Intervista

"Trent’anni dopo la guerra nei Balcani". La lezione (mai imparata) di Toni Capuozzo

La penultima guerra europea.
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Nella Bibbia della Storia europea esiste un Qoelet che si chiama Balcania. Una terra aspra di montagne e rocce ricoperte di muschio scuro, attraversate da fiumi indomati per secoli, attraversati da ponti edificati per la pace, ma divenuti terra di nessuno, sospesi sulle acque impetuose della Zepa, della Drina, che si sono ingoiate chissà quanti cadaveri immolati sull’altare dell’unità. Oggi sentiamo ripetere come una litania dagli inviati in Ucraina che un conflitto come questo in Europa non si vedeva dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ma questa è un’amnesia imperdonabile, perché nell’ex Jugoslavia le armi sono state solo riposte in un cassetto, insieme agli album di famiglia e ai reportage di chi è riuscito a ricomporre i volti sfigurati dalla Guerra dei Dieci Anni. Un album di armi e fotografie che solo una penna come quella del grande Toni Capuozzo poteva restituirci nella sua ultima raccolta di scritti, Balcania, edito dalla Biblioteca dell’Immagine. Un collage di articoli del tempo scritti per il Foglio, Lotta Comunista, insieme ad altri pezzi inediti ed estratti del suo libro Il giorno dopo la guerra, dai quali trasudano l’esperienza e la sensibilità di chi ci ha raccontato una guerra divampata tra i luoghi ed i ricordi intimi della propria infanzia, al di là del bene e del male.

Balcania (Biblioteca dell’immagine) di Toni Capuozzo

«Tito era nato il 7 maggio del 1892. Cento anni dopo, con un anticipo impaziente di trentadue giorni, iniziò l’assedio di Sarajevo».

Sono passati trent’anni da quel giorno. Oggi gli esiti ufficiali del voto in Serbia hanno riconfermato la leadership di Vučić. Si sono lette sui giornali le parole pronunciate dal ministero dell’interno di Belgrado, Vulin, ovvero della volontà serba di proteggere la Repubblica Srpska. Che significato ha tutto questo? Dopo l’Ucraina saranno i Balcani a bruciare?

Penso, riguardo i Balcani, che il sasso gettato nello stagno sia stata proprio la guerra in Ucraina, che in qualche modo ha smosso le acque e ha fatto riemergere tutti i vecchi odi e soprattutto i limiti della pace siglata a Dayton, che fu benedetta perché fermò una guerra che sembrava essere senza fine, ma che si limitò ad ibernarne le contraddizioni, a congelare la situazione. Le piccole modifiche sul terreno hanno costruito una federazione che sfiora l’assurdità. Forse sarebbe stato meglio che ognuno se ne fosse tornata per conto proprio, ma così non si è voluto fare. Oggi assistiamo alla Repubblica Srpska che è sempre più insofferente di far parte di una federazione nella quale non si riconosce. L’elezione di Vučić non servirà di certo a quietare le acque.

«“Sparano, stamattina”.

“Sì, in aria. Hanno firmato la pace”.

[…]

“Non capite. Qui ci sarà la terza guerra. La terza guerra mondiale”: così dicevano i serbi, scuotendo la testa, e non capivi se era una profezia o una minaccia. Non c’è stata, la terza guerra mondiale”»

