Mentre Francis Fukuyama annunciava la fine della storia e, così facendo, implicava la morte di “un’alternativa” al modello socioeconomico che l’Occidente stava portando in trionfo, nel 1991 una versione riveduta e corretta di “Marx oltre Marx” vedeva la luce in anonime case editrici di New York e Londra. Con questo saggio Toni Negri voleva infondere nuova linfa all’indebolita tradizione marxista degli anni Novanta pubblicando le lezioni, tenute da lui stesso nel 1978 a Parigi su invito di Louis Althusser, sui Grundrisse, una delle opere più trascurate del giovane Karl Marx. Mentre, secondo alcuni, dovremmo guardare ai Grundrisse solo filologicamente, cioè solo per capire il percorso che ha portato al Capitale, l’opera magna di Marx, Negri avverte di pensarla diversamente:
“I Grundrisse non sono un testo che può essere utilizzato solo per studiare filologicamente la costituzione del Capitale; sono anche un testo politico che coniuga l’apprezzamento delle possibilità rivoluzionarie create dalla crisi imminente con la volontà teorica di sintetizzare adeguatamente l’azione comunista della classe operaia con la crisi”.
In altre parole, dato che, come sappiamo, Marx scrisse questo testo pensando alla crisi economica che stava per colpire gli Stati Uniti, molti pensatori cominciarono a pensare a come avremmo potuto fare lo stesso al giorno d’oggi, cercando di “approfittare” delle circostanze decadenti, per cercare di costruire un nuovo e migliore ordine sociale. Perché se è vero che l’affermazione completa e totale del capitalismo ha portato con sé la fine del conflitto ideologico, l’ansia da crollo imminente ha anche solidificato meccanismi sociali diseguali e giustificato una struttura gerarchica basata su un materialismo pervasivo che regola tutte le relazioni sociali tra i membri della medesima comunità globalizzata. Quindi, se appare quasi evidente che questo sistema creerà disuguaglianze insostenibili e, a lungo termine, le conseguenti crisi, non ci troviamo forse nella stessa situazione in cui si trovò Karl Marx quando tentò politicamente di aprire una possibilità rivoluzionaria nella crisi iniziando a scrivere i Grundrisse, ormai più di centocinquant’anni fa.
Mancanza di un’alternativa: è così che possiamo riassumere la nostra crisi. Dal 1789, infatti, un'”alternativa” è sempre esistita, sia nel mondo delle idee, sotto forma di libri e discorsi, sia nel mondo dell’azione, cioè nel modo in cui i popoli potevano rovesciare violentemente i governanti dispotici e quindi cambiare il corso della storia. La vittoria del capitalismo, dagli anni Ottanta in poi, ha messo fine al “piano B”, alla possibilità, quindi, di condurre una vera e propria rivolta. È ancora possibile, non c’è dubbio, che il popolo abbia un proprio peso politico, ma per cosa? Che senso hanno le proteste se il risultato sarà sempre quello di tornare al punto di partenza? Dov’è il modello alternativo per cui lottare e come attaccare quello attuale?
Avendo in mente queste domande, potrebbe essere interessante guardare al lavoro svolto da una certa ala della tradizione marxista, già negli anni Sessanta, poi riscoperta negli anni Novanta e oggi più influente che mai. Questa tradizione ci ha fornito un’interpretazione originale di un certo passaggio (“Frammento” d’ora in poi) dei Grundrisse, ampiamente utilizzato anche dalla sinistra contemporanea.
