuratamente pianificata per colpire simultaneamente i rivali minori di Washington è propedeutica ad un’altra missione, la più importante: il riorientamento delle forze economiche e militari nell’Asia orientale in funzione anti-cinese.
Infatti, mentre l’incubo di Barack Obama è stata la Russia, quello di Trump è la Cina. E, da un punto di vista meramente pragmatico, Trump ha ragione: la Russia è una potenza in declino, intrappolata in un inverno demografico e perennemente limitata nelle sue aspirazioni di grandezza da contraddizioni risalenti all’epoca zarista; la Cina, al contrario, è una potenza in ascesa che, se non verrà arrestata adesso, ha tutte le carte in regola per rubare il trono agli Stati Uniti.
Il programma di Biden si distanzierà da quello di Trump per questioni ideologiche, ossia promozione del liberalismo in luogo del conservatorismo, ma i punti focali resteranno gli stessi: Cina, Russia e, in minor parte, Iran, sinistra latinoamericana e questione francotedesca. Cambieranno i metodi, questo è certo, perché Biden è un liberale internazionalista di formazione wilsoniana e jeffersoniana, ossia un sostenitore dell’esportazione dei valori americani con ogni mezzo possibile. Non va dimenticato, inoltre, che Biden è colui che ha suggerito all’orecchio di Obama per otto anni e che, nelle ultime settimane, ha lanciato attacchi ad alcuni dei custodi di Trump: Polonia, Ungheria e Turchia.
Ma qual è la situazione attuale? La vittoria è stata già ipotecata da Biden, come sta suggerendo la grande stampa? È altamente possibile che Trump sia in una posizione di svantaggio sul rivale, anche se non nei termini descritti dai sondaggi della CNN, perché, faziosità a parte, vi è da considerare quanto accaduto nell’ultimo semestre: la pandemia e il successivo scoppio di una quasi-guerra civile. Un calo di consensi, naturale e fisiologico, è avvenuto, su questo non dubitano neanche gli enti più accreditati come il Rasmussen Reports, ma il punto da approfondire è un altro: ha avuto luogo una ripresa?
I numeri a disposizione sulla registrazione del voto anticipato indicano che quella maggioranza silenziosa sulla quale Trump sta puntando tutto stia muovendosi, ossia votando, nel più totale riserbo. L’identikit dell’elettore che ha deciso di registrarsi dopo anni di astinenza, infatti, è il seguente: bianco, anziano, conservatore. Si tratta di un indizio importante, catturato da un’indagine della TargetSmart, ma comunque non è una prova; per sapere a chi verrà affidato lo scettro di re del mondo occorrerà attendere fino alla fine delle operazioni di scrutinio.