Se continua il conflitto in Ucraina, quasi per simpatia, potrebbe “contagiare” lo scenario balcanico. Ci sono truppe serbe schierate al confine con il Kosovo e truppe kosovare schierate al confine con la Serbia. Vi sono serbi dall’altra parte del confine che non sono solo pope nei monasteri, ma intere comunità, mi viene in mente quella di Mitrovicë. Siamo sempre sull’orlo di un conflitto. La pace non è stata il gioioso addio delle armi, ma solo una loro sepoltura. Dubito che il mondo sia disposto ad entrare in guerra per i Balcani. L’Ucraina vuol dire gas, risorse. Ci sono molte differenze. Nei Balcani la guerra è tra milizie, anche se per un certo periodo l’armata federale è stata l’esercito serbo, mentre in Ucraina assistiamo ad una guerra tra due eserciti, nel quale sono pesantemente coinvolti i civili, ma comunque una guerra fatta di aviazione, missili balistici. A Sarajevo si moriva per una granata lanciata da un chilometro di distanza, oggi in Ucraina si può morire per un missile lanciato da trecento. Sono due conflitti molto diversi l’uno dall’altro. Certamente, hanno delle cose in comune. Sono entrambi conflitti all’interno del mondo slavo oltre che un ultimo strascico del crollo del Muro di Berlino, dal quale è derivata tutta una serie di faticosissime e sanguinose ricerche di equilibri. Sono guerre che avvengono tra popoli fratelli, che hanno vissuto ampi tratti di Storia in comune, intrecciati l’uno all’altro. Sono famiglie miste che si capiscono quando parlano tra loro. A volte, come in Ucraina, queste famiglie sono della stessa religione o quasi. Questo ci rimanda al fascino e alla maledizione dell’anima slava, cioè la condanna della memoria. Gli Ucraini parlano dell’Holodomor degli anni trenta come se fosse accaduta ieri, mentre i russofili ricordano dell’allegro reclutamento ucraino tra le fila delle SS, come se fosse avvenuto ieri. Nell’anima slava, la memoria a volte è una condanna. Sembra sempre che il primo colpo sia stato sparato seicento anni fa.

Alla morte di Tito «non andai al mausoleo, e venni a sapere a cose avvenute di qualcosa ancora più interessante, una scena da film. Una televisione belgradese di opposizione organizza qualcosa tra l’happening e la provocazione situazionista. Manda un sosia di Tito, vestito con una divisa da Maresciallo, nella piazza davanti alla stazione centrale di Belgrado, il cuore pulsante e matto di un paese dove si viaggia ancora in treno. E lì si raduna una folla e per una tacita complicità nessuno dice che quello somiglia davvero a Tito. No, lo trattano come se fosse davvero Tito, redivivo e ritornato. E lo rimproverano per le illusioni perdute, e lo rimpiangono per la crudele fine del paese, e gli chiedono questo e recriminano per quell’altro».

Questa scena mi fa venire in mente il Funerale di Vespasiano, nel quale un mimo indossa la maschera del defunto imperatore durante la cerimonia, riproducendo il suo modo di camminare e il suo modo di parlare. Così si imprimeva nella mente dei cittadini e nella storia un personaggio, Tito, imperatore controverso sì, ma capace di tenere in piedi la fragile architettura della Jugoslavia. Perché quest’uomo fu capace di unire gli slavi sotto un’unica bandiera?

Probabilmente per la sua resistenza partigiana e la sua grande abilità a non definirsi croato, bensì Jugoslavo. Uno jugoslavo che era presto divenuto sergente maggiore nell’esercito austroungarico prima che anche quell’impero si frantumasse. Un partigiano che unisce gli slavi del sud, sempre attento a non prendere le parti di nessuna etnia. Non era serbo, ma nemmeno croato, avendo combattuto contro gli ustascia. Le vacanze le andava a trascorrere in Istria ed è sempre stato molto attento alla propria immagine.

A proposito di Istria. Nell’immaginario italiano, fino ad un certo punto della storia, questa è stata molto importante. Perché oggi non ci si ricorda di cosa sono stati i Balcani per noi?