L’idea che il capitalismo abbia in sé i semi del proprio fallimento non è certo nuova. Sia Marx che Lenin l’hanno enunciata più volte e sembrava quasi un dato di fatto negli anni Trenta, quando l’URSS continuava a crescere anno dopo anno, mentre gli Stati Uniti affrontavano la più grave recessione della loro storia. Negri recuperò questo concetto grazie al Frammento, il quale affermava l’audace, e per certi versi controversa, previsione che un giorno il capitalismo eliminerà la necessità del lavoro umano creando macchine automatizzate che forniranno una quantità potenzialmente illimitata di beni a costi e profitti nulli. Ciò è strettamente correlato alla tendenza del profitto a diminuire nel lungo periodo: quanto più piccola diventa la parte scambiata per il lavoro, tanto più piccolo diventa il tasso di profitto. E poiché, secondo l’economia politica classica, il costo di un bene è dato dal costo della quantità di lavoro necessaria per la produzione di quello specifico bene, dovrebbe essere ovvio che, poiché il costo del lavoro automatizzato è zero, anche il costo dei beni prodotti dalle macchine automatizzate dovrebbe essere zero. Oltre a ciò, vi è da considerare la cosiddetta “crescente incommensurabilità tra ricchezza e tempo-lavoro”, secondo la quale il tempo-lavoro smette di essere la misura della ricchezza. Questa previsione sul futuro della teoria del valore-lavoro potrebbe avere, secondo alcuni pensatori, delle implicazioni drammatiche, come affermato dallo stesso Marx:
“Non appena il lavoro in forma diretta ha cessato di essere la grande sorgente della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio [deve cessare di essere la misura] del valore d’uso. L’eccedenza di lavoro delle masse ha cessato di essere la condizione per lo sviluppo della ricchezza generale, così come il non lavoro di pochi ha cessato di essere la condizione per lo sviluppo dei poteri generali della mente umana. Di conseguenza, la produzione basata sul valore di scambio crolla”
Marx, 705
Ecco quindi la tendenza a trasformare il lavoro da fisico, e quindi parte della componente variabile dei costi, a lavoro intellettuale, lavoro qualificato che mantiene in funzione le macchine, ma senza essere parte del lavoro stesso, e quindi spostato nella componente fissa dei costi.
Ancora una volta, così facendo, il sistema capitalistico creerà la sua stessa fine, non essendo in grado di creare i profitti necessari alla sua sopravvivenza. Vediamo quindi improvvisamente crescere una società in cui il lavoro non può essere definito dal timbro su un cartellino. Al contrario, nelle società avanzate, vediamo i lavoratori gestire da soli il proprio tempo di lavoro, avendo come capo un’applicazione telefonica e ricevendo il salario in forma immateriale. Una “fabbrica sociale” in cui la produzione basata sulla conoscenza vede il valore creato da “reti comunicative” disperse e decentralizzate. Il lavoro, quindi, non rimane più circoscritto tra le quattro mura di una fabbrica, ma deve essere immaginato come se pervadesse ogni segmento della società. Tutti fanno parte della forza lavoro (o moltitudine); il luogo di lavoro (o fabbrica sociale) è ovunque. Questa nuova tendenza comporta una maggiore flessibilità della forza lavoro, che non può essere relegata solo in alcuni ambienti, ma è anzi condannata a una situazione di precarietà. Se un tempo il soggetto più produttivo era il commerciante stakanovista, oggi è il designer di siti web o il programmatore di computer freelance.
