Se già è difficile conquistare quello stretto spazio in cui Letteratura e cultura pop si sovrappongono, le possibilità di occuparlo più a lungo della durata di una moda sono vicine allo zero. Anche per questo Il Signore degli Anelli è un’opera sostanzialmente unica. Il suo impatto culturale è stato enorme, il valore del libro innegabile. Fin dal secondo dopoguerra, quando un oscuro signore sembrava sconfitto, e un altro si faceva sempre più minaccioso, J.R.R. Tolkien e la sua opera hanno dovuto scontrarsi con riletture, interpretazioni, quesiti e appropriazioni da parte di ogni parte politica e ideologica. Comunità hippie, gruppi identitari di destra, pacifisti, democratici che vedevano nel potere di Sauron un’allegoria dei totalitarismi novecenteschi: un po’ tutti hanno provato a trascinare il timido filologo nel proprio campo.
E in Italia? Nel paese di Gramsci il mondo della cultura è il parco giochi della sinistra: per entrarci si deve fare a botte. Nel nostro Paese il Legendarium venne inizialmente ignorato dall’intellighenzia, che tentò poi di bollarlo come opera tendenzialmente fascista, anche per via della popolarità che l’universo di Arda godeva tra i giovani di una certa destra. Ma da almeno due decenni, complice il successo della saga cinematografica di Peter Jackson, il lavoro dell’instancabile Christopher Tolkien, e persino la quantità spropositata di pattume fantasy che deve confrontarsi con la storia dell’Anello del Potere, il fenomeno Tolkien è cresciuto enormemente, decisamente troppo per poter essere liquidato come semplice letteratura escapista. Con un gigante del genere nemmeno la tattica della Reductio ad Hitlerum poteva più funzionare. E quando non puoi sconfiggere il nemico devi cercare di portarlo dalla tua parte. Magari con una nuova traduzione, o con una bella serie tivù targata Amazon Studios. Ma chi scrive deve fermarsi qui. Meglio di lui, e sicuramente in maniera più equilibrata, tratta dell’argomento l’ottimo libro La Società della Contea, scritto da Luca Fumagalli e pubblicato da NovaEuropa Edizioni. Il tema del saggio, circa 140 pagine da gustare per approfondire gli aspetti morali e sociali del Legendarium, è quello del rapporto tra politica e Tolkien, o meglio, tra le principali ideologie e la visione della vita dello scrittore inglese. Nessun endorsement per i repubblicani o per il PD, sia chiaro. L’analisi va in profondità e più che di politica, in effetti, si potrebbe parlare quasi di una vera e propria weltanschauung tolkieniana.
La primissima parte del libro, insieme all’immancabile biografia dello scrittore, descrive la bizzarra avventura editoriale del Signore degli Anelli e i suoi rapporti con le diverse correnti culturali della seconda metà del Novecento, sia all’estero che in Italia. Al di là dell’excursus iniziale, il principale pregio del saggio è sicuramente quello di approfondire il lato politico dell’opera, sfatando allo stesso tempo vecchie semplificazioni, figlie di letture ideologizzate. Prendiamo ad esempio il caso della guerra. È facile trovarsi da una parte o dall’altra della barricata: Il Signore degli Anelli rimette al centro della storia la positività di uno scontro violento contro il male, o, al contrario, descrive l’avversità per la guerra del professore, rievocando i suoi ricordi tra le trincee del primo conflitto mondiale? È facile scambiare per mero pacifismo quello che emerge dallo scambio epistolare dello scrittore con il figlio, impegnato al fronte come pilota della RAF. Tolkien non può però ignorare che in un mondo essenzialmente corrotto dal peccato (la caduta di Melkor) lo scontro bellico non possa essere evitabile. La guerra di Aragorn, Eomer, Faramir e di tutti i personaggi più ‘marziali’ del libro, è però un conflitto difensivo, combattuto sinceramente per il Bene, quando nessun’altra via è percorribile. In termini teologici rispetta alla perfezione le regole della Guerra Giusta tracciate da Sant’Agostino. È un conflitto che nella narrazione resta secondario rispetto a quello spirituale combattuto da Frodo e Sam, ma che offre a molti personaggi l’occasione di giocare la propria parte nella lotta contro il male.