È un ricordo scomodo. In queste ore le immagini che sono arrivate da Buča, comunque sia andata, sono le stesse dei tanti villaggi della Bosnia devastati durante la guerra. Penso a Zvornik, di dimensioni simili a Buča. I corpi galleggiavano sul fiume. Ha resistito quattro anni anche Zvornik. Lì non capivamo chi fosse il buono e il cattivo. Abbiamo mandato le Nazioni Unite ad assistere senza corpo ferire. Oggi il termine “genocidio” riferito a Buča è usato a sproposito. Se c’è un luogo, dopo la Shoah, dove il termine genocidio può essere utilizzato, è solo a Srebrenica, dove vennero fatti fuori tutti gli uomini e gli anziani. Erano ottomila e l’aver avuto una guerra sotto casa, non essercene accorti e aver lasciato che proseguisse per quattro anni, non ci fa onore. Non avevamo capito, non capivamo. Erano luoghi difficili anche solo da pronunciare. Oggi c’è una grande copertura televisiva e ci sono di mezzo la Russia e l’America con la sua gigantesca macchina di informazione, e di formazione. Allora uno si chiede, perché Bush ha commosso, mentre di Srebrenica ce ne siamo accorti mesi dopo? O Zvornik, di cui invece proprio se n’è accorto nessuno? Questo lo dico perché raccolsi una confidenza, una sera all’inizio della guerra, da qualcuno che mi raccontò quello che era successo. Non c’è una ragione a tutto questo se non il fatto che abbiamo delle morali sussultanti, che dipendono da quante ore di televisione verranno vendute. Siamo inevitabilmente molto malleabili. Nessuno è felice di esserlo. Ci amiamo definire indipendenti, obbiettivi. In realtà, come vediamo nella guerra in Ucraina, il nostro approccio è molto da tifosi. C’è un giudizio ovvio sul fatto che vi sia un aggressore ed un aggredito, un giudizio categorico. Vedo molto sventolare di bandiere e questo è tifo, non c’è niente da fare. Non voglio mettere sullo stesso piano l’aggressore e l’aggredito, ma questo comporta, per forza di cose, il credere a qualunque cosa ci venga raccontata. I tuoi morti son sempre i migliori e l’altro è sempre un mostro, mentre in realtà il vero mostro è la guerra. La pagina dei Balcani testimonia che non siamo sempre stati così soccorrevoli, sempre così pronti ad indignarci. Abbiamo mandato cibo a Sarajevo. Ricordo dell’equipaggio di un G-222 che stava scendendo sulla città quando venne abbattuto dalla contraerea serba. Non portava armi, portava coperte. Ti sembra che sia stato ricordato? Essere soccorritori umanitari è un impegno meno prestigioso di chi porta armi o quant’altro? Credo che la Guerra dei Dieci Anni sia stata dimenticata per buone ragioni. Non fu una guerra in cui facemmo bella figura.

Cosa ne pensa della narrazione italiana odierna attorno al conflitto ucraino?

Ma sai, molti a causa della sequenza rapida delle notizie sono stati scaraventati sul terreno. Alcuni hanno esperienza e si vede, ma il fatto è che se oggi qualcuno chiede al suo direttore “voglio andare in Donbass”, questo gli risponde “ma che cazzo ce ne frega”. Ci è morto un freelance, nel Donbass, Andy Rocchelli, era un fotografo. Non so neanche se avrebbe venduto il suo servizio. Quando per anni non si formano delle persone sul campo accadono di queste cose. Ricordo i miei primi servizi sul terreno di guerra, ed erano conditi da ogni genere di ingenuità dovuta alla mancanza di esperienza. Impari sul terreno. Non c’è una scuola che ti insegna come fare il reporter. Una cosa è raccontare un terremoto, uno scandalo finanziario, una lotta operaia, ma la guerra è una cosa diversa. Ci vuole anche il prestigio personale di imporre certe scelte nelle relazioni. Oggi spesso non ci sono gli inviati di lungo corso che hanno questa qualità. Io penso ad Ettore Mo per il Corriere della Sera, Mimmo Candito per la Stampa. Persone che facevano dello studio e della scrittura una scuola permanente. Non ci sono, quindi se l’ordine di scuderia è raccontare certe cose in un certo modo, la gara sarà a raccontare certe cose in un certo modo. È difficile che gli inviati di oggi abbiano un’indipendenza. È spontaneo unirsi al coro. Perchè dovresti dire cose diverse dagli altri? Questa è l’informazione ed oltretutto è difficile produrla. Se mi trovo sul fronte giallo bombardato e dall’altra parte ci sono i rossi che attaccano, è ovvio che avrò sempre più simpatia per i gialli con i quali condivido il rischio. Guarderò sempre con un po’ di ostilità ai rossi. Ho combattuto guerre, da reporter, su tutt’e due i fronti e ho sempre sperato che a colpirmi non fossero quelli con cui stavo la volta prima. Son stato sotto le bombe degli Italiani. Non è che amassi i piloti che sganciavano le bombe su Tripoli o su Belgrado. Da una parte c’è quella solidarietà verso chi è aggredito, verso chi è più debole e dall’altra c’è l’ assenza di indipendenza di pensiero, di carattere, e questo conta molto. Io e quelli della mia generazione siamo stati avvantaggiati dal fatto che le notizie duravano più a lungo. Avevi il tempo di vedere le cose, tornare in albergo, riscriverle, montare il pezzo. Ho raccontato alcuni conflitti per i quali le notizie erano buone anche quindici giorni dopo. Oggi se sei sul posto ti telefonano al mattino dopo averti spiegato la ricetta di turno. L’informazione è torrenziale, ansiogena. Deve per forza creare delle novità, deve per forza commuovere e sdegnare. Non è facile lavorare in queste condizioni.