Arrivati a questo punto ha senso considerare i due diversi approcci che Marx ci ha fornito riguardo alla tecnologia. Ciò che ci interessa è l’iniziale atteggiamento “ottimista” del giovane Marx dei Grundrisse, che vede nel progresso delle macchine una forza emancipatrice, cioè un modo in cui “il capitale lavora per dissolversi”. È bene notare, tuttavia, come questo atteggiamento, a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento, cambi nel considerare le macchine come destinate a un’intensificazione del lavoro. Nel 1858 Marx guardava positivamente alla crisi intrinseca del sistema e alla formazione di un “intelletto generale” che avrebbe portato l’umanità a una fase post-capitalistica. In seguito, dopo il superamento dei problemi finanziari e, soprattutto, dopo il fallimento della Comune di Parigi del 1871, il suo atteggiamento cambiò radicalmente, come già lasciava intuire il primo volume del Capitale del 1867:
“[le macchine] mutilano l’operaio in un frammento di uomo, lo degradano al livello di un’appendice di una macchina, distruggono ogni residuo di fascino nel suo lavoro e lo trasformano in una fatica odiosa”
Marx, Capitale, 482
“[le macchine] allontanano da lui le potenzialità intellettuali del processo lavorativo nella stessa proporzione in cui la scienza vi è incorporata come potenza indipendente; distorcono le condizioni in cui lavora, lo sottopongono durante il processo lavorativo a un dispotismo tanto più odioso per la sua meschinità; trasformano la sua vita in tempo di lavoro, e trascinano sua moglie e i suoi figli sotto le ruote del Juggernaut del capitale”
Marx, Capitale, 483
La diffusione delle conoscenze scientifiche e tecniche, quindi, ha aumentato le possibilità del capitale di controllare il lavoro umano, e quindi l’umanità nel suo complesso. Ha anche aumentato i modi in cui il lavoro può arricchire i lavoratori e il controllo di questi ultimi sul proprio destino. È questo sviluppo bifronte della tecnologia che deve essere cavalcato. Con un approccio dialettico, possiamo vedere il progresso proprio nella sintesi delle due parti: la classe operaia non deve né abolire la tecnologia del capitalismo né mantenerla, ma piuttosto appropriarsene e, quindi, trasformarsi radicalmente. Secondo i movimenti postcapitalistici del XXI secolo, come l’Accelerazionismo e il Post-operaismo, potremmo essere in grado di vedere, senza sforzi e solo grazie al sistema capitalistico stesso, in un futuro non troppo lontano, le prime forme di una società post-lavorativa, un’era di lavoro zero. Nel primo Accelerazionismo, ad esempio, date le contraddizioni interne che alla fine porteranno alla fine del capitalismo, si suppone che si debba affrontare con un po’ di nichilismo ogni crisi economica celebrandola con grida di gioia, invece che con grida di dolore, perché ogni perdita dovrebbe essere considerata un passo in più verso la nuova era. In seguito, Srnicek e Williams, i fondatori di questa corrente, hanno sostenuto che senza una lotta organizzata non ci può essere progresso: la moltitudine è invitata, quindi, a muoversi con la corrente forzando le crisi nello stesso modo in cui il protagonista dei romanzi di Ayn Rand forza dall’interno la crisi dell’industria americana. Ragionando in un quadro di lotta di classe, vediamo come questo “pensiero-frammento” porti con sé una sorta di ottimismo nel futuro: i punti di forza del capitalismo finiranno per essere la sua condanna.
Tuttavia se l’uso crescente delle macchine porta una crisi nella “misurabilità del lavoro”, ciò non significa necessariamente che il lavoro smetterà di essere la misura unitaria della ricchezza. Quello a cui assistiamo oggi non è un passaggio totale dal lavoro fisico a quello “intellettuale”, ma piuttosto una coesistenza dei due. Tale crisi esiste ma se il lavoro (o meglio la possibilità di lavorare) rimarrà ancora la misura della ricchezza, rimarrà quindi anche la misura del profitto. Più che una società del post-lavoro stiamo assistendo all’avvento di una società del tempo libero. Per essere al passo con i tempi, la ricchezza dovrebbe iniziare a essere misurata dal tempo libero dei lavoratori, dal modo in cui possono gestire il loro lavoro. I valori chiave prodotti da una società capitalistica avanzata, quindi, non dovrebbero essere le automobili, i treni o le navi, ma il tempo libero.
Tutto è lavoro. Tutto può essere misurato con gli stessi strumenti che usiamo per misurare il lavoro. Quando iniziamo a considerare come lavoro vero e proprio il tempo di lavoro coinvolto nella riproduzione della forza-lavoro, quella stessa società di cui stavamo appena iniziando a riconoscere le prime caratteristiche, improvvisamente inizia ad apparire sempre più come un’utopia. Questo perché i lavori che riguardano la nostra crescita personale o quella degli altri, come l’educazione dei figli e la cura dei malati e dei morti, non si ridurranno a breve. Scrivendo un saggio, uno studente non investe (e la scelta della parola è deliberata) il suo tempo per garantirsi una posizione migliore in futuro? Il tempo che dedica allo studio, invece di lavorare, non è forse un costo opportunità per lui?