Altro tema spesso banalizzato è quello della lotta tra tecnica e natura. È “la macchina” di cui Tolkien stesso parla quando indica le tre colonne portanti della sua opera: “tutto questo materiale”, scrive nel 1951, “riguarda soprattutto la Caduta, la Mortalità e la Macchina”. Per ‘macchina’, attenzione, non si intende semplicemente l’industrializzazione con le sue ricadute ecologiche. Tolkien, in realtà, si basa su una visione premoderna: l’errore dell’uomo è la pretesa di farsi dio. Il non riconoscere i limiti morali inviolabili e la legge naturale. Nelle sue parole, la Macchina è “ogni uso di un piano o di espedienti esterni al posto delle proprie forze o dei propri talenti innati; o anche l’uso di quei talenti con l’intento corrotto di dominare […] La Macchina è la nostra forma moderna più ovvia, anche se più strettamente collegata alla Magia di quanto sia solitamente ammesso”. Magia, alchimia e tecnologia, nelle loro diverse forme, sono ‘anelli del potere’, strumenti che, per via della natura degli uomini, non possono che trasformarsi in idoli. Saruman – personaggio emblematico – “ha una mente di metallo e ruote”, abbatte gli alberi e combatte gli Ent, ma le sue malefatte contro l’ordine naturale non si fermano qui. Il più sapiente degli stregoni, ad esempio, si arroga il diritto di creare nuove forme di vita, praticando una sorta di eugenetica per generare esseri mostruosi e perfezionati per la guerra.
Se volessimo parlare in termini allegorici – e su questo probabilmente Tolkien non sarebbe d’accordo – Saruman rappresenterebbe il culto del progresso: “I Tempi Remoti non sono più. I Giorni Intermedi stanno passando. I giovani giorni stanno per cominciare. […] Ma abbiamo bisogno di potere, potere per ordinare tutte le cose secondo la nostra volontà in funzione di quel bene che soltanto i Saggi conoscono. […] Non vi sarebbe un vero cambiamento nelle nostre intenzioni; soltanto nei mezzi da adoperare”. Sembra un TED Talk, roba da moderni. In realtà è l’antico sogno dell’utopia terrena raggiungibile se solo ci si libera dei vecchi vincoli morali, inadatti alle sfide dei nuovi tempi. Nonostante le parole di Saruman e di tutti i personaggi che propongono di utilizzare l’Anello per sconfiggere il male, il vero bene non può essere raggiunto in questo mondo. E che dire della Contea? Non è forse perfetto, quell’angolo della Terra di Mezzo dove l’avventura inizia e finisce? Nel suo libro, Luca Fumagalli dedica un’interessantissima analisi alla tentazione di vedere la patria fantastica dello scrittore come una sorta di piccolo paradiso rurale, incontaminato dal male del mondo. Sembra che l’ingenuità e la pigrizia siano le mura che proteggono il reame degli hobbit dalla malvagità della gente alta.
Ma neppure la Contea è priva di difetti. Abitato in larga parte da gretti provincialotti, l’idilliaco paese è infatti una parodia della società borghese. Se da un lato si tratta di un territorio tranquillo e assolutamente ordinato, dall’altro le convenzioni e le tradizioni che lo governano finiscono per soffocare qualsiasi ambizione nei suoi abitanti. Sam Gamgee il sognatore viene velocemente riportato alla realtà dal gaffiere: “Elfi e Draghi! Cavoli e patate son fatti per gente come noi. Non t’impicciare degli affari dei tuoi superiori, o ti capiteranno guai a non finire”. Nell’incipit de Lo Hobbit, Bilbo reagisce con orrore alla proposta di Gandalf, vero incubo di ogni borghese: un’avventura. Il suo dramma? Far tardi per la cena. Una volta tornato a casa – una confortevole grotta arredata in stile vittoriano – il padrone di Casa Baggins è costretto a recitare quasi il ruolo dello ‘zio d’america’, uno hobbit eccentrico e un po’ svitato. A farne una celebrità non sono tanto i suoi racconti, buoni al massimo per spaventare i bambini, ma semplicemente il tesoro che è riuscito a portare a casa. Gli hobbit sono un popolo istintivamente buono, ma essenzialmente materialista.