«“Arrivano i nostri” era una constatazione che aveva tutto il sapore di una minaccia, perché i nostri bombardavano. C’era una crosta di diffidenza e di timore ostile da vincere da una parte, e una corazza di sfiducia, di rassegnata amarezza da schiudere, dall’altra parte».

Che responsabilità ha avuto il nostro paese, secondo lei, nell’appoggiare la disgregazione della Jugoslavia?

Beh più che il nostro paese, il Vaticano giocò un ruolo piuttosto importante nel momento in cui riconobbe lestamente la Croazia. Woytjila era un Papa polacco che conosceva bene l’Est e che aveva contribuito a scavare la fossa intorno al comunismo. Fu per lui come un richiamo della foresta riconoscere una Croazia non solo cristiana, ma cattolica. L’Italia tornò ad avere un ruolo, a mio avviso negativo, verso la fine, con il Kossovo. I bombardamenti sulla Serbia partivano da Aviano, dalle navi che incrociavano nell’Adriatico. La cosa sorprendente è che un Primo Ministro di sinistra come D’Alema, per dimostrarsi più realista del re, abbia partecipato a questa campagna di bombardamenti umanitari, che però hanno fatto vittime esattamente come quelli delle guerre assassine. È lì che comincia per l’Italia quel lungo percorso, che non si è mai concluso, di paese che rinuncia alle sue capacità di mediazione, alla sua “terzietà”, per diventare l’ultima recluta del battaglione, magari con l’elmetto storto. Potevamo, oggi, essere i primi degli ambasciatori, capaci di parlare di parlare a Russi e Ucraini contemporaneamente, entrambi come popoli non ostili. Io ero a Belgrado quando bombardavamo, forse il fatto che ci fosse al governo D’Alema fu un anestetico per gli italiani, ma non ricordo grandi manifestazioni per la pace o di protesta per le vittime del bombardamento sulla televisione, sull’ambasciata cinese o su quel convoglio di profughi che venne scambiato per un convoglio militare e così via. Non me le ricordo. Perché non c’erano. Probabilmente D’Alema non era nella condizione di dire “no” come Craxi a Sigonella. Doveva per forza dire “sì”, però mal ce n’è colto perchè abbiamo iniziato ad essere gli ultimi del battaglione.

«Adesso possiamo dire che fu una missione compiuta e vinta, ma non c’è stato un giorno X, né un’ora zero, che si otterrebbe solo facendo la conta di migliaia di piccoli gesti, e migliaia di operazioni: l’incrocio tra gli ordini di servizio e i sorrisi».

I nostri soldati si sanno distinguere nel peacekeeping. Lo dicono tutti e ne scrive anche lei. Cos’è che ci distingue dalle altre potenze colonizzatrici?

Mi ricordo in Afghanistan una sola vittima civile procurata da noi Italiani, a Herat. Fu una vicenda ricomposta infine con risarcimenti, scuse, chiarimenti, anche se si trattò di un episodio sfortunato. Lo zio della bambina che rimase uccisa, in macchina, in un giorno di pioggia, non si fermò all’alt e venne scambiato per un attentatore. La sfortuna volle che morisse questa bambina. L’unico caso in vent’anni. Qualcosa vuol dire se si confronta questo dato con le vittime civili causate dagli Americani e da tutti gli altri. Siamo un paese che è bravo nelle missioni di pace perché ha soldati in grado di lavorare per la pace. La specificità italiana credo sia proprio questa, rapportarci con le persone facendoci rispettare, offrendo loro il nostro rispetto. Abbiamo nel Dna la capacità di districarci tra le differenze.

Di Maio è stato di recente in visita presso il Ministero degli Esteri in Croazia e ha avuto una telefonata con l’omologo serbo. Il nostro paese può giocare un ruolo determinante nella stabilizzazione dei Balcani? 