La confusione è data dal considerare la crisi del significante – la teoria del lavoro – come la crisi del significato – il capitalismo. Infatti, nei Grundrisse c’è una previsione sorprendentemente accurata dello stato di produzione odierno nelle società capitalistiche avanzate, ma non c’è alcuna giustificazione su come questo dovrebbe portare alla dissoluzione del sistema. Non c’è alcuna prova del perché non ci saranno limiti all’espansione dell’uso delle macchine. Questo perché, come lo stesso Marx afferma nel Capitale, le macchine diventano utili nel sistema produttivo solo quando possono ridurre i costi di produzione. Poiché le macchine producono un valore d’uso che viene poi distribuito a ogni prodotto che possono fabbricare (ad esempio, se un macchinario può produrre 10.000 beni, ogni bene produrrà 1/10.000 del valore d’uso della macchina), l’espansione delle macchine è conveniente solo quando la percentuale distribuita a ogni prodotto è inferiore alla riduzione dei costi che si verifica quando si riduce il lavoro. In secondo luogo, Marx non è chiaro su cosa intenda con “ricchezza”, se sia da intendersi come ricchezza materiale o come forma sociale. Perché se si intende la prima, allora le forze produttive naturali e quelle create dall’uomo sarebbero ugualmente fonte di ricchezza, a differenza del “lavoro immediato”. Se, invece, si intende la seconda, dovremmo considerare il “lavoro umano astratto” che produce le merci, anche se il valore del prodotto si trova sempre più in un aumento dell’offerta di macchine. In terzo luogo, se consideriamo quest’ultima opzione come significato della parola “ricchezza”, allora anche il tempo di lavoro rimane la sua misura, anche se il “tempo di lavoro immediato” nella produzione inizia a giocare un ruolo meno importante. Il tempo di lavoro immediato è quella quantità di lavoro che può essere espansa dal produttore, ma che non può formare valore.
Infine, avendo capito che il tempo di lavoro rimane, alla fine, la misura del valore, possiamo logicamente supporre che l’ultima argomentazione fornita da Marx, cioè il “crollo della produzione basata sul valore di scambio”, rimanga errata o, almeno, non dimostrata.
Marx considera la merce come la forma sociale più fondamentale della società capitalistica. Essa rappresenta una forma di mediazione sociale sia un prodotto, più precisamente “lavoro cristallizzato”. È la forma fisica ontologica che oggettiva la relazione tra natura e uomo. Quindi, va da sé che le merci superano fortemente il loro valore d’uso, quasi in senso metafisico, o, come dice Marx, in una sorta di “feticismo delle merci”. Il feticismo, in questo caso, va inteso nel senso in cui le antiche religioni “feticizzavano” gli oggetti, i più famosi totem, come collegamenti con l’altro mondo, quello degli dei, degli spiriti maligni e delle anime morte. Marx recupera quindi questo concetto, quasi in modo ironico, per affermare come le merci rappresentino un modo in cui categorizziamo a priori i loro proprietari con un approccio metafisico.
In altre parole, le persone sono rappresentate dai beni che possiedono, gli oggetti che possiedono ci dicono ciò che dobbiamo sapere su di loro. Questo innesca una serie di conseguenze spiacevoli, una di queste è l’affermazione della ricchezza materiale come forma più forte di ricchezza, che comporta la desiderabilità di merci sempre più efficienti e attraenti. Quindi questa presunta diffusione rivoluzionaria di beni a costo zero metterebbe in pericolo il capitalismo solo se nella nostra società le merci fossero considerate per quello che è il loro valore d’uso. Sappiamo invece che il dominio sociale è racchiuso nelle merci. Nel gioco hobbesiano di tutti i giorni è necessario che i beni trasmettano il messaggio che siamo pretendenti alla posizione sociale cui miriamo. È possibile superare questa situazione di assoluta impasse? Una soluzione possibile assomiglia a quello che Marx pensava fosse l’esito più auspicabile della rivoluzione: le categorie economiche sono le uniche responsabili dell’attuale modo di gestire le relazioni sociali, quindi l’idea del loro rovesciamento può rappresentare l’unica speranza di abolire il suddetto feticismo.