L'editoriale

The Old Pope

Le traiettorie degli opinionisti e dei mezzi di informazione sono infinite: dopo aver fatto passare Conte per uno statista e aver accusato Renzi di fare il "giocatore di poker", ora viene eletto Mario Draghi a uomo della Provvidenza, un nome ripescato proprio dal leader di Italia Viva. Il Presidente del Consiglio uscente, invece, viene liquidato in due battute. Su una questione però hanno tutti ragione: non possiamo leggere la premiership di Mario Draghi con "le categorie del politico" con cui interpretavamo il governo tecnico di Mario Monti.
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Se Matteo Renzi avesse accettato un governo senza Conte con la stessa maggioranza, con dentro Italia Viva, e un premier più vicino al PD che al M5S, si sarebbe rivelato il miglior alleato del Partito Democratico. Ci saremmo trovati di fronte a una legislatura degna della più alta forma di “cannibalismo”: gli italiani votano populista nel 2018, e dopo l’esperienza legastellata, si ritrovano un governo “giallorosso” divorato col passare dei mesi dalla componente più centrista e moderata del Partito Democratico. E invece la convocazione di Mario Draghi al Quirinale, il cui scopo è quello di sbloccare la crisi di governo aperta qualche settimana fa, ribalta questo scenario, ed impedisce sia a Giuseppe Conte sia al Partito Democratico, di tradurre in consenso i 209 miliardi di euro previsti da Bruxelles. Il suo nome circolava da tempo tra le righe della carta stampata. Finché qualcuno ha cominciato ad invocarlo (Matteo Renzi), a incontrarlo (Luigi Di Maio), ad auspicarlo (Forza Italia), o pensarlo (Matteo Salvini, spinto da Giancarlo Giorgetti). Eppure l’ex presidente della Bce non mostrava segnali di interessamento. Pur continuando ad agire silenziosamente. Ma il silenzio, si sa, in tempi di caos e di sovraesposizione mediatica, è la strategia più indicata per attirare l’attenzione su di sé, più efficace di qualsiasi diretta su Facebook o comparsata televisiva a reti unificate.

Mario Draghi ha capito prima di tutti i leader di opposizione che per ribaltare il tavolo in epoca epidemica occorreva occultarsi, scegliere il sentiero del “confinamento totale” piuttosto che alimentare la narrazione governativa dello stato di emergenza. Per quasi tutto il 2020 dunque si è rifugiato a Città della Pieve, nella campagna umbra, con qualche sortita a Roma per incontri di peso a porte chiuse. Fedele alla “mistica dell’oscurità”, fa solo intravedere la sua sagoma, prima a marzo sul Financial Times, poi d’estate al Meeting di Rimini, infine questo inverno tramite un rapporto del gruppo di grandi personalità internazionali che va sotto il nome di G30, e poco dopo si ritira di nuovo, nel nulla.

A fare il “lavoro sporco”, per aprire una breccia nelle linee nemiche, è la sua fanteria (non dichiarata): Dagospia. Un sito da quasi 1 milione di click al giorno che il terreno lo preparava da mesi. Prima ha trasformato “Mario Draghi” detto “Supermario” da “grigiocrate” a personaggio “pop”, raffigurandolo col bazooka, poi ha firmato un trattato provvisorio di pace con il suo acerrimo nemico Matteo Renzi, e infine ha attaccato in maniera martellante il punto debole di Giuseppe Conte: Rocco Casalino, soprannominato “Tarocco”. E nel momento decisivo, quando si è aperta la voragine, finge di essere disinteressato, piega il Quirinale, che nel frattempo smentisce la possibilità di una sua convocazione, e alla fine viene invitato dal Presidente della Repubblica in persona per sciogliere le riserve e prendersi l’incarico da presidente del Consiglio super partes (che ha accettato con riserva). Mario Draghi è l’incarnazione letterale del più grande manifesto contemporaneo di comunicazione politica: The Young Pope di Paolo Sorrentino. Vince chi osserva (e costruisce), non chi fa rumore. Del resto Mario Draghi ha studiato da giovanissimo in una scuola gesuita, il liceo Massimiliano Massimo di Roma, e tra suoi professori compare Padre Franco Rozzi, il quale insegnava la disciplina della concisione, che è sorella della precisione, ovvero la cura nel calibrare le parole, nel non dire mai una sillaba più del necessario. Ma ora è finito il tempo “della clandestinità” ed è arrivato il momento delle dichiarazioni.

Con Draghi, siamo di fronte a un caleidoscopio di contraddizioni (dirigente pubblico ma artefice delle privatizzazioni; banchiere d’affari ma anche Governatore). Né arcitaliano, poiché di “formazione prusso-americana” come scrivevano in un brillante saggio breve Alessandro Aresu e Andrea Garnero apparso su Limes nel 2015, né anti-italiano, ad eccezione del “discorso del Britannia”, sarebbe più corretto definire Mario Draghi un italiano anomalo. La traiettoria degli opinionisti e dei mezzi di informazione sono infinite: dopo aver fatto passare Conte per uno statista e aver accusato Renzi di fare il “giocatore di poker”, ora viene eletto Mario Draghi a uomo della Provvidenza, un nome ripescato proprio dal leader di Italia Viva. Il Presidente del Consiglio uscente, invece, viene liquidato in due battute. Su una questione però hanno tutti ragione: non possiamo leggere la premiership “tecnico-istituzionale” di Mario Draghi con “le categorie del politico” con cui interpretavamo il governo tecnico di Mario Monti. Il 2011 non è il 2021. Crescere a Milano non è come crescere a Roma. Formarsi in “Bocconi” non è come formarsi all’Università della Sapienza, con un keynesiano come Federico Caffè. Come scrivevamo le categorie del politico di oggi (tecnocrazia sovrannazionale vs sovranità nazionale, globalismo vs europeismo, competenza vs rappresentanza, gerarchia vs legittimità) non sono quelle di ieri (popolo vs élite), se effettivamente, a distanza di qualche anno, avevano davvero un senso profondo o fossero solo una narrazione del consenso per il consenso.

Ma soprattutto c’è differenza nel lavorare in un’Europa che chiedeva solo lacrime e sangue e in un’Europa che ora agisce come chiedevano i sovranisti prima dell’epidemia (ruolo centrale della Bce, abrogazione della parità di bilancio, spese a deficit, trasformazione del MES) e mette a disposizione 209 miliardi di euro nel Recovery Fund. Insomma, Mario Monti, doveva portare i soldi dell’Italia in Europa, Mario Draghi, deve invece portare i soldi dell’Europa in Italia. A pagare il conto è Giuseppe Conte: sul piano internazionale resta legato a un vecchio ordine costituito (quello dei due “occidenti contro”), mentre su quello nazionale è troppo pericoloso agli occhi di tutti i partiti che lo hanno appoggiato, dal Movimento 5 Stelle alla Lega, passando per il Partito Democratico.  Tutti sono in fondo d’accordo di fronte all’impossibilità di creare una nuova maggioranza, che l’Italia debba dotarsi di un premier che sia senza ambizioni politiche (ma solo quirinalizie) e abbastanza autorevole da inserirsi nell’asse franco-tedesco e far rispettare gli accordi del Recovery FundLes jeux ne sont pas encore faits. Staremo a vedere, ed eventualmente aprire nuove voragini.


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