Credo di no. Credo l’unica forza, di cui fa parte anche l’Italia, sia l’Unione Europea. Si tratta di far balenare agli occhi di tutte le resistenze nazionaliste ed etniche, il fatto che i confini evaporano. Europa significa un passaporto che ti consente di muoverti, significa aiuti, lavoro. Si tratta di imporre un modello di reclutamento che non passi attraverso le alleanze militari, le basi, le caserme. Ovviamente è tutto molto complesso se pensiamo solamente alla tratta balcanica dei migranti. Trasportare il confine d’Europa ancora più a Sud non è affatto semplice, ma è quello che andrebbe fatto. La pace si può anche comprare. Se un anno fa fossimo andati in Ucraina, invece che con le esercitazioni della Nato, con le valigette piene di danaro, credo avremmo disinnescato una bomba ad orologeria. Naturalmente questo ha un costo, perché ci si porta dietro le economie disastrate di paesi che sono molto più facili da reclutare militarmente. L’Europa, qui, ha perso.

Mi viene in mente il racconto di Ivo Andrić, nel quale un architetto italiano, pagato dal Visir Jussuf, bosniaco di nascita, da bambino portato via dai Turchi per essere educato a giannizzero, edifica con mille difficoltà il Ponte sulla Žepa. Finito il ponte morirà di peste nel ritorno verso l’Anatolia, senza che nessuno degli abitanti del posto sappia mai nulla di lui. Il ponte sulla Žepa, come quello sulla Drina, come quello di Mostar, ci dicono molto dell’indomabilità della geografia e della storia della regione, fatta di ponti costruiti con grande difficoltà nei secoli. Cosa sono, per lei, i ponti di Balcania?

C’è sempre una mitologia riguardo i ponti, e questa si fa ancora più forte quando si è di fronte ad esempi bellissimi come quello di Mostar. Nei Balcani è inevitabile passare per il ponte di Ivo Andrić e non guardare, oltre alla bellezza, agli orrori ultimi, come la stessa morte dello scrittore. L’orrore è esistito senza che nessuno lo raccontasse. Ci sono solo le testimonianze dei corpi uccisi sui ponti, buttati in acqua. Dietro questa mitologia c’è sempre qualche organizzazione umanitaria. I ponti sono un terreno di per sé minato, perché rappresentano l’incontro. L’incontro, se non lo sai gestire, è facile che diventi scontro. Ho raccontato dello scambio dei morti e dei prigionieri sul ponte di Slavonski Brod o Bosnianski Brod, a seconda del lato su cui ci si trovi. Essendo questo un luogo deputato all’incontro viene spesso fatto saltare in aria. Diventa un luogo di sacrificio, se solo pensiamo al pacifista italiano ucciso sul ponte di Vrbnje, se pensiamo ai due fidanzati di Sarajevo ammazzati sempre nello stesso luogo. Non vedrei nei ponti solo un’immagine pacifica delle strette di mano. È anche la terra di nessuno, il tentativo fallimentare di mettere in comunicazione cementizia delle culture molto diverse. Questo in posti dove i corsi d’acqua segnano ancora oggi la fine di un dialetto e l’inizio di un altro, la fine di un’etnia e l’inizio di un’altra. Già soltanto la Jugoslavia, con la Fratellanza e l’Unità, “Bratstvo i jedinstvo” in croato, è stata un battesimo dall’alto. Questi battesimi, nel nome della correttezza politica, hanno due difetti: uno, non è una benedizione che ci rende più buoni e uniti; due, scacciano come un cattivo pensiero quegli umori sotterranei di rabbia e di rancore che quando riemergono, proprio per essere stati compressi a lungo, sono più virulenti. Mai dall’alto, i battesimi.

Forse è perché la Memoria della guerra nei Balcani è una memoria che viene dal basso, eternamente in divenire. Noi Europei occidentali siamo abituati ad una memoria costruita dall’alto, a posteriori. Lei che ne pensa?

Penso che siamo degli esploratori inglesi in mezzo ai genocidi dei Tutsi e degli Utu, pieni di buoni sentimenti, svagati e con un retino per le farfalle in mano.

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