Come riassumere in termini attuali la critica all’organizzazione socialista, al potere totalitario, al mondo moderno e alla mediocrità della mentalità piccolo-borghese? È possibile collocare Tolkien nello spettro politico di oggi? “Le mie opinioni inclinano sempre più verso l’anarchia (intesa filosoficamente come abolizione di ogni controllo, non come uomini barbuti che lanciano bombe), oppure verso una monarchia non costituzionale. Arresterei chiunque usi la parola stato (intendendo qualsiasi cosa che non sia la terra inglese e i suoi abitanti, cioè qualcosa che non ha né poteri né diritti né intelligenza); e dopo avergli dato la possibilità di ritrattare, lo giustizierei se rimanesse della sua idea!”, J.R.R. Tolkien
Tolkien non fu un conservatore nel senso moderno del termine, né un tradizionalista guenoniano. Detestò il nazismo e il socialismo, come tutte le ideologie totalitarie. Sicuramente non fu fascista, e criticò aspramente la democrazia liberale. Chi salta da un talk show all’altro ha difficoltà a comprendere la sua posizione, perchè questa appartiene a una tradizione che precede la dicotomia destra-sinistra, liberale e illuminista. La sua visione della politica potrebbe essere tomista. La sua concezione dell’uomo è agostiniana. La sua filosofia è medievale, nel senso che non concepisce la separazione tra l’etica dello stato e l’etica personale. Tolkien è in fin dei conti un cattolico. Ne La Società della Contea, questo aspetto è particolarmente analizzato dalla postfazione di Joseph Pierce. Tra i numerosissimi riferimenti alla Fede, nel romanzo sono presenti tre mastodontiche figure, tre salvatori che – ognuno a suo modo – sconfiggono la morte e rappresentano in alcuni aspetti Gesù Cristo. Il primo è Gandalf, che muore e risorge mentre guida la Compagnia. Il secondo è Aragorn: il “Re senza corona” si avventura nel regno dei morti, “discende agli inferi”, per offrire la possibilità di riscatto ai traditori, e torna in battaglia come condottiero. La terza figura indicata da Joseph Pierce è quella di Frodo. Lo hobbit riceve l’Anello a 33 anni, e il viaggio della Compagnia ha inizio con la sua partenza da Gran Burrone il 25 dicembre. Portando l’Anello, Frodo si fa in un certo senso agnello sacrificale dell’impresa, combattendo una battaglia spirituale per la salvezza di tutti. La sua morte non è fisica ma simbolica. Alla fine della storia, Frodo è costretto ad abbandonare la Terra di Mezzo; un addio che si risolve nella nuova vita ad ovest, con Bilbo, Elrond, Galadriel e Gandalf.
Le mie opinioni inclinano sempre più verso l’anarchia (intesa filosoficamente come abolizione di ogni controllo, non come uomini barbuti che lanciano bombe), oppure verso una monarchia non costituzionale
J.R.R. Tolkien
Esiste però un quarto personaggio ancora più rappresentativo, e forse fu proprio Tolkien a svelarcelo quando lo definì “l’eroe principale” del libro. È l’umile tra gli umili, Samvise Gamgee. Apparentemente goffo e spaesato tra la “gente alta”, è in realtà l’unico personaggio che non viene mai tentato dal potere dell’anello. Il giardiniere di Casa Baggins sopporterà con il suo amico le fatiche di un’impresa apparentemente senza lieto fine, sostenendolo per tutta l’avventura, persino quando sarà lo stesso Frodo a ordinargli di abbandonarlo. Ma la scena centrale è un’altra, descritta nell’ultima parte del romanzo e perfettamente rappresentata nel film di Peter Jackson. Mentre la battaglia infuria sotto l’ombra del Cancello Nero, Frodo cede alla disperazione e alla stanchezza sulle pendici del Monte Fato. Nel cuore del male sembra non esserci speranza. Lo hobbit si accascia sulle sue ginocchia e perde i sensi. È il fedele Sam a salvarlo portandolo sulle sue spalle. “Coraggio, signor Frodo” gridò. “Non posso portare io l’Anello, ma posso trasportare voi ed esso insieme”.
Se l’anello è il peccato, la croce da portare fino alla distruzione lungo la piana del Gorgoroth (o sulle pendici del Golgota), questa diventa la frase che da il senso al libro. Da cattolico Tolkien sapeva bene che nell’ora della prova non è possibile farcela da soli. Ci si deve affidare al nostro “Sam”. È il Salvatore, che non può portare l’anello per noi. Ma che può portare